Se questo è federalismo fiscale

Post n°5 pubblicato il 23 Agosto 2008 da rassegnastampa.ds
 

Che cos’è il federalismo fiscale? Il ministro Calderoli si lamenta che l’opinione pubblica non capisce quanto in profondità cambierà le nostre vite. Se è il governo per primo a non spiegarlo, costretto a destreggiarsi nel fuoco di fila di interessi contrapposti e inconciliabili, c’è poco da stupirsi. Il sospetto, in questa vasta chiacchiera su una bozza di riforma che per ora hanno visto in pochi, è che il federalismo fiscale sia se non solo soprattutto una cambiale politica. E’ il prezzo che Berlusconi deve pagare per l’appoggio della Lega. La quale, a sua volta, ne ha bisogno per piantare finalmente una bandierina, in vent’anni di lotte padaniste. Ma che succede se la bandierina vale di più dei contenuti?

In Italia, un’articolazione federale dello Stato prenderebbe atto del grande pluralismo del nostro Paese - nel quale, per certi versi per fortuna, l’opera di unificazione non è mai stata  portata a compimento. Il federalismo fiscale dovrebbe servire a ripartire le responsabilità. I suoi benefici sono di ordine dinamico. Quando Luca Ricolfi scrive sulla “Stampa” che il federalismo fiscale dovrebbe aiutare a ridurre l’evasione fiscale nel Mezzogiorno e migliorare l’efficienza delle amministrazioni pubbliche, fa riferimento per l’appunto a due benefici dinamici del federalismo fiscale. Il quale deve essere, allora, federalismo competitivo.

Questo significa che, spostando su un livello di governo più basso le competenze fiscali, alle regioni verrebbe data la possibilità di mettersi in concorrenza, l’una con l’altra, per attrarre contribuenti: individui e imprese. Il fatto che prelievo e spesa “rimangano” a livello locale consente la vera scommessa del federalismo: che, cioè, potendo il singolo toccare con mano l’utilizzo che viene fatto delle tasse che gli vengono prelevate, possa esservi una sanzione politica forte, per amministratori esosi, inefficienti e spreconi.
Essendo in concorrenza l’una con l’altra, alcune amministrazioni potrebbe dare servizi molto generosi, a fronte di un prelievo più importante, altre servizi minimi, a fronte di tasse ribassate. Trattandosi di unità molto piccole, per gli individui si abbassano i costi del trasferimento da una all’altra (spostarsi dalla Lombardia al Piemonte non è come lasciare Milano per San Francisco). Il fatto che controllare il governo locale sia più facile, e che muoversi costi di meno, dovrebbe permettere di mimare, nel pubblico, le virtù della concorrenza di mercato.

Il federalismo fiscale è questa roba qui. Che non è, oggi, nella testa di nessun esponente politico. Sia perché richiederebbe, a monte, una serie di riforme politicamente costose (a cominciare dal riordino degli enti locali). Sia perché sarebbe un cambiamento che avrebbe un impatto devastante sullo status quo del Sud del Paese, imponendo una rivoluzione alla mentalità dell’élite locali così come dell’elettorato.
Non a caso, la discussione è tutta centrata su alcuni punti, talora apprezzabili (la necessità del superamento della spesa storica a favore del finanziamento al costo standard di sanità, assistenza e istruzione per esempio), che attengono esclusivamente questioni di spesa. Ne risulta, per ora, una partita a scacchi fra parrocchiette regionali, il cui obiettivo è il disegno di una nuova redistribuzione delle risorse nazionali, attraverso un sistema che sarà prevedibilmente complicatissimo (trasferimenti, più compartecipazioni di spesa, più tributi propri ma fissati in modo eguale da Roma, più tributi propri con una limitata flessibilità locale, etc). Dovendo dare un consiglio al ministro Calderoli, gli raccomanderemmo di ricordarsi che è ministro della semplificazione.

E’ chiaro che Calderoli si muove come può, per piantare la sua bandierina di qui alle prossime elezioni. All’epoca della campagna secessionista della Lega, però, Umberto Bossi iperbolicamente arrivava a promettere che il Nord si sarebbe accollato tutto il debito pubblico italiano, pur di essere “lasciato andare”. L’indipendenza era una cosa che il Settentrione era disposto a “comprarsi”. Oggi, al contrario, si sta ragionando su come dividere una torta, e non su come attribuire autonomia fiscale, di bilancio e di iniziativa agli enti locali. L'idea stessa che si insista molto, nel presentare le linee guida, sull'esigenza di adottare un criterio “premiale” per le regioni virtuose, lascia intendere che non si vuole rendere realmente autonomi e finanziariamente indipendenti i vari enti.

Il rischio è che si continui a montare la panna, si disperda tempo e consenso in un tentativo di riforma istituzionale quando forse il capitale politico del governo andrebbe impiegato su temi più urgenti, ci si metta in una posizione per cui, aggiusta di qui aggiusta di là, gli interessi degli amministratori locali non vengono scalfiti - ma non si innestano neppure quei meccanismi virtuosi che permetterebbero ai cittadini di vedere le unità amministrative competere per esigere meno tasse e fornire servizi migliori. Che poi sarebbe il vero motivo per cui effettivamente, come dice Calderoli, il federalismo potrebbe cambiarci la vita.
Alberto Mingardi         
Da Il riformista, (23 agosto 2008)

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Un pò di storia della prostituzione

Post n°4 pubblicato il 20 Agosto 2008 da rassegnastampa.ds
 
Foto di rassegnastampa.ds

Lettera di un lettore de "Il Giornale" a Paolo Granzotto

"Caro Granzotto, è evidente che la prostituta nigeriana la cui fotografia, sdraiata sul pavimento di una cella, ha tanto indignato la sinistra non è stata trattata così male, perlomeno non quanto bastava a farla rigare dritto almeno per un po’. Leggo infatti che è stata nuovamente fermata mentre esercitava la sua professione lungo un viale. Mi dica, potremmo mai, magari ritornando alle case chiuse, liberare i nostri marciapiedi da quello spettacolo? Ma davvero la prostituzione è il mestiere più antico del mondo? E non si è mai tentato di debellarla?"

Risposta di Granzotto:

La mia idea è che la professione più antica del mondo sia quella del ladro e che la prostituzione segua a ruota. E questo perché il soldo facile ha sempre goduto, ancor prima che i fenici inventassero la moneta, grande favore. Ora va di moda sostenere che le prostitute siano tutte vittime, schiave costrette con la violenza a battere il marciapiede o a ricevere nei loro monolocali. Per qualcuna sarà certo così, ma per il grosso dell’armata del sesso a pagamento è una scelta, talvolta determinata dai fatti, ma quasi mai per mancanza di alternative. Mestiere antico, dunque, che qualcuno sostiene sia nato come culto religioso. È noto che già cinquemila anni fa la ierodulia, la prostituzione sacra, era praticata dai babilonesi. La regola era che ogni donna avesse il dovere di dimorare almeno una volta nel tempio di Isthar, l’Afrodite dei greci, la Venere dei latini, e offrirsi - a pagamento - al primo che la sceglieva. Erodoto, che dedicò qualche pagina alla prostituzione sacra, racconta che donne non particolarmente attraenti potevano aspettare anche anni prima di finalmente e trionfalmente immolarsi alla dea Isthar. Di origine orientale, la ierodulia fu in seguito adottata dalle altre civiltà ed è certo che fosse praticata in Grecia, in specie attorno a Corinto (siccome la «prestazione» aveva un prezzo assai alto, ne nacque, fra i romani, un modo di dire: «Non licet omnibus adire Corinthum», Non è da tutti poter andare a Corinto). Si sa, poi, che era d’uso comune in Italia fin dai tempi arcaici, anche se conobbe il massimo sviluppo sotto Roma (Portovenere pare tragga il suo nome da un tempio, dedicato alla dea, dove si praticava la ierodulia). Come vede, caro Carretta, più che debellarla, nell’antichità la prostituzione la si promuoveva, ammantandola di sacro.
Bisogna poi aggiungere che anche la Chiesa ebbe per secoli un rapporto non esattamente conflittuale con la prostituzione. E non tanto per la benevolenza nei confronti delle Maddalene, non tanto per quel «Scagli la prima pietra...», ma per ragioni etiche. Il matrimonio era ritenuto, infatti, una cosa troppo importante per essere condizionato dall’attrazione fisica o da questa messo in seguito in pericolo. Per cui l’uomo (non la donna: niente par condicio, ai tempi) sfogasse i suoi bassi istinti alla larga da fidanzate e mogli con donne che, ovviamente, non fossero fidanzate o mogli d’altri. Ovvero con le sgualdrine. Non che se ne debbano trarre conclusioni avventate, ma nella Roma papalina le prostitute erano dette, in linguaggio burocratico, «donne curiali». E questo perché alla Curia e precisamente al cardinal Vicario dovevano richiedere la licenza per esercitare e, una volta ottenutala, versare mensilmente la tassa sugli utili. Anche i postriboli erano controllati e tassati dalla Curia. Che da quell’attività trasse il necessario per erigere l’intero Borgo Pio (quello a ridosso del Vaticano) e per permettere a Leone X, che da buon de’ Medici amava il bello, di tracciare, su disegno del Sangallo, quella che oggi è via di Ripetta e che allora, va da sé, si chiamava via Leonina (subito ribattezzata da Pasquino via Lenonina).

Paolo Granzotto (19/08/2008) 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Pane al pane

Post n°3 pubblicato il 08 Agosto 2008 da rassegnastampa.ds
 

Riportiamo la lettera con cui il ministro delle Politiche agricole, Luca Zaia, risponde sul quotidiano Il Foglio alle critiche di Carlo Stagnaro in merito al “prezzo di Stato” per il pane.

Ah, il mercato! Le meraviglie del mercato! Ineluttabile e infallibile. Scopri, poi, ma guarda caso nello stesso giorno in cui si dà del passatista al Ministro dell’Agricoltura, che Putin sta pensando di nazionalizzare l’Agenzia che esporta grano russo nel mondo. Non certo quote di cui infischiarsi, perché stiamo parlando di 13 milioni di tonnellate di grano all’anno. Per schernire il Ministro, ci si rifà al bellissimo capitolo sulla rivolta del pane, descritto così bene da Manzoni. Ci si dimentica però di ricordare che non stiamo vivendo nel ’600, sia pure tardo, ma in un’epoca assai diversa, anche se la questione, ora come allora, era ed è la capacità produttiva dei contadini. Proviamo a dire, con qualche approssimazione, di che cosa stiamo parlando. Parliamo innanzitutto, di pane e poi di prezzi. Il pane per questa civiltà è qualcosa di più che un cibo. Ha un valore simbolico di cui tutti, anche la politica, devono tener conto. Non mi soffermo sulle conseguenze culturali, sociali e politiche di quest’affermazione, non avendo l’abitudine di prendere per bischeri i miei interlocutori.

Poi, i prezzi. All’origine, un chilo di pane comune costa 0,2 centesimi di euro, che diventano 0,38 all’ingrosso. Ma esplodono a ben 3,25 euro al consumo. Solo colpa del mercato? Da giugno 2007 a giugno 2008 il pane comune è aumentato del 13 per cento e sta aumentando a un ritmo di 80 centesimi al mese, che diverranno presto, se non si pongono rimedi, un euro d’incremento ogni trenta giorni. Solo il mercato? La politica nulla c’entra? Il governo nulla deve fare? Ad esempio, la speculazione internazionale che è responsabile, in parte cospicua, di tale straordinario incremento che arricchisce solo alcuni, pochi, redditi, è terreno cui il governo deve rimanere estraneo? La prima responsabilità di chi governa è la capacità di previsione.

Ebbene, oggi facciamo i conti con la disastrosa incapacità previsionale di chi – lobbisti, illusionisti e visionari – per interi lustri ha voluto snervare la capacità produttiva delle aziende agricole (al grido di “libero mercato”, s’intende) e oggi ci inchioda in un mondo che ha penuria di cibo. Nulla fecero contro costoro decine di governi. All’Europa mancano due milioni di tonnellate di latte, mezzo milione di tonnellate di carne, milioni di tonnellate di cereali. Tra cui, appunto, il grano. Invece di agire, abbiamo sovvenzionato l’agricoltura per “non” produrre: sovvenzioni, queste sì scellerate e frustranti. Siamo soggiogati dalla miopia ideologica che non fa vedere ai tanti intellettuali éngagès che il mercato globalizzato non esiste. Per esistere, infatti, dovrebbe essere “equo e solidale”. Dove sta l’equità quando si produce in tante parti del mondo con il ddt, che rende le ciliegie meno costose e rosse rosse, ma, ops!, fanno venire anche il cancro al fegato. Dove sta la solidarietà, quando a lavorare sono decine di milioni di schiavi e di schiave, anche bambini, che producono senza regole e senza diritti, abbattendo, ovviamente, i costi di produzione di chi poi esporta sottocosto in Europa? Dove sta il mercato – e mi fermo qui per carità dovuta al lettore – quando da anni l’Europa e l’Italia sono oggetto costante di dumping impunito, tollerato e sostenuto?

Il Ministro dell’agricoltura dice: lasciateci produrre. Aiutiamo le aziende agricole a uscire dal regime che le voleva trasformare in fantasmi e che ha usato per cogliere l’obiettivo la politica delle quote. E sconfiggiamo il “cupio dissolvi” di chi crede che sia impossibile tornare a una dimensione economica dell’agricoltura. Suggerisco un’ipotesi di lavoro per il pane: mettiamoci al lavoro con le parti in causa – produttori, dettaglianti e consumatori – e proviamo a vedere se quel che è possibile a Matera, dove assieme si è stabilita una forbice minima e massima del prezzo tra 1,4 e 2,2, è realizzabile pure a livello nazionale e solo per la tipologia “pane comune”. Nessuno, tanto meno il Ministro delle “politiche” agricole vuole mettere in discussione la necessità del mercato. Ma che sia un mercato libero in cui tutte le parti rispettino le regole. Altrimenti, non si chiama mercato, ma Far West.

da Il Foglio, 3 agosto 2008

Risponde Carlo Stagnaro
Non mi pare che il ministro Zaia risponda specificamente ad alcuno dei punti da me sollevati. Egli denuncia l'aumento del prezzo del pane dal produttore al consumatore, e quindi, in qualche maniera, se la prende con la catena di intermediazione. La risposta più ovvia è quella di accorciare la filiera, come accade per esempio in alcuni progetti di Coldiretti. I consumatori possono scegliere se acquistare i prodotti agricoli, spendendo meno, presso il produttore, oppure comodamente sotto casa. Non c'è alcun ruolo che la politica possa giocare. Sulla Pac, il ministro dice cose giuste, ma poi il frutto non cade lontano dal ramo: come questo e altri suoi interventi dimostrano, non ha in mente di liberare l'agricoltura europea dalla Pac, ma solo di rivederne i meccanismi. Sorvolo sulla tirata antispeculatori, così come sull'affermazione - davvero stupefacente - che per esistere il mercato globalizzato dovrebbe essere "equo e solidale", qualunque cosa ciò significhi. Dopo di che, Zaia ignora del tutto i rilievi miei e soprattutto l'insegnamento di Manzoni, e passa dal prezzo di Stato per il pane a una forbice di prezzi, sempre definita dallo Stato, sull'esempio di quanto accade a Matera (!). Se non è zuppa è, appunto, pan bagnato. (cs)

Luca Zaia (foglio 3/08/08)

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Così Manzoni insegna che il prezzo del pane non rispetta gli ordini

Post n°2 pubblicato il 08 Agosto 2008 da rassegnastampa.ds
 

Il pane di Stato? “Potrebbe essere un’idea”, secondo il ministro dell’Agricoltura, Luca Zaia. Chissà se l’esponente della Liga Veneta si è mai cimentato nella lettura del padanissimo, ancorché lombardo, Alessandro Manzoni, o almeno del capitolo 12 dei “Promessi sposi”. E’ il 1628 e il raccolto è deludente, per il secondo anno di fila: i prezzi del pane crescono, il popolo protesta, diventa sospettoso nei confronti degli speculatori (che accumulerebbero il grano per lucrare sulla fame altrui). Governa il capoluogo lombardo il gran cancelliere Antonio Ferrer: “costui vide, e chi non l’avrebbe veduto? – scrive Manzoni – che l'essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla… Fece come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di battesimo”. Neppure nella Milano del Seicento il provvedimento poteva reggere, in quanto i panettieri non potevano creare il pane dal nulla, né sfuggire alle inflessibili leggi del mercato: la faccenda finì per attorcigliarsi e fu necessario nominare una commissione d’esperti, la quale “dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una deliberazione da una necessità sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una gran carta, ma convinti che non c'era da far altro, conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì”. Scoppiarono le rivolte e gli assalti ai panifici, ed è in questo contesto che Renzo arrivò a Milano e accadde quel che sappiamo.

Ecco, se Zaia meditatasse sull’insegnamento di Manzoni, si renderebbe conto che il controllo dei prezzi non funziona perché non può funzionare. Un prezzo non è un numero estratto dalla ruota della fortuna: è il veicolo di un’informazione, che dice quanta di una data risorsa è disponibile, ed equilibra domanda e offerta. Se la politica fissa prezzi troppo alti, una quota di consumatori resta ingiustificatamente insoddisfatta; se il prezzo è troppo basso, sono i produttori ad abbandonare la piazza. La risposta del mercato sono le code. Probabilmente il ministro non intende arrivare a tanto, e la sua è stata solo una comprensibile sparata demagogica. Ma è anche un’uscita pericolosa, perché strizza l’occhiolino agli istinti più bassi della popolazione, innesca un pericoloso “blame game” di cui la caccia ai profittatori è il logico passo successivo. Oppure, potrebbe accadere che quello che viene preso per vero, pur non essendolo, per il pane, si propaghi poi ad altri settori. Il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, ha detto che occorre tenere alta la guardia sui prezzi. E, nella scorsa legislatura, era stato il suo predecessore, Pierluigi Bersani, a recitare la parte di Antonio Ferrer, con tanto di creazione della figura di Mr Prezzi – un funzionario senza poteri se non quello di “moral suasion”, cioè di minaccia, che l’attuale governo si è ben guardato dall’eliminare.

In realtà, assieme alla terapia controproducente, Zaia ha pure identificato una ragione reale per il caro-pane, e cioè l’inefficienza della politica agricola comune (Pac). Solo che poi la sua risposta non è meno Pac e più libertà di mercato, ma il contrario: egli pare convinto che gli agricoltori europei non possano sopravvivere se non sono circondati dai dazi e dopati dai sussidi. Eppure, non v’è nulla di più evidente che, oggi, il miglior incentivo alla produzione sono proprio i prezzi prevalenti sui mercati internazionali. Se il costo degli aiuti è il prezzo di Stato, il pane finirà per mancare e il paese continuerà a sventolare bandiera bianca.

Carlo Stagnaro (il Foglio del 2/8/08)

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

IN MEZZA EUROPA SI FA LA SECESSIONE...

Post n°1 pubblicato il 03 Agosto 2008 da rassegnastampa.ds
 

...PERCHE' IN ITALIA NO?

 Il Belgio sembra avviato verso una serena separazione fra Fiamminghi e Valloni: le sole questioni insolute riguardano dettagli di confine fra le parti. Niente di traumatico: come la divisione dei mobili fra coniugi che si lasciano. É solo l’ultimo caso. In due decenni in Europa è sbocciata più di una dozzina di nuovi Stati. Altri stanno avviando tranquilli processi di separazione che presumibilmente porteranno ad altrettanti pacifici divorzi. Cosa genera il fenomeno? Paradossalmente la voglia di far da sé nasce in un momento in cui sembrano crollare le barriere e assottigliarsi le differenze, in cui l’Europa sta cercando di trovare qualche forma di crescente unificazione e la globalizzazione sta sciogliendo confini e frontiere. Proprio per questo le comunità si aggregano con maggiore passione attorno a temi identitari, riscoprono appartenenze assopite o in qualche modo tacitate in nome di interessi economici, politici o militari. Se c’è l’Europa che si occupa di moneta, difesa e politica estera, a cosa servono gli Stati nazionali? Tanto vale organizzarsi fra amici, parenti e colleghi. Crescono i vantaggi della libera circolazione di merci, idee e capitali, e per contro aumenta la preoccupazione per il troppo libero movimento delle persone. I turisti vanno bene, gli immigrati no. Sarà poco elegante, non piacerà alle anime dolci della Caritas, ma è così.

Non è la prima volta che succede: più il mondo si apre, più la gente si aggrega in gruppi famigliari, in sodalizi liberamente scelti. Con una superficialità e ipocrisia molti sottolineano che le divisioni altrui vengono da lontano, da differenze mai guarite. I più si affidano con faciloneria alle giustificazioni linguistiche o, in subordine, religiose. Così ad esempio i Baltici se ne sarebbero andati perchè parlano lingue diverse, lo stesso vale per i Catalani; i Croati perchè sono cattolici ed i Kossovari mussulmani. Non è così automatico. come si spiega che se ne vogliano andare anche Scozia e Galles dove la lingua gaelica è un pezzo da museo? O che ci siano bollori autonomisti anche in Castiglia dove si parla ovviamente il castigliano.E poi c'è sempre la Svizzera a ricordare che l'identità può anche prescindere da lingue e religioni. Sono fatti importanti ma possono non essere prevalenti e neppure necessari. C'è un identitarismo postmoderno che si basa su caratteri socio-economici e sulla volontà. Connor ha scritto che una comunità non è quello che è ma quello che sente di essere.

Agli autonomisti padani viene sempre detto con una certa supponenza che non esistono differenze linguistiche fra le due o tre Italie che cercano qualificazione identitaria. perchè allora "Gomorra" ha dovuto essere sottotitolato?

Ci sono forti differenze storiche, culturali e strutturali ma è fin troppo evidente che a prevalere oggi sia la relazione allo sfruttamento economico (non solo "percepito") ed alla colonizzazione culturale. La consapevolezza di pagare per tutti in cambio di pedate nel sedere ha finito col tempo per creare un senso di condivisione dell'oppressione, di solidarietà fra tartassati, che è assurto a elemento identitario. I candidi custodi della conservazione ripetono che l'economia non può essere un discrimine. Sbagliano:in un'epoca in cui il mercato sembra essere fondamentale strumento di relazioni, la comune capacità di affrontarlo diventa un'altra essenziale forma di identità. E poi anche l'indipendenza americana era nata da temi fiscali. E lì tutti parlavano la stessa lingua.

Gilberto Oneto (Libero del 1/08/2008)

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
Precedenti
Successivi »
 
 

Tag

 

Archivio messaggi

 
 << Luglio 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30 31        
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 3
 

Ultime visite al Blog

bagnaroto1981dolceamore2007FiorVitamilionidieuroKemper_B0ydalidifarfalla5pazza1986p
 

Ultimi commenti

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963