Anonimo il 03/06/07 alle 01:29 via WEB
CIRCOLO DI INIZIATIVA PROLETARIA GIANCARLO LANDONIO VIA STOPPANI 15
(QUART.
SANT’ANNA p.zza princ.)
– BUSTO ARSIZIO – VA – uscita autostrada A8 Laghi –
------------------------------------------------------------------------------------
dal blog più che tosto : http://italiarossa.splinder.com/
martedì, 22 maggio 2007
Resistenza, una vecchia storia irrisolta
Malgrado lo scorrere del tempo, la ricorrenza del 25 aprile 1945 –
la
Liberazione – solleva sempre dibattiti sulla Resistenza, che svelano
un
«buco nero» nella coscienza teorica della cosiddetta sinistra
rivoluzionaria, a prescindere dalle frasi fatte di facile effetto,
che
volentieri lasciamo ai preti. (Riceviamo e pubblichiamo)
Il nodo irrisolto di quella «vecchia storia» si riverbera su
questioni
attuali e assai scottanti, che sempre più spesso richiedono risposte
politiche adeguate all’attuale fase storica. Nel vuoto teorico,
trovano
spazio facili suggestioni, che oscillano tra il rifiuto di ogni
intervento attivo all’appoggio indiscriminato a ogni movimento delle
masse. In entrambi i casi, scorgo un approccio interpretativo che mal
si coniuga con la tradizione marxista, lasciando prevalere quella che
un tempo veniva definita «metafisica ideologica». Entriamo nel merito
della questione.
Certamente, la Resistenza fu un «grande imbroglio», che condusse
migliaia di proletari al massacro, in netta subordinazione alla
borghesia. Ma come fu raggiunto questo mostruoso risultato? Da
vecchio
materialista (dialettico), ho cercato di ripercorrere gli avvenimenti
di quegli anni e ho visto che la borghesia italiana in quei frangenti
-
parliamo del 1943 – fu colta da una grande paura riguardo alle
proprie
sorti sociali, ma ho visto che anche gli emergenti imperialisti
yankee
ebbero qualche preoccupazione. La situazione era assai delicata e per
giungere al risultato che oggi possiamo contemplare in tutto il suo
splendore, la borghesia (sans phrase) dovette mobilitare tutti i suoi
santi, di destra, di centro e, soprattutto, di sinistra.
Fu un’azione combinata, nel corso della quale, in Italia, emerse il
ruolo del nazionalcomunismo (quello che per alcuni è ancora il caro
vecchio PCI!), che riuscì a compiere un doppio salto mortale: si
appropriò della lotta contro il fascismo e vi appose il proprio
cappello politico. Una volta sottomessa alle concezioni democratiche
del PCI, la lotta al fascismo perse via via l’originaria carica
eversiva, inducendo alla sua sottovalutazione molti comunisti
radicali.
In seguito, di fronte all’evidente catastrofe, alcuni rivoluzionari
sono caduti in una visione «estetizzante», che li ha indotti non solo
a
rifiutare, ma anche a disprezzare l’antifascismo. Costoro spesso
rimasticano la nota frase di Bordiga, secondo la quale «l’
antifascismo
è il peggior prodotto del fascismo», senza capirne il significato. In
pratica, così facendo, costoro lasciano libero il campo a un
antifascismo democratico, sempre più degenere e politicamente
devastante. Una misera consolazione, fatta con il senno di poi.
Sicuramente, nelle condizioni dell’Italia del 1945, con il predominio
dell’imperialismo yankee, la rivoluzione proletaria era impossibile.
Non altrettanto impossibile era formare una tendenza proletaria,
politicamente autonoma, che si contrapponesse alle soluzioni borghesi
di ricostruzione nazionale, sostenute dal PCI di Togliatti e dalla
CGIL
di Di Vittorio. Queste soluzioni furono la vittoria postuma del
fascismo, malgrado gli impiccati di piazzale Loreto. Sconfitto sul
piano militare, il fascismo trionfò politicamente: Togliatti, Di
Vittorio e Co. avanzarono e sostennero l’obiettivo fascista di
affasciamento delle classi nell’interesse nazionale. In questo
affasciamento consiste l’essenza del fascismo, che fu individuata fin
dalle origini, da Bordiga e dalla direzione di sinistra del PCd’I. Ma
questa è un’altra storia.
Le note che seguono indicano alcuni significativi momenti della
subordinazione del proletariato italiano alla soluzione borghese nel
corso della Resistenza. Con le mie osservazioni, vorrei soprattutto
fornire alcuni criteri analitici che consentano di affrontare
materialisticamente le questioni che oggi, in uno scenario molto più
ampio, incombono.
Italia 1943: un laboratorio politico
La centralità mediterranea e la funzione di «ponte» verso l’Europa
Centro-orientale fecero sì che, al momento della rottura del fronte –
nel settembre 1943 – l’Italia occupasse la posizione strategica di
«ventre molle» dell’Europa. Queste valutazioni militari furono
accompagnate da quelle politiche. L’Italia, scossa da forti tensioni
sociali, divenne il banco di prova per sperimentare soluzioni, in
grado
di offrire garanzie di equilibrio ai futuri assetti geo-politici, che
si andavano delineando nei rapporti tra gli USA e l’URSS. Premessa di
questo esperimento era il controllo di una situazione sociale in cui
agivano forti spinte verso il rinnovamento, sia in senso classista
proletario sia in senso democratico radicale, intrecciate l’una con l’
altra.
Lo sbarco anglo-americano in Sicilia, nel luglio 1943, fu la più
grande operazione militare della storia, superata solo dallo sbarco
in
Normandia dell’anno seguente. Gli Anglo-americani mettevano piede
nella
«Fortezza Europa» che, per quanto destinata a capitolare, era allora
saldamente nelle mani del Terzo Reich, dalle coste dell’Atlantico a
quelle del Baltico e del Mar Nero. I problemi militari da affrontare
erano colossali e ancor più colossali erano le implicazioni sociali e
politiche riguardanti il futuro assetto dell’Italia, che avrebbe
costituito un test per i diversi Paesi, che sarebbero stati via via
liberati.
Nascita di un partito nazionalpopolare
Il crollo del regime fascista, il 25 luglio 1943, avvenne in seguito
alle sconfitte militari e ai grandi scioperi del marzo 1943, che
svelavano la debolezza del fronte interno e che furono i primi grandi
scioperi nell’Europa occupata dall’Asse. Ma non furono fulmini a ciel
sereno. Di fronte al drastico peggioramento delle condizioni di vita,
nella seconda metà del 1942 ci furono agitazioni e scioperi in
numerose
fabbriche. E, nelle campagne del Mezzogiorno, ancor prima dell’
intervento bellico formale, nel giugno del 1940, scoppiarono rivolte
contro le condizioni di grande miseria, accendendo focolai di
tensione
che, nel corso della guerra, sarebbero diventati permanenti.
Il PCI scese in campo in quelle difficili circostanze e, in breve
tempo, da piccolo organismo clandestino, con poche migliaia di
aderenti, sparsi in mezzo mondo, molti in galera o al confino,
politicamente disomogenei, si trasformò in un grande partito di
massa,
politicamente compatto. La sua crescita avvenne di pari passo con la
sua metamorfosi nazionalpopolare, i cui presupposti erano presenti
nell’
evoluzione che esso aveva attraversato dal Congresso di Lione (1926)
in
poi. La crescita di una piccola organizzazione, mantenuta con il
«denaro di Mosca», può essere spiegata soprattutto considerando la
passione e le aspettative, che il sogno comunista aveva suscitato
nelle
masse proletarie italiane. Per oltre un ventennio, e ancor prima che
il
partito nascesse nel 1921, i comunisti erano stati in prima linea
nella
lotta contro il fascismo.
Dal 25 novembre 1926 (quando fu istituito) al 25 luglio 1943 (quando
decadde), il Tribunale speciale per la difesa dello Stato condannò
4.030 comunisti a oltre 23mila anni di carcere. Complessivamente, il
Tribunale speciale condannò 4.671 antifascisti, comminando 28.115
anni
di reclusione e 9 sentenze capitali eseguite. In rapporto a queste
cifre, le percentuali riguardanti i comunisti sono molto alte e
diventano ancora più alte se consideriamo che, tra i condannati, vi
furono 203 nazionalisti sloveni, con 2.796 anni di galera. Di
conseguenza, la lotta contro il fascismo pesò essenzialmente sulle
spalle dei comunisti. I socialisti, gli anarchici e i repubblicani
condannati furono 88, con 779 anni di carcere e due condanne a morte,
per gli anarchici. Furono maggiormente colpiti gli antifascisti
generici («senza partito»): furono 323 e subirono 1.296 anni di
carcere. A questi provvedimenti, bisogna aggiungere il confino, il
domicilio coatto e l’emigrazione, cui furono costretti molti
comunisti,
ancor prima della marcia su Roma. Solo grazie a questo grande
patrimonio di lotte alle spalle, il PCI poté candidarsi a svolgere un
ruolo egemone sulla scena politica italiana. Frutto di
«appropriazione
indebita», questo patrimonio richiese una gestione estremamente
cauta,
per il nuovo gruppo dirigente si trattava di cavalcare una tigre. Ci
riuscì attraverso iniziative spregiudicate, che furono rese possibili
da un concorso di circostanze favorevoli, in una situazione
estremamente dinamica, in cui l’appoggio di Mosca rappresentò un
fattore importante ma non predominante.
Con l’obiettivo prioritario dell’unità di tutte le forze anti-
fasciste, in un fronte unico dove la bandiera rossa spariva e
lasciava
il posto al tricolore, il PCI conquistò crescenti spazi politici e
divenne il vero protagonista della Resistenza. Posizione privilegiata
che gli consentì di svolgere l’opera di moderazione nei confronti
delle
spinte proletarie classiste e anche di quelle democratico-radicali
degli azionisti e dei repubblicani, anti-monarchici e anti-clericali.
Dovette comunque affrontare una situazione di forti tensioni sociali,
che rese molto difficile la sua azione di imbrigliamento, e questo a
partire dalla propria organizzazione, che non poteva essere
improvvisata da un momento all’altro. Al suo controllo sfuggirono
comunque pericolose scintille di lotta proletaria, soprattutto al
Sud,
con l’occupazione delle terre e la renitenza alla leva. Il compito di
controllo sul proletariato non poteva essere svolto dai vecchi
partiti
borghesi, che erano screditati, mentre socialisti e azionisti avevano
una minore se non scarsa presenza nella classe operaia. Solo il PCI
poteva mettere in campo un’eredita prestigiosa e un’organizzazione in
via di consolidamento.
C’est l’argent qui fait la guerre
Nella strategia del PCI, la Resistenza, intesa come lotta armata
contro l’occupante tedesco e contro i suoi manutengoli fascisti,
svolse
un importante ruolo. Ma questo approdo avvenne dopo lo sbarco alleato
in Sicilia, quando i proletari del Sud erano già scesi nelle strade
per
protestare contro le conseguenze della guerra e si erano scontrati
duramente con gli occupanti. Le «quattro giornate” di Napoli (28
settembre-1 ottobre 1943) furono l’epicentro di rivolte popolari che,
in quelle settimane, coinvolsero decine di località della Calabria,
Basilicata, Puglia e Campania. Le lotte contadine del Mezzogiorno
rappresentano un capitolo trascurato della Resistenza, subordinato
alla
concezione di lotta di liberazione nazionale, sostenuta dal PCI, che
aveva come riferimento principale lo sbandamento dell’esercito
italiano
dopo l’8 settembre, alimentando una concezione in cui prevale l’
aspetto
militare. Pur circoscritta a questo preciso contesto, la Resistenza
presentava comunque due tendenze di fondo. La più esaltata, la
funzione
di «quinta colonna» delle armate alleate, fu quella in realtà meno
importante, basti considerare che, solo in Italia, gli eserciti
belligeranti contavano più di due milioni di uomini, impegnati
continuativamente, in confronto ai quali, i 256.000 partigiani
riconosciuti come combattenti – e lo furono inoltre in modo
discontinuo
- erano un piccola componente. Più importanti furono le azioni armate
condotte per motivi di difesa contro la repressione nazi-fascista,
per
impedire la deportazione dei lavoratori, per proteggere scioperi e
proteste popolari. D’altro canto, questa Resistenza era nata come
forma
elementare di autodifesa dei soldati italiani sbandati, dopo l’8
settembre, contro le rappresaglie e le deportazioni. Solo
successivamente, assunse la connotazione di lotta di liberazione
nazionale, a fianco degli Alleati, sovrapponendosi quindi alle forme
di
autodifesa, legate ai movimenti sociali e provocando, anche, gravi
conseguenze per la popolazione civile, come nel caso della strage di
via Rasella a Roma. Le lotte di autodifesa, direttamente o
indirettamente, coinvolsero ampi strati della popolazione,
soprattutto
nelle città e nelle fabbriche, che costituirono l’humus sociale in
cui
presero piede le aspettative politiche più avanzate.
La lotta armata per la liberazione nazionale ebbe il suo punto di
riferimento nelle formazioni partigiane, nelle quali prevalse - e non
poteva essere diversamente - la disciplina militare alla quale, di
conseguenza, restarono sottomesse le passioni politiche dei
combattenti. Le caratteristiche stesse della guerra partigiana,
facendo
prevalere la flessibilità operativa, resero duttili le fasi e i tempi
dell’irreggimentazione militare, lasciando spazi di indipendenza
politica, che comunque furono prima circoscritti e poi emarginati,
via
via che il PCI consolidava a livello nazionale la sua struttura
organizzativa. Nei primi mesi di attività (novembre 1943), i 3.800
partigiani allora operanti in Italia in massima parte erano militari
sbandati e una buona metà era autonoma, ossia apolitica. Nel marzo
del
1944, prevalsero le formazioni politiche, che avevano raggiunto il
medesimo livello di preparazione militare, sostenuto da una maggiore
determinazione morale, alimentata dalla costante propaganda degli
azionisti e, soprattutto, dei nazionalcomunisti. Questi ultimi, fin
dal
19 settembre 1943, avevano organizzato il primo battaglione
Garibaldi,
nella zona di Gorizia e di Udine, a contatto con i partigiani
sloveni,
dando corpo a una presenza sempre più massiccia. Secondo il
censimento
di Ferruccio Parri, nel luglio 1944 su circa 50.000 partigiani, metà
erano garibaldini, 15.000 di Giustizia e Libertà, 8.000 autonomi e
2.000 tra socialisti e anarchici (Brigate Matteotti) e repubblicani.
Una volta raggiunta questa posizione egemone, il PCI riuscì a imporre
anche ai partigiani politicamente più riottosi l’obiettivo
prioritario
della liberazione nazionale, che gli consentì di conquistare la
fiducia
degli Alleati, soprattutto degli Americani, per ottenere che gli
aiuti,
in denaro e mezzi, fossero forniti con maggior consistenza e
regolarità
alle Brigate Garibaldi.
Gli scioperi del marzo 1944
Gli operai del Nord, costretti a fare i conti con una situazione di
fame e di pericolo - tra i bombardamenti degli alleati e le
requisizioni e le razzie dei nazisti -, erano spinti a scendere in
sciopero, come era avvenuto nel novembre e dicembre 1943 nelle grandi
fabbriche di Torino, di Milano, di Sesto San Giovanni e di Genova. Di
fronte a queste agitazioni operaie, il CLNAI ritenne opportuno
imprimere il proprio orientamento politico, organizzando lo sciopero
del 1° marzo 1944, che vide la massiccia partecipazione di operai
dell’
Italia settentrionale e della Toscana. Come un anno prima, lo
sciopero
per la durata e la massa dei partecipanti non aveva riscontro in
alcun
altro paese dell’Europa occupata. Tuttavia, la conduzione politica,
la
mancanza di precise rivendicazioni economiche e, infine, la
repressione
che ne seguì, con arresti e deportazioni, lasciarono negli operai un
senso di insoddisfazione, rilevato anche da ambienti politici vicini
al
PCI, che fu il principale promotore dello sciopero.
Le stesse modalità organizzative avevano rivelato fin dall’inizio un’
impostazione azzardata: invece di tessere una rete clandestina, che
consentisse di far scoppiare lo sciopero al momento opportuno, per
cogliere di sorpresa i padroni e gli apparati repressivi nazi-
fascisti,
«L'Unità» e tutti i giornali emananti dal PCI avevano sbandierato con
largo anticipo l’imminente «sciopero generale insurrezionale».
Il Partito Comunista Internazionalista precisava che in questo
sciopero gli operai si erano trovati «nell'assurda e tragica
situazione
d'essere nello stesso tempo i veri protagonisti della lotta attiva e
la
pedina manovrata senza risparmio dalle forze che si muovevano sul
piano
della guerra».
Il risultato tangibile di tale condotta degli scioperi fu il
sensibile
incremento produttivo delle industrie settentrionali, favorito dallo
stato di incertezza e prostrazione in cui versava gran parte della
classe operaia. Condizione che avrebbe poi reso possibile la
subordinazione politica degli operai alla linea nazionalista del
CLNAI,
in cui il PCI assumeva il ruolo di forza egemone.
Di fronte al peggioramento delle condizioni di lavoro e alle
deportazioni, l’arma dello sciopero stava lasciando il posto ai
sabotaggi e agli attentati, innescando una spirale di violenze contro
gli operai e creando nelle fabbriche un clima difficile, le cui
conseguenze furono ovviamente negative anche sul piano della
produzione, con buona pace per lo sforzo bellico degli Alleati, che
in
questo modo coglievano due piccioni con una fava: operi politicamente
disgregati e produzione in calo.
Il processo di disgregazione politica del fronte operaio era stato
inaugurato dagli scioperi del marzo 1944 e fu molto evidente a
Milano,
come osservò Anton Vratusa, fiduciario dei Partiti comunisti sloveno
e
jugoslavo: «[Fino al marzo 1944], la lotta sindacale o più
precisamente
la lotta economica delle masse operaie viene considerata dal PCI come
prova della combattività delle masse operaie e come preparazione
generale sul terreno dell’insurrezione nazionale per la cacciata dei
nazisti e per l’annientamento del fascismo e della sua base sociale,
cioè del capitale finanziario. Fino ad oggi [marzo 1944] questo
metodo
della lotta era praticamente al primo posto. Ad esso erano consacrati
i
massimi sforzi e il maggior tempo disponibile, forse persino a danno
dello stesso movimento garibaldino. [Con lo sciopero del marzo 1944
si
verifica un cambiamento] a favore del movimento garibaldino su di una
base massiccia». L’altra faccia del mutamento, che Vratusa non
poteva,
o non voleva, rilevare, consisteva nell’inversione di un ordine di
priorità, a tutto danno delle lotte operaie. Tuttavia, il PCI, agli
operai, non chiedeva solo la subordinazione, esigeva anche il
sacrificio, lanciando la direttiva avventurista di «scendere in
strada
e manifestare contro tedeschi e fascisti», il cui esito, mancando
adeguate strutture militari di autodifesa, sarebbe stato solo la
cruenta repressione.
In seguito al modesto risultato dello sciopero del 21 settembre 1944
di Milano e provincia, il Comitato federale comunista di Milano,
affermava: «La “causa principale” del ritardo delle lotte operaie a
Milano, rispetto allo sviluppo della guerriglia o delle lotte a
Genova
e a Torino, va ricercata nell’atteggiamento della stragrande
maggioranza di nostri compagni i quali erano, e lo sono ancora, su di
un terreno attesista più delle masse. E la cosa più grave è che,
mentre
le masse lo manifestano apertamente questo loro stato d’animo, essi
invece non lo dicono apertamente, e [...], mentre a parole si
dichiarano ampiamente per la linea del partito, in fatti sono più, ma
molto più, attesisti delle masse».
Lo stato d’animo dei militanti operai del PCI denunciava un rapporto
assai difficile con le masse operaie nel loro complesso. I
nazionalcomunisti avevano comunque raggiunto l’obiettivo di impedire
azioni operaie autonome.
La svolta di Salerno
Mentre nel Nord il PCI metteva le fondamenta per la sottomissione
della classe operaia e a Roma mandava al macello i militanti del
Movimento Comunista d’Italia, il 27 marzo Palmiro Togliatti sbarcava
a
Napoli. Il 31 marzo, si riunì a Napoli il consiglio nazionale del PCI
delle regioni liberate e Togliatti, con quella che sarà ricordata
come
la «svolta di Salerno», liquidò la pregiudiziale antimonarchica, che
fino ad allora condivisa dai partiti di sinistra del CLN.
Inizialmente
osteggiata da Pd'A e PSIUP, la svolta consentì l’ingresso del CLN nel
governo e aprì il formale riconoscimento Alleato della Resistenza. La
questione istituzionale era rimandata alla fine del conflitto. La
conversione filo-monarchica del PCI era stata anticipata dal discorso
di Togliatti, tenuto a Mosca il 21 novembre 1943, il cui tono
conciliante favoriva il clima di distensione che Mosca desiderava per
l’
imminente incontro di Teheran (27 novembre-1°dicembre 1943), in cui i
Tre Grandi avrebbero discusso sulle rispettive zone di influenza e l’
Italia sarebbe rientrata in quella occidentale. La dichiarazione del
futuro «capo amato» era stata accolta con grande freddezza, non priva
di dissapori, dai dirigenti del partito in Italia, che si sarebbero
trovati scoperti non solo nei confronti dei dissidenti e delle
formazioni politiche «estremiste», ma anche di PSIUP, PdA e dei
repubblicani, questi ultimi uscirono poi dal CLN. Il rientro in
patria
di Togliatti fu allora necessario per imporre la nuove linea del PCI
con l’imprimatur di Stalin.
Il lungo viaggio di ritorno, durato più di un mese, servì a frapporre
un certo lasso di tempo tra la dichiarazione del 21 novembre, la
conferenza di Teheran e la svolta, per eludere i fin troppo facili
collegamenti tra i tre episodi. Allo stesso tempo, il viaggio fu un’
occasione per presentare agli Alleati le buone intenzioni dei
comunisti
italiani. Partito da Mosca in febbraio, Togliatti fece tappa al Cairo
e
ad Algeri, dove ebbe contatti ufficiosi con esponenti politici e
militari anglo-americani. Nel frattempo, il 14 marzo 1944, l’URSS,
prima tra le nazioni alleate, riconobbe il governo Badoglio. Quando
il
27 marzo Togliatti sbarcò a Napoli, oltre all’imprimatur di Stalin,
recava con sé anche il placet di Churchill e Roosevelt. Grazie a
queste
credenziali, quello che fino ad allora era un oscuro e temuto
fuoruscito il 24 aprile entrava nel governo di unità nazionale come
ministro senza portafoglio, accanto al filosofo liberale Benedetto
Croce, agli ex ministri Carlo Sforza (indipendente) e Giulio Rodinò
(cattolico) e al vecchio deputato socialista Pietro Mancini. Dopo la
liberazione di Roma, l’11 giugno, Togliatti fu nominato
vicepresidente
nel nuovo governo ispirato al CLN e presieduto dal vecchio socialista
riformista Ivanoe Bonomi.
Il partito nuovo
Accanto all’impegno governativo, Togliatti avviò una profonda
trasformazione del partito, da cui nacque il «partito nuovo»,
caratterizzati dall’abbandono della precedente struttura di quadri a
favore di una vasta aggregazione politica, aperta alle varie
componenti
della società italiana. Grazie a questo processo di rinnovamento, al
momento della Liberazione il PCI raggiunse circa mezzo milione di
iscritti che, alla fine del 1945, diventarono 1.770.267, inquadrati
nelle cellule di fabbrica, nelle sezioni territoriali e in organismi
di
massa, come le Case del Popolo e le sedi dell’Associazione Nazionale
Partigiani Italiani (ANPI).
La conversione moderata del PCI apriva tuttavia un contrasto con quei
dirigenti, in particolare Pietro Secchia e Luigi Longo, che operavano
nell’Italia settentrionale sottoposta alla RSI, dove la lotta
partigiana aveva acceso molte aspettative di riscatto sociale. La
situazione, per quanto difficile, si avviava comunque verso la
soluzione. Nella primavera-estate del 1944, il «partito nuovo» si
stava
radicando nel Centro-sud – in agosto fu liberata anche Firenze -,
dove
poteva contare sulla relativa libertà d’azione politica e sulla
propria
presenza nel governo. Il nuovo e duttile indirizzo favoriva inoltre i
rapporti con le istituzioni statali, centrali e periferiche, i cui
frutti si sarebbero visti in seguito. Tra i partiti del CLN, solo la
Democrazia Cristiana, grazie agli stretti rapporti con la Chiesa
cattolica, poteva allora vantare una presenza altrettanto capillare
sul
territorio. Il PCI dell’Italia liberata aveva assunto una posizione
sempre più predominante rispetto alla direzione settentrionale.
Al Nord, il PCI aveva raggiunto l’egemonia sulle forze politiche
della
sinistra, presenti nel CLNAI e, in generale, nelle formazioni
partigiane. Problemi del tutto marginali aveva incontrato con il
movimento anarchico, ormai ombra di quello che era stato dopo la
Prima
guerra mondiale. Nei confronti del Partito Socialista, il PCI non
ebbe
difficoltà a calmare i bollori estremisti di Lelio Basso, più di
forma
che di sostanza. Riguardo al Partito Socialista, l’obiettivo reale
del
PCI era il controllo o la subordinazione di un tendenza politica, che
allora riscuoteva consensi almeno pari ai propri. L’operazione fu
facilitata dal carattere eterogeneo della compagine socialista e dal
modesto contributo militare da lei prestato alla Resistenza. Il
radicalismo democratico del Partito d’Azione non turbò più di tanto
le
svolte moderate del PCI, nei confronti della Monarchia e della
Chiesa,
in quanto alla partecipazione azionista alla Resistenza non
corrispondeva un’altrettanto significativa presenza nella società
civile. Dopo la Liberazione, il Pd’A si estinse ancor prima di
sciogliersi. Aveva inoltre eliminato le formazioni dissidenti
presenti
nel movimento partigiano, come il Partito Comunista Integrale
(«Stella
Rossa») e altri piccoli raggruppamenti con una presenza localmente
circoscritta, come il gruppo del «Lavoratore» di Legnano. Ottenuti
questi risultati, la missione politica del gruppo dirigente al Nord
poteva dirsi esaurita, restava solo da gestire l’attività fino alla
Liberazione che, in sintonia con le direttive di Togliatti, si
configurava come un compito di ordine pubblico durante la fase di
passaggio delle consegne dalla RSI al governo «legittimo».
Contemporaneamente, Togliatti aveva provveduto a ridimensionare l’
originario ruolo del movimento partigiano, sostenendo la costituzione
del Corpo Italiano di Liberazione – decisa il 18 aprile 1944 - che,
raccogliendo i reparti militari presenti nel Sud, combatté a fianco
degli eserciti alleati. Due mesi dopo, il 19 giugno, all’interno del
CLNAI fu costituito il Corpo Volontari della Libertà (CVL), organismo
militare unitario, che riuniva le diverse formazioni partigiane,
sottoposto al comando del generale Raffaele Cadorna, inviato dal
governo di Roma, ovviamente con l’approvazione degli Alleati. L’
iniziativa inquadrava – in modo subalterno - il movimento partigiano
nella strategia bellica degli Alleati.
Negli ultimi mesi di guerra, la crescita numerica del movimento
partigiano fu direttamente proporzionale al suo deperimento politico.
Gli ultimi entusiasmi si spensero nel novembre del 1945, con le
dimissioni del governo Parri, prestigioso esponente del CLNAI. Il suo
governo era nato all’indomani della Liberazione, con l’ambizione di
avviare la ricostruzione del Paese, ispirandosi agli ideali di
rinnovamento sociale e politico, che avevano animato l’esperienza
resistenziale. A raffreddare le velleità degli ex partigiani di
sinistra, aveva già provveduto Togliatti, Ministro di grazie e
giustizia, impartendo severe disposizioni per la repressione di ogni
manifestazione, che potesse turbare l’ordine pubblico. Nella
primavera
del 1946, il guardasigilli non esitò a tendere la mano ai fascisti,
con
l’amnistia che mise in libertà centinaia di aguzzini e torturatori,
mandando a gambe all’aria la tanto decantata epurazione per i crimini
commessi da esponenti del regime fascista, mentre migliaia di ex
partigiani finivano sotto processo e, il più delle volte, in galera.
Le prime avvisaglie di questi sbocchi reazionari si erano avute già
quando, nelle zone liberate dagli Alleati, il PCI si era subito
distinto nell’opera di normalizzazione politica, favorendo gli
interventi repressivi della magistratura e della polizia
democratiche,
che provvedevano a colpire ogni forma di dissenso e di «illegalismo».
Nel Meridione, le lotte di braccianti e contadini, le occupazioni
delle terre si intrecciarono spesso con la diffusa renitenza alla
leva.
Nel Ragusano, si ebbero vere e proprie rivolte, che furono stroncate
solo con l’intervento dell’esercito. Ma anche i lavoratori delle
città
subirono violente repressioni ogni qualvolta cercarono di difendere
le
loro condizioni di vita, come avvenne a Palermo il 19 ottobre 1944,
con
la morte di 29 manifestanti. Drastiche furono le misure adottate
contro
i militanti rivoluzionari che partecipavano alle lotte: nell’estate
del
1945, sei esponenti pugliesi del Movimento Comunista d’Italia furono
arrestati e inviati al confino.
Alla Liberazione, l’unica organizzazione politica sopravvissuta alla
normalizzazione fu il Partito Comunista Internazionalista, con l’
eccezione del Partito Comunista Operaio (bolscevico-leninista),
vicino
alla Quarta Internazionale, che restò vitale, soprattutto in Puglia,
fino ai primi anni Cinquanta. In generale, il Partito Comunista
Internazionalista divenne il punto di riferimento verso cui
conversero
le forze supersiti delle altre formazioni politiche, come la Frazione
di Sinistra dei Comunisti e dei Socialisti Italiani che, a sua volta,
aveva accolto militanti di «Bandiera Rossa». La presenza e la
crescita
di un partito rivoluzionario dimostra che la repressione statale e
nazionalcomunista
(Rispondi)
|
Inviato da: girasolenotturno
il 29/04/2008 alle 23:26
Inviato da: Anonimo
il 30/03/2008 alle 21:24
Inviato da: Anonimo
il 23/03/2008 alle 15:27
Inviato da: Anonimo
il 25/12/2007 alle 21:42
Inviato da: Anonimo
il 28/07/2007 alle 16:31