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Così Manzoni insegna che il prezzo del pane non rispetta gli ordini

Post n°2 pubblicato il 08 Agosto 2008 da rassegnastampa.ds
 

Il pane di Stato? “Potrebbe essere un’idea”, secondo il ministro dell’Agricoltura, Luca Zaia. Chissà se l’esponente della Liga Veneta si è mai cimentato nella lettura del padanissimo, ancorché lombardo, Alessandro Manzoni, o almeno del capitolo 12 dei “Promessi sposi”. E’ il 1628 e il raccolto è deludente, per il secondo anno di fila: i prezzi del pane crescono, il popolo protesta, diventa sospettoso nei confronti degli speculatori (che accumulerebbero il grano per lucrare sulla fame altrui). Governa il capoluogo lombardo il gran cancelliere Antonio Ferrer: “costui vide, e chi non l’avrebbe veduto? – scrive Manzoni – che l'essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla… Fece come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di battesimo”. Neppure nella Milano del Seicento il provvedimento poteva reggere, in quanto i panettieri non potevano creare il pane dal nulla, né sfuggire alle inflessibili leggi del mercato: la faccenda finì per attorcigliarsi e fu necessario nominare una commissione d’esperti, la quale “dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una deliberazione da una necessità sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una gran carta, ma convinti che non c'era da far altro, conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì”. Scoppiarono le rivolte e gli assalti ai panifici, ed è in questo contesto che Renzo arrivò a Milano e accadde quel che sappiamo.

Ecco, se Zaia meditatasse sull’insegnamento di Manzoni, si renderebbe conto che il controllo dei prezzi non funziona perché non può funzionare. Un prezzo non è un numero estratto dalla ruota della fortuna: è il veicolo di un’informazione, che dice quanta di una data risorsa è disponibile, ed equilibra domanda e offerta. Se la politica fissa prezzi troppo alti, una quota di consumatori resta ingiustificatamente insoddisfatta; se il prezzo è troppo basso, sono i produttori ad abbandonare la piazza. La risposta del mercato sono le code. Probabilmente il ministro non intende arrivare a tanto, e la sua è stata solo una comprensibile sparata demagogica. Ma è anche un’uscita pericolosa, perché strizza l’occhiolino agli istinti più bassi della popolazione, innesca un pericoloso “blame game” di cui la caccia ai profittatori è il logico passo successivo. Oppure, potrebbe accadere che quello che viene preso per vero, pur non essendolo, per il pane, si propaghi poi ad altri settori. Il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, ha detto che occorre tenere alta la guardia sui prezzi. E, nella scorsa legislatura, era stato il suo predecessore, Pierluigi Bersani, a recitare la parte di Antonio Ferrer, con tanto di creazione della figura di Mr Prezzi – un funzionario senza poteri se non quello di “moral suasion”, cioè di minaccia, che l’attuale governo si è ben guardato dall’eliminare.

In realtà, assieme alla terapia controproducente, Zaia ha pure identificato una ragione reale per il caro-pane, e cioè l’inefficienza della politica agricola comune (Pac). Solo che poi la sua risposta non è meno Pac e più libertà di mercato, ma il contrario: egli pare convinto che gli agricoltori europei non possano sopravvivere se non sono circondati dai dazi e dopati dai sussidi. Eppure, non v’è nulla di più evidente che, oggi, il miglior incentivo alla produzione sono proprio i prezzi prevalenti sui mercati internazionali. Se il costo degli aiuti è il prezzo di Stato, il pane finirà per mancare e il paese continuerà a sventolare bandiera bianca.

Carlo Stagnaro (il Foglio del 2/8/08)

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