Vento notturno

La perversione del filosofo


  - Il mito del toro bianco di Pasifae            Ciò che per me è peculiare del filosofo è quella sorta di perversione che gli rende impossibile accontentarsi di ciò che appare, qualsiasi cosa appaia, in qualunque modo appaia. Quel voler guardare sempre “dentro” le cose. Quel non fermarsi mai alla prima evidenza, ma, immediatamente, anche se gli si presentassero innanzi due alternative tra le quali poter tranquillamente scegliere, aggirarsi inquieto alla ricerca di una possibile terza opzione. Insomma quella vocazione a rompere gli schemi (e a volte non solo quelli…), anche se da lui stesso appena creati.            Assumendo questa prospettiva, ciò che viene immediatamente e irrimediabilmente compromesso è proprio quell’esigenza che mi sembra guidare le argomentazioni  di chi si preoccupa di salvare il lato pratico (nel senso kantiano, quindi il lato etico) della filosofia. Per agire, bisogna partire da un dato, qualunque esso sia, e decidere. Anche magari accettando, talvolta, di dare per buone delle premesse per nulla certe o dimostrate. Per agire, bisogna abituarsi all’idea che non potremo mai sapere prima se ciò che faremo risulterà, poi, giusto, adeguato, corretto, o totalmente e irrimediabilmente sbagliato. La pretesa di conoscere in anticipo gli effetti di ogni nostro atto porterebbe alla paralisi.           Da queste premesse mi pare emerga che il filosofo, piuttosto, è un essere poco portato all’azione, alla prassi. Il “sapere” più specificamente filosofico non è tanto il sapere pratico (la phrònesis), quanto piuttosto quello che deve fare i conti con la metafisica, qualunque cosa indichi oggi, o abbia indicato ieri, questa parola. In questo senso mi sembra più che corretto il punto di vista di chi afferma che la filosofia non serve a nulla (un po’ come la poesia). Ma a me piace pensare che l’unico che “non serve” è proprio il padrone, cioè colui che viene servito. Ci pensino dunque le altre scienze a “servire” la (alla) filosofia.             La domanda quindi diventa: perché mai dovrei occuparmi sempre e solo di qualcosa che “serve”? Perché ogni mia occupazione deve essere sempre e solo un mezzo per qualcos’altro, e mai un fine in sé? E poi, interpretando la validità di un’azione sempre e solo in base allo scopo cui essa tende, ogni scopo parziale non diventa poi necessariamente un mezzo per uno scopo successivo? E allora, qual è poi, in definitiva, lo scopo ultimo?            Si dice che Socrate, poco prima di bere la cicuta, si fece dare l’ultima lezione di musica dal suo insegnante di lira. A chi (abbastanza indelicatamente, direi) gli chiedeva a cosa mai potesse servire seguire una lezione poco prima di morire, egli rispose semplicissimamente: “mi piace imparare”.            Questo è per me il filosofo e la filosofia. Qualcuno e qualcosa di necessariamente legato al fine ultimo, che poi è, molto banalmente, vivere. Vivere una vita degna di un essere umano compiuto significa pensare, porsi domande, mantenersi sempre aperti all’ascolto, perché in ogni momento e da chiunque possiamo imparare qualcosa. E riflettere. E guardarsi intorno con occhi sempre curiosi e capaci di stupore. E rimanere capaci di riempirsi gli occhi e il cuore di bellezza, e di emozionarsi.             E scrivere. Per cercare di comunicare a qualche nostro simile tutto questo.