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I padroni dei cani

Post n°1408 pubblicato il 26 Settembre 2016 da non.sono.io

Non farò giri di parole: io i cani li odio. Anzi di più, mi fanno ribrezzo. Basta la loro presenza in una stanza affinché inizi a percepire un puzzo putrescente di cacca mista a saliva. Poco importa se quell’odore esiste o no. Questa è la mia realtà, quindi è vera. Quando un cane mi si avvicina con quella sua lingua del cazzo, sempre a penzoloni, sempre intrisa di bava densa e maleodorante, rimango così schifato che mi paralizzo. Ritiro le mani portandole sopra le spalle, e spero che quelle macchie che le sue zampe mi stanno lasciando sui jeans appena lavati, siano solo fango. Guardo il padrone della bestia intimando con lo sguardo di riprendersi il suo sacco di carne sbavante, ma quelli ridono. Ridono gli idioti: “Ma ti vuole solo salutare”, “Non lo vedi che sta giocando?”, “Ti vuole bene”. Dire che un cane ti vuole bene, è come dire che la pornostar che ti sta fissando sul video di Youporn ti vuole scopare.
Perché in realtà peggio di un cane c’è solo il suo padrone.
I padroni dei cani non sono persone normali. Hanno sempre qualche mancanza, qualche buco, a volte nell’autostima, a volte nell’affetto materno, spesso usano i cani per non dover parlare con i propri compagni. Se mangi fuori casa, ti domandano se sei allergico al glutine, mai se per caso non ti tolga l’appetito lo sventolare dei peli del cane di quelli del tavolo a fianco. Brutta gente i padroni dei cani. Ti impongono i loro vizi dando per scontato che non esista al mondo nessuno al quale diano fastidio i cani. Sono come una lobby: si sono insinuati nel tessuto sociale e ne hanno preso possesso. Nei parchi ci sono dedicate delle zone appositamente per loro; possono entrare indisturbati nei ristoranti, nei bar, e in un sacco di posti pubblici, comprese le spiagge, mentre io, un umano che fuma, sono bandito come un appestato in qualsiasi luogo; un cane può urlare quanto gli pare, a qualsiasi ora, facendo rimbombare il suo latrato per tutto il condominio fino a quando non esce dal portone, ma se io sento la musica alle dieci e trenta della sera la vicina mi chiama i vigili.
I cani cagano. Praticamente non fanno altro tutto il giorno. Ai loro padroni piace, perché portare a defecare il proprio animale gli dà la possibilità di ritagliarsi un momento tutto per loro dove messaggiarsi con l’amante, o stringere amicizia con giovani cinofile in altri contesti completamente inarrivabili. Ai padroni dei cani la merda li fa respirare, si sentono liberi quando il loro cane espelle piccoli stronzetti destinati a incauti cittadini in infradito.
I padroni dei cani non sanno un cazzo dei cani. Dicono di amarli e infatti lo fanno. Ma nel modo malato con il quale espletano tutti gli altri loro sentimenti. Li tolgono alle madri appena nati, li portano in ambienti completamente alieni alla natura, dentro quattro mura, chiusi tutti il giorno ad aspettare che qualcuno torni a dargli polpette puzzolenti composte di scarti della lavorazione di altri animali. Li castrano. Oppure li costringono alla castità eterna. Li addestrano a regolare i loro bisogni primari con gli orari di lavoro di un essere umano. Li vestono come buffoni, umiliandoli di fronte al resto della fauna, gli insegnano esercizi le cui finalità sono solo rivolte al proprio soddisfacimento ludico. A che cazzo gli serve a un cane imparare a portare in bocca un paio di ciabatte?
Poi però mi guardano male. Quando dico che non mi piacciono i cani, fanno tutti un sorrisetto ironico. Stanno pensando che ho qualcosa che non va, che devo essere un po’ suonato e privo di qualsiasi sensibilità. Nel loro piccolo mondo affettivo fatto di merda, piscia e peli, uno come me è un alieno. Probabilmente da evitare. “Sono meglio le bestie degli uomini!”, mi avvertono. Io taccio, e non gli dico che solo un essere umano può arrivare capire i sentimenti di un altro uomo, mentre per comprendere quello degli animali, ci sta un documentario su Youtube.

 
 
 

Il figlio del mio migliore amico

Post n°1407 pubblicato il 19 Settembre 2016 da non.sono.io

Io e Marco c’eravamo conosciuti alle medie, poi siamo stati nello stesso istituto sia alle superiori che all’università, anche se in facoltà diverse. Naturalmente ci frequentavamo anche nel tempo libero, condividevamo il medesimo cerchio di amicizie, di locali, lui frequentava casa mia così come io la sua, i nostri genitori si conoscevano e a chi ci vedeva per la prima volta potevamo sembrare cugini. Poi non lo so. Deve essere successo qualcosa, in mezzo a due traslochi, tre convivenze fallite, un licenziamento e un’operazione all’ernia del disco, ma io a Marco non l’ho più visto. Succede così tra noi di città. Se imbocchi una traversa, se non percorri la stessa strada, ti ritrovi dall’altra parte della metropoli, in un altro posto, un altro universo lontano migliaia di semafori e non t’incontri più. Mai più. C’è più distanza tra l’EUR e Boccea che tra Roma e Oslo.
Così quando m’ha ritrovato su Facebook c’ho messo un po’ a capire chi fosse. Scrisse solo: “Sei tu?”, ma bastò a rievocarmi l’estrema confidenza di chi al citofono può dire “Io” sapendo che è sufficiente quello per farsi aprire la porta. Ci misi un po’ a rispondere. Mi è sempre sembrato un fatto innaturale questo di rivedersi dopo trenta anni, una di quelle cose per le quali non ci siamo ancora evoluti abbastanza, come lo stare in posizione eretta. Ma poi alla fine vinse la curiosità, e quella maledetta voce, che parla alla mia sinistra, che mi ripete costantemente di “non fare il solito”.
Ne è seguita una conversazione scritta durata circa una settimana, durante la quale, pur essendoci scambiati i numeri, non ci siamo mai sentiti telefonicamente. Trovo che fare il riassunto della mia vita scrivendo mi pesa meno che raccontarlo. Cerco di scendere il meno possibile in particolari; raccatto dalla memoria qualsiasi cosa sia utile a racimolare un qualche tipo di stima, fosse anche solo di cortesia; raduno i punti chiave in lunghe frasi con poche virgole, cercando di mascherare il fatto inoppugnabile che in trent’anni sono riuscito a malapena a sopravvivere. Marco invece, nel frattempo, è diventato il dirigente di un autosalone di auto di lusso, è sposato, felicemente, vive ai Castelli Romani, in una villetta isolata, ma accanto a un bosco. Di sua proprietà. Ha un figlio di un anno, e ha usato proprio lui per far leva sui miei supposti debiti di amicizia, e convincermi a vederci. “Dai, ci tengo, non puoi dirmi di no”.
Mentre guido ci ripenso, che no lo posso dire quando mi pare, e che quasi quasi adesso torno indietro, e gli telefono, anzi no, glielo scrivo. Che ho avuto un problema di famiglia, anche se non ho la famiglia, che c’è un incidente sulla Cristoforo Colombo è hanno paralizzato tutto il traffico fino al Raccordo e che mi dispiace ma che proprio non posso, che si dovrà rimandare. Perché fino a quando esistono le scuse siamo tutti liberi, sia chiaro.
Ma mentre penso a come fuggire il navigatore fa il suo sporco lavoro non retribuito, e mi porta proprio davanti al cancello in ottone della sua villa. Capisco che non ce la farò mai nemmeno a sembrare alla pari, così inizio a ragionare su quale motivo plausibile posso inventarmi per spiegare in termini universali che non è colpa mia se lui vive in una villa mentre io in affitto in un appartamento di settanta metri quadri, ma è che stato solo frutto di una serie inesplicabile di sfighe e di pianeti in posizione sbagliata. Mi viene in mente che potrei far finta di zoppicare. Induce sintomatico rispetto, a priori. Scendendo dall’auto faccio una specie di prova però Marco mi viene incontro all’improvviso sbucando da un cespuglio di more perfettamente sferico. Vengo travolto da una serie di convenevoli che mi stordiscono, complimenti sulla forma fisica a prolusione inventati di sana pianta visto che a Marco i pettorali quasi gli fanno saltare i bottoni della camicetta mentre io trattengo la pancia in un vano tentativo di conquistarmi un tozzo di dignità. Mi accompagna in casa mentre sto in una specie di trance. Appena dentro l’enorme salone in stile rivisitazione pop dell’epoca prerivoluzionaria francese, ci accoglie la moglie, un figone alto due metri e settantasette che cerca di celare la sua quarta sotto un velo di seta violetto. Ci sediamo tutti sul divano intrattenendoci con quei discorsi inutili con cui si riempiono le serate passate con la gente con cui si ha poca confidenza, poi Marco chiede alla moglie di andare a prendere il bambino “che ha insistito tanto per vederlo”. La stangona sparisce in uno dei seicento corridoi dai quali sembra sia percorsa questa casa. Marco è praticamente logorroico, e non so bene adesso a che punto è arrivato nel raccontare chi ha fatto il progetto della villa, perché io sto pensando ai cazzi miei e lui nemmeno se ne accorge. L’attesa dura poco, e subito rispunta la tizia con un fagotto in braccio. Dalla copertina sbuca una mano cicciottella che in verità mi fa pure un po’ di tenerezza, poi la donna passa il bimbo a Marco che lo rivolge verso di me. Rimango paralizzato. Avverto i loro sguardi fissi in quel sorriso tipico, legittimo, giustificato di chi ti mostra il proprio bambino per la prima volta, e che si aspettano da me una reazione altrettanto entusiasta. Però io non so che fare, non so come evitare di guardare quella specie di guanto a cinque dita che pende dalla fronte di quel ragazzino, e di frenare anche solo con le espressioni il manifestarsi il mio stato d’animo. Cazzo fa schifo. Voglio dire ha una specie di viso rotondo, paffuto, due occhioni azzurri che nessuno si fermerà mai ad osservare perché appena sopra, sulla fronte, ha come un grumo di carne pendula a forma di mano. E poi lui non sta fermo, naturalmente, si agita e fa versacci e quella cosa si muove e gli sbatte un po’ di qua e un po’ di là, e a me viene in mente quella volta che è venuto a trovarmi un amico con un cane che mi ha cagato in salotto. Mi sento uno schifo d’uomo, ma allo stesso tempo non posso trattenermi, non regolo i miei istinti li posso solo soffocare fino a quando ci riesco. Così sorrido impavido, ostentando normalità e penso a mia madre quando quella volta da ragazzino fissavo una donna che aveva i baffi lunghi come quelli un uomo, e lei mi sgridò sottovoce insegnandomi che non si osservano le persone diverse da noi, che poi loro stanno male. Mi sento meglio, sento che ce la posso fare, riesco perfino a simulare un pizzicotto sulle guanciotte inesistente. Sposto lo sguardo su Marco così mi distraggo e riprendo un poco di fiato. “Non riesco a capire a chi somiglia”, dico mentre penso “cazzo non lo dovevo dire cazzo non lo dovevo dire”. Marco ride: “Lo dicono tutti” e subito lancia uno sguardo complice alla moglie che a sua volta coglie l’occasione per chiedere una mano “per finire le ultime cose in cucina”. Marco mi porge il bambino in braccio. “Non avere paura che è tranquillissimo”. Rispondo con un sorriso sudato.
Rimaniamo solo io e lui in quella stanza enorme. Fisso una parete, cerco di non abbassare lo sguardo, non potrei resistere quell’ammasso di grasso e chissà cosa, mi fa venire i brividi solo a pensarci. Con le manine sento che mi sfiora il mento, ma io non mi volto resto immobile, allora lui fa un movimento repentino nel tentativo di afferrarmi e forte di quella spinta un lembo di quella massa che ha nella fronte si lancia come un tentacolo, mi tocca una spalla e: “Oh!” urlo schifato come fossi circondato da scarafaggi, senza pensarci mi alzo di scatto, allargo le braccia.
E poi il tonfo.

 
 
 

Il bagno degli altri

Post n°1406 pubblicato il 13 Settembre 2016 da non.sono.io

Mi ha fatto sempre sorridere questa usanza che hanno gli ospiti di mostrarti casa la prima volta che ti invitano. Nella maggior parte dei casi abitano in appartamenti ridicoli con due stanzette, dove a malapena si respira, che loro ti indicano con l’orgoglio patetico che hanno tutti i poveri quando esibiscono le loro pochezze. Si sbracciano nell’indicarti i mobili fatti di cartone pressato, disegnati per arredare la cameretta di un bambino, passano fintamente distratti davanti a suppellettili ridicoli per attirare su di loro l’attenzione e descriverli nei loro minimi particolari, dando per scontato il tuo interesse. Alla fine del giretto delle quattro pareti, si giocano il piatto forte, quello che li convinse a firmare per il mutuo trentennale a tasso fisso e vita variabile. Di solito è un balcone, con le immancabili piantine di basilico, o peperoncino, confinanti con uno stendino mezzo arrugginito che occupa la metà dello spazio. La vista consiste una fila di palazzi davanti a una tangenziale che si contende il panorama con la nebbia. L’uomo si spenderà in mille congetture per farti capire in che modo i suoi interventi sulle maioliche della cucina abbiano migliorato la vivibilità nella casa; la donna ti tirerà un braccio per potarti vicino alle tende che ha scelto in un negozio artigianale di un paesino di provincia toscano. Le tende, non si sa perché, sono sempre viola.
Fingo smisurato interesse, e mi dilungo a ribadire quanto bene abbiano fatto a comprare la casa, in questa zona, che secondo me è stato un affare, faccio loro i complimenti, mai esagerati. Basta ripetere quello che hanno detto loro, ma con più enfasi. Siccome sono anni che recito la parte, sono diventato molto bravo, e tutti rimangono molto soddisfatti nel constatare che io sembro più convinto di loro. Lo faccio per dare spazio al mio lato “umano”; gli faccio fare un giretto, come quando si portano i cani a pisciare.
Una volta che gli eghi degli ospiti smettono di sentirsi in pericolo, allora tutti si rilassano. La prova è superata, si può passare ad altro, di solito a qualcosa che ha a che fare col cibo o col bere. Quello è il momento in cui chiedo se posso andare in bagno. Anzi in verità non chiedo nulla, semplicemente dichiaro che vorrei lavarmi le mani, fingendo sintomatico dubbio nello scegliere una delle uniche tre porte presenti in casa. E’ la donna, sempre lei, a indicarmi la rotta, quando si tratta di bagni. Sono sicuro che la maggior parte di loro pensano: “Speriamo che non mi pisci di fuori”. Ma io non lo farò, semplicemente perché non cerco il bagno per usarlo.
Adoro i bagni degli altri perché più di tutto li rappresenta, e puoi conoscere cose incredibili sull’umanità quando li ispezioni. Iniziai da giovane, una volta che a casa di un compagno di scuola trovai dei vasi di fiori nel bidet. Fu come un’illuminazione. Sembrava una famiglia così normale, così comune, ed è meraviglioso scoprire la banalità della follia. Da allora ogni volta controllo il bagno degli altri. La prima cosa che faccio è lavarmi le mani. Mentre lo faccio cerco le macchie di calcare sul rubinetto, conto il numero e classifico l’origine dei peli appicciati alle pareti del lavandino, a volte nascosti a volte non troppo. Che molte persone pisciano nel lavandino, è una di quelle realtà che la società si nasconde, come il fatto che le coppie di lunga data non scopano più. Poi passo ad esaminare gli spazzolini, la loro pulizia e grado di consumazione. Apro il cestino dei rifiuti, dove c’è, e ne verifico il contenuto. Spesso ci trovo delle cose interessanti, tra le quali scatole di creme per le emorroidi, di lubrificanti vaginali, bustine di preservativi aperti, campioncini di prodotti per la ricrescita dei capelli. Mi asciugo le mani con la prima cosa che trovo, di solito un accappatoio, non so per quale motivo ma li preferisco. Vado a controllare gli angoli nascosti: sotto gli armadi, sopra le mensole, tra i barattoli di sapone, e ne verifico la quantità di polvere depositata, la consistenza di quel guano chimico che formano dopo un po’ i fluidi fuoriusciti dai flaconi. Mi affascina conoscere quali zone del bagno i padroni di casa considerino inutili, perché mi fa immaginare quali siano le loro normali abitudini quando entrano in questa stanza. La doccia me la lascio per ultima perché è la parte migliore, quella che di solito mi dà più soddisfazioni. Adoro le docce malandate, con le macchie di umidità intorno ai telefoni, osservare gli strati di calcare che ne otturano i forellini d’uscita, accarezzare le spugne logore e macchiate. In basso c’è sempre un tappetino di plastica, alcuni hanno forme di animali, e quasi tutti sono stampati con motivi orribili che ricordano l’Italia del dopoguerra. Intorno li incornicia una macchia nera di sporco non identificato, sedimentatosi negli anni come fossili modellati dalle ere. Il tempo a mia disposizione a quel punto finisce. Farò altre visite durante la serata, ma solo per fissarmi bene in mente i particolari.
Quando esco gli ospiti mi sorridono. Mi invitano a sedermi a tavola, che è pronto, e io mi dimostro entusiasta dei piatti, domando a proposito degli ingredienti, faccio i complimenti e prometto assunzioni di cuochi personali.
Poi inizio ad ispezionare le posate.

 
 
 

E luce fu

Post n°1405 pubblicato il 20 Dicembre 2015 da non.sono.io

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Gli elefanti

Post n°1404 pubblicato il 15 Dicembre 2015 da non.sono.io

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