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Creato da: antifascistavt il 06/07/2006
Coordinamento Antifascista della Tuscia

 

 

Iniziativa in ricordo di Angelo La Bella

Post n°41 pubblicato il 23 Febbraio 2007 da antifascistavt
 
Tag: Eventi

Sabato 24 febbraio 2007, ore 17,00 Università Popolare di Tutte le Età via del Giglio 3, Viterbo

L’ANPI Comitato Provinciale di Viterbo e la Federazione Provinciale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea 

Organizzano:

Ricordo di Angelo La Bella

a due anni dalla scomparsa

con la proiezione del documentario:

L’onorevole Angelino di Giuliano Calisti e Francesco Giuliani (Roma, 2007)

intervengono:

Silvio Antonini (segretario e portabandiera CP ANPI Viterbo)

Mario Ricci (segretario della federazione PRC Viterbo)

Aladino Lombardi (segretario ANPI Roma e Lazio e alfiere ANPI nazionale)

Giovan Battista Martinelli (segretario generale CGIL Viterbo)

Giuliano Calisti (autore del documentario)

coordina:

Sante Cruciani (Università degli Studi della Tuscia)

nota dell’autore del documentario Giuliano Calisti:

Angelo La Bella è stato un uomo politico di alto spessore morale e grande carisma. Ha sempre goduto di grande stima, specialmente tra i giovani che con lui hanno condiviso i valori dell’antifascismo, della Resistenza, nonché gli ideali comunisti. Già durante l’occupazione nazifascista di Roma, Angelo milita nel PCI. Dopo la liberazione verrà a lavorare a Viterbo, dove sarà corrispondente per “L’ Unità” e funzionario del PCI. Sette volte sindaco di Civitella d’Agliano, subentrerà a Togliatti in parlamento dopo la sua morte. Tra i fondatori del Partito della Rifondazione Comunista, diventerà, negli anni ’90, presidente onorario dell’ANPI di Viterbo. A due anni dalla scomparsa, questo documentario racconta la sua storia, grazie ad un’intervista rilasciataci nel 2003. Vedendo le numerose foto inedite contenute nel DVD, si potrebbe considerare il filmato come una galleria delle immagini della Tuscia “sparita” (pochi ricordano, ad esempio, la piazza di Orte piena di carri con i buoi durante un primo maggio degli anni ’50). In realtà esso è un viaggio attraverso la storia del movimento contadino degli anni '40-‘50: l’occupazione delle terre, le rivendicazioni dei contadini; gli scioperi di protesta scoppiati in tutto il Viterbese dopo l’attentato a Togliatti, seguiti da una sanguinosa repressione. Sulle note degli splendidi brani composti ed eseguiti da Fiore Benigni e Paolo Rocca, Angelino La Bella ci racconta di una stagione di lotta nella quale affonda le radici la nostra società attuale, ma nello stesso tempo ripropone grandi temi purtroppo ancora attuali: lo sfruttamento, il lavoro nero. Oggi molti cittadini extracomunitari infatti vengono nel vecchio continente sperando in un futuro migliore, fuggendo da guerre o carestie, ma spesso finiscono a lavorare nei campi in condizioni di semischiavitù, o a fare gli operai a giornata. Questa testimonianza, quindi, vuole essere un invito rivolto alle nuove generazioni e ai lavoratori, per non far mai mancare quell’umanità e quella solidarietà che hanno reso possibili in passato stagioni di conquiste e di diritti. Giuliano Calisti (Roma, 1977) biologo, laureatosi nel 2003 presso la Facoltà di Scienze Ambientali della Tuscia, svolge attualmente la professione di informatore farmaceutico. Durante i sui studi nella città dei papi ha militato nel circolo PRC ed è stato tra i fondatori dell’associazione universitaria Sinistra Unita. È iscritto dal 2004 al Comitato Provinciale ANPI Viterbo nel quale ricopre la carica di consigliere. Ha curato la regia dei documentari Antifascismo a Viterbo e in Italia: storia e cronaca (intervista ad alcuni partigiani del Viterbese e non - 2004), “L’esempio di ciò che bisogna fare”, con Antonello Ricci fra gli Arditi del Popolo nella Viterbo del 1921 (intervista al letterato viterbese sulla resistenza della città contro le squadre fasciste di Bottai - 2004) e Donne nella Resistenza non armata a Roma e in Sabina (intervista a due ex partigiane, Giulia D’Ovidio e Giovanna Marturano, arricchita dai contributi di Walter De Cesaris e Alessandro Portelli - 2006). A questi documentari se ne vanno ora ad aggiungere altri due, con la co-regia di Francesco Giuliani: questo su Angelo La Bella ed un altro, di prossima uscita, sui partigiani viterbesi Filippo Cultrera e Nello Marignoli che hanno combattuto in Jugoslavia. Per info: anpi.vt@libero.it 328/0747952

 
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Nel Giorno del Ricordo ci si è scordati di tutto

Post n°40 pubblicato il 19 Febbraio 2007 da antifascistavt
 

Comunicato congiunto a cura del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea, circolo di Viterbo, e del Comitato Provinciale ANPI.

 

 Siamo sconcertati dal tenore delle celebrazioni dell’appena trascorso Giorno del Ricordo, sconcertati dalla follia che ha preso l’Italia intera coinvolgendo anche le alte cariche della sinistra che non hanno lesinato ad unirsi al coro strumentale “anti-antifascista” (come si usa dire oggi) della destra. Sconcertati dalle reazioni suscitate alle legittime dichiarazioni del presidente croato Stipe Mesic (e anche di larghi strati dell’opinione pubblica croata e slovena), il quale ha semplicemente ricordato al suo omologo italiano di aver omesso che le foibe titine furono la reazione alla politica di sterminio attuata nei balcani dal nazifascismo. Sconcertati, infine, ci chiediamo con quali diritti, ed autorizzati da chi, a Viterbo Azione Giovani e alcuni consiglieri comunali di AN hanno girato per le scuole pubbliche indicando libri da adottare sulla questione.   

Il PRC di Viterbo e i suoi consiglieri comunali, l’ANPI provinciale e il CAT, hanno trattato diverse volte l’argomento, cercando di contestualizzarlo: rischiamo di ripeterci all’infinito ma siccome qui sembra che la propaganda neofascista e antislava ha più peso di comprovate verità storiche, ci vediamo costretti a ribadire.

Innanzitutto va sottolineato che il Giorno del Ricordo, istituito con la legge n° 92 del 30 marzo 2004, proprio mentre sono al governo gli ex MSI (partito erede dell’esperienza fascista) è la risposta del centrodestra alla Giornata della Memoria del 27 gennaio, nata per ricordare i sei milioni di ebrei sterminati dal nazismo in alleanza con l’Italia fascista di Mussolini. È quindi frutto di un mercimonio della memoria storica, ascrivibile all’ormai purtroppo consolidato mercato delle vacche delle ricorrenze e della toponomastica, espletato non da storici e ricercatori ma da politici avvezzi perlopiù a criteri di lottizzazione, ai quali rispondono anche laddove si tratta di questioni delicate e complesse come quella del confine orientale italiano, sulla quale - a quanto pare - sanno poco o nulla.

Per contestualizzare, occorre innanzitutto far presente che il fascismo non divenne razzista e xenofobo a causa delle cattive compagnie ma lo fu sin dalla sua fondazione. Difatti, se nel resto del paese lo squadrismo nero aveva come obiettivo le sedi operaie e le sezioni dei partiti proletari, a ridosso dei confini orientali si rivolgeva anche alle istituzioni culturali slave, con le stesse modalità che conosciamo per le Camere del Lavoro: devastazione degli interni e rogo delle suppellettili e del materiale cartaceo in strada, ai quali si accompagnava il pestaggio di quei cittadini che non volevano o non sapevano parlare italiano. Pulizia etnica e annichilimento delle minoranze slave, ma anche germanofone (le uniche due relativamente consistenti nel paese), furono fra i principali obiettivi del progetto mussoliniano. Per verificare ciò basta dare soltanto un’occhiata ai fascicoli degli antifascisti nel Casellario Politico Centrale (pubblicati dall’ANPPIA), per notare il numero impressionante di cognomi, soprattutto slavi, di condannati od inquisiti dal Tribunale Speciale per aver parlato la lingua madre o per aver inneggiato all’indipendenza della propria terra. Durante tutto il ventennio, il regime prese provvedimenti rigorosissimi in questo senso con: obbligatorietà dell’italiano, italianizzazione dei cognomi e deportazione di massa. Non lo si vuole ricordare, ma il nostro paese è stato disseminato da campi di concentramento destinati alle popolazioni slave e, in genere, a quelle colonizzate.

Questa politica trova il suo apice nell’invasione dei Balcani, frutto dell’opportunismo fascista: si voleva entrare in guerra al fianco della Germania di Hitler, tenendo contemporaneamente una porta aperta alle potenze dell’Intesa, in vista d’una possibile funzione mediatrice, e per questo veniva ingaggiata una guerra parallela su fronti alternativi a quelli tedeschi. Quando, 10 giugno 1940, la dichiarazione di guerra viene inoltrata agli ambasciatori, non vi sono risorse e armamenti sufficienti per sostenere un conflitto, e si pensa quindi alle “deboli” nazioni vicine come il regno di Jugoslavia che, proprio come era successo per l’Albania, avrebbero capitolato senza batter ciglio. Le cose andranno diversamente: il Regio Esercito dimostrerà ben presto le sue crepe, chiamando i tedeschi sul fronte balcanico.

Hitler considerava gli slavi come facenti parte di una razza inferiore, appena un gradino sopra gli ebrei, affetta dal germe del comunismo: una popolazione da schiavizzare a vantaggio della grandezza germanica. Dello stesso parere l’ispiratore del fuhrer, Mussolini, che consigliava ai soldati italiani in Jugoslavia di dimenticarsi di essere padri di famiglia. Da queste concezioni nasce l’appellativo di “slavo-comunista”, e per la sottomissione degli “slavo-comunisti” era lecito qualsiasi espediente, anche il più riprovevole. Difatti l’occupazione della Jugoslavia da parte dei “tedesco-nazisti” (per usare un linguaggio consono) e degli “italo-fascisti”, con l’ausilio degli “slavo-collaborazionisti” è stata contrassegnata dal terrore, dalle deportazioni di massa, dai campi di concentramento ove venivano internati ed eliminati ebrei, zingari, serbi e antifascisti, nonché dalla devastazione di villaggi, con conseguenti incendi, saccheggi e inaudite violenze contro i civili. Si distinguono in particolare i reparti delle camicie nere dell’esercito italiano, in un paese aggredito che non aveva mosso guerra o minacce contro alcuno.

Con diverse sfumature, combattono al fianco degli occupanti gli ustascia croati di Pavelic, più fedeli al Vaticano che all’Italia, impegnati nella cattolicizzazione dei Balcani, per la quale effettuano le macabre conversioni di massa: cristiano-ortodossi prigionieri vengono fatti inginocchiare e obbligati al battesimo, pena la morte. Queste operazioni trovano la benedizione di Stepinac, arcivescovo di Zagabria, proclamato beato come martire della cristianità (!) da Giovanni Paolo II nel giubileo 2000, perché finita la guerra verrà condannato dai tribunali jugoslavi a 19 anni di lavori forzati. Oltre agli ustascia ci sono anche le SS locali che rispondono direttamente ad Hitler, come quelle bosniache (note come SS mussulmane) e altre forze minori. I Cetnik, i monarco-nazionalisti serbi, giocano invece un ruolo ambiguo: sostengono il regno di Jugoslavia che vogliono “serbizzare” ma nello stesso tempo, visceralmente anticomunisti, contro il comunismo finiranno per schierarsi. Tutte queste milizie collaborazioniste intendevano utilizzare l’occupazione al fine di sottomettere le etnie vicine o fare pulizia al loro interno. Dall’altra parte della barricata la Resistenza dell’EPLJ (Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo), capeggiato dal maresciallo Tito. È un esercito aconfessionale e multietnico che ha lo scopo di riunire tutte le popolazioni slave del sud (letteralmente: jugoslave) contro l’invasore fascista. È una resistenza massiccia e determinata che avanza inesorabilmente da sud verso nord. Per quanto riguarda gli italiani fatti prigionieri, la prassi in genere è questa: coi soldati semplici viene fatta opera di persuasione con la richiesta di entrare nella Resistenza, mentre non c’è scampo per le camicie nere, malmenate e anche uccise. Dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43 molti soldati del Regio Esercito si uniscono alla Resistenza jugoslava; in molti entrano proprio nell’EPLJ (come il gommista viterbese Nello Marignoli), accolti a braccia aperte come fratelli.

Questo conflitto è caratterizzato per l’utilizzo delle foibe (o foive), cavità carsiche naturali che le popolazioni del posto hanno utilizzato da sempre come discariche e che nella seconda guerra mondiale vengono adoperate per buttarvi carcasse di animali, materiale bellico, cadaveri dei bombardamenti alleati e tedeschi uccisi (onde evitare diffusioni di epidemie e rappresaglie) ecc. Ma il loro utilizzo a fini di genocidio viene inaugurato dal fronte nazifascista per eliminare gli “slavo-comunisti”.

Quando la guerra finisce, e l’Italia - è bene ricordarlo - è un paese aggressore sconfitto, sono tanti gli odii accumulati: come si può oggi pretendere che quella tragedia passasse invano? Così le popolazioni inferocite da ciò che avevano subito o visto, non esitano a ricorrere anche alla giustizia sommaria, rivolgendosi prevalentemente contro fascisti, nazisti, collaborazionisti slavi (e questo smentisce l’ipotesi della pulizia etnica) ed ex “tutori dell’ordine” come carabinieri e secondini, ma anche persone innocenti, che finiscono gettati nelle cavità carsiche. Vengono per questi, come in ogni guerra, istituiti anche campi di concentramento, ove si vive in condizioni terribili, le stesse che si vivono all’esterno, in un territorio dove gli occupanti avevano distrutto tutte le infrastrutture. Finiscono per essere uccisi anche dei “partigiani” perché in alcuni casi settori monarchici e conservatori della Resistenza italiana che operavano al confine orientale, finirono per unirsi in funzione antislava alla X MAS e alle SS tedesche. È stato questo un aspetto che ha fortemente segnato, ad es., il CLN triestino; ed è per questo che anche in alcuni “siti partigiani” su internet si possono trovare oggi contenuti che non hanno nulla da invidiare al revisionismo strumentale “anti-antifascista”.

 Si era inoltre formata in Istria e Dalmazia una borghesia, più o meno possidente, di italiani favoriti dalla pulizia etnica che venivano espropriati dalla socializzazione del nuovo governo jugoslavo e costretti all’esilio: questi vengono accolti in Italia con tutti gli onori, con lo status di profughi politici, senza che venisse mai loro imposta alcuna forma di silenzio od oblio, cosa che oggi si vuol far credere.

Passato il conflitto le organizzazioni neofasciste che operano a ridosso del confine orientale iniziano sin da subito una campagna antislava, finalizzata alla “liberazione degli italiani dal giogo titino”: una battaglia a dir poco ridicola, poiché gli italiani che vivono nella federazione jugoslava si vedono, al pari di tutte le altre componenti etniche, riconosciuti tutti i diritti linguistici e culturali. I guai per loro inizieranno con la dissoluzione della Jugoslavia. Parimenti a ciò vengono diffuse pubblicazioni nelle quali si sparano cifre a dir poco fantasiose sulle migliaia di italiani infoibati, con la sola colpa di essere tali, dagli “slavo-comunisti”. Attenzione: non si tratta di inoppugnabile documentazione storiografica ma di libelli vergati da scrittori o giornalisti politicamente orientati che si basano su voci e sul sentito dire, quando non sulla propaganda nazifascista del periodo bellico. È stato così per decenni.

La questione foibe viene recuperata durante l’ondata anticomunista degli anni ’90, a seguito dello sdoganamento degli ex missini. Nessuno finora ha saputo fornire dati certi sul numero degli infoibati dalla Resistenza, né - cosa tutt’altro che trascurabile - sulla loro identità. Si è arrivati  quindi all’istituzione del Giorno del Ricordo: alla “foiba” di Basovizza (in realtà una miniera abbandonata) che fa da contraltare ad Auschwitz.

Si aggiunga a ciò che i criminali “italo-fascisti” non sono stati mai processati nel nostro paese per le loro responsabilità nell’occupazione dei Balcani, sulla quale ha sempre gravato una cappa di censura che si estende a tutte le altre avventure coloniali sabaude e fasciste: è ormai celebre il caso di Fascist Legacy, il film a riguardo prodotto dalla BBC nel 1989, subito acquistato dalla RAI e non ancora trasmesso. Si aggiunga in fine che i processi sulle foibe se ne svolsero, in un’ottantina, subito dopo la guerra con relative condanne.

Avremmo voluto che durante le celebrazioni si fosse fatto almeno un cenno su di una delle questioni qui sopra elencate, ma sia a livello nazionale che locale (vedi anche le dichiarazioni del presidente della Provincia di Viterbo Alessandro Mazzoli) così non è stato.

 
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Su Auschwitz

Post n°39 pubblicato il 01 Febbraio 2007 da antifascistavt
 

Pubblichiamo una interessante riflessione che ci è stata inviata tramite commento da un anonimo compagno.

Crediamo sia utile per un giusto approfondimento ed un giusto dibattito sul tema della banalizzazione del razzismo e della memoria.

Seppur lungo, ve lo pubblichiamo per intero, ringraziando chi ce l'ha inviato.

Coordinamento Antifascista della Tuscia

Inviato da Anonimo il 31/01/07 @ 00:48 via WEB

CIRCOLO DI INIZIATIVA PROLETARIA G. LANDONIO -VIA STOPPANI ,15 21052 BUSTO ARSIZIO-VA -quart. SANT'ANNA Agire per capire, capire per agire Lotta, storia, analisi di classe "Il lavoro rende liberi": liberiamoci dal lavoro salariato! postato da s.b. Lunedi 26 Gennaio 2004 ore 22:22:26 Lager, campi di concentramento, camere a gas: risorse estreme dell’inesauribile sete di profitto del mostro denominato "capitale" Alle ore 11,59 del 27 gennaio 1945 le truppe russe entravano nel campo di sterminio di Auschwitz Esiste una notevole differenza tra storia e memoria. La storia conduce alla riflessione e, secondo percorsi razionali, rinvia al presente; la commemorazione a un processo di cristallizzazione che colloca il suo oggetto fuori del tempo. (Georges Bensoussan: L'eredità di Auschwitz. Einaudi, Torino, 2002) I soldati della Prima Armata del Fronte Ucraino, comandata dal maresciallo Koniev, entrarono nel campo di sterminio e scoprirono la "vergogna" di Auschwitz. In base alle indagini svolte immediatamente dopo la "scoperta" del lager, esperti inglesi, americani e russi, che lavorarono di comune accordo, stimarono in circa quattro milioni le persone che trovarono la morte nei forni crematori di Auschwitz-Birkenau. L'avanzata delle truppe russe in Polonia, in direzione della Germania, obbligò i gerarchi hitleriani a evacuare i prigionieri da decine di lager e a distruggere gli impianti di sterminio, che secondo le stime più attendibili servirono complessivamente per il genocidio di circa sei milioni di ebrei europei. L'ultimo trasporto dei prigionieri di ambo i sessi verso Auschwitz avvenne a piedi. Era il 18 gennaio. Nei giorni che precedettero la liberazione c'era nei prigionieri - secondo quanto riferirono i pochi sopravvissuti - una tensione drammatica. Nel campo si trovavano soprattutto coloro che non potevano camminare. Quasi subito dopo l'ultimo trasporto, gli ufficiali delle SS cominciarono a bruciare i magazzini appiccando il fuoco con i vestiti imbevuti di benzina, strappati agli uomini uccisi nelle camere a gas. Il 20 gennaio le SS fecero esplodere i forni crematori numero 2 e 3, e la notte tra il 25 e il 26 anche il crematorio 5. Come si è potuti arrivare a tanto orrore? Nell’Europa dominata dalla Germania, durante la seconda guerra imperialistica mondiale (1939-45), ha preso corpo il terrificante "Nuovo Ordine" preannunciato da Hitler nelle pagine del "Mein Kampf". Tale Nuovo Ordine, il cui presupposto ideologico è costituito dall’idea di una gerarchia razziale dei popoli da stabilire nel mondo, si basa, in sostanza, su uno sfruttamento brutale, a vantaggio del sistema capitalistico tedesco, di tutti i territori direttamente o indirettamente controllati dalla Germania, secondo criteri organizzativi diversi e a livelli diversi di intensità. Un primo livello è quello dei popoli formalmente indipendenti ma considerati quali satelliti della Germania, perché la loro economia capitalistica è organizzata, dai loro regimi fascisti asserviti a quello nazista, per rispondere alle necessità dell’economia capitalistica tedesca. Si tratta dell’Italia (chiamata a fornire alla Germania sia quei beni industriali che essa non produce a sufficienza, sia alcuni prodotti agricoli), dell’Ungheria (fornitrice soprattutto di carbone, alluminio e farine), della Romania (fornitrice soprattutto di grano e petrolio), della Bulgaria (da cui i tedeschi prelevano piombo, zinco e semi oleosi), della Slovacchia (fornitrice di carni, latticini e pellami) e, nelle intenzioni di Hitler per il dopoguerra, anche della Spagna e del Portogallo. Un secondo livello è quello dei popoli che, pur avendo un loro governo fascista, sono però sotto l’occupazione militare tedesca. Si tratta della Norvegia, della Croazia, dell’Olanda e della Francia, le cui condizioni sono miserrime perché la presenza dell’esercito tedesco significa il pagamento di tutte le spese dell’occupazione e l’influenza crescente dei movimenti di estrema destra locali, di ispirazione nazista e di comportamenti criminali. Un terzo e infimo livello è infine quello dei cosiddetti protettorati, direttamente amministrati dai tedeschi mediante propri governatori, senza alcuna autorità locale. Si tratta della Boemia-Moravia, della Serbia, del Wartegau (Polonia), della Curlandia (che include anche Lituania, Livonia, Estonia e Russia Bianca) e dell’Ucraina. Tutti questi territori sono popolati da slavi, che secondo l’ideologia hitleriana, costituiscono, insieme ad ebrei e negri, una razza inferiore e subumana, di cui perciò sarebbe legittima, in questa aberrante prospettiva, un’utilizzazione in condizioni di schiavitù a profitto della razza superiore tedesca. Ed effettivamente tra il 1941 ed il 1943 il regime hitleriano comincia a mettere in pratica queste idee, facendo uccidere intere famiglie di proprietari terrieri dei protettorati, passando le loro terre a coloni fatti venire dalla Germania, e mettendo a disposizione di tali coloni, in cambio dell’obbligo loro imposto di inviare in Germania una parte dei prodotti agricoli delle loro nuove proprietà, squadre di schiavi slavi per ogni sorta di lavoro. In condizioni di ancora più atroce schiavitù vengono posti i circa 3 milioni di prigionieri russi caduti in mano ai tedeschi nella campagna militare del 1941 ed i circa 9 milioni di ebrei rimasti nei territori controllati dalla Germania. Per costoro vengono creati nuovi lager oltre a quelli già esistenti in Germania da prima della guerra come Buchenwald e Dachau, tra cui i più grandi a Mathausen in Austria, a Flossenburg ed a Belsen in Boemia, ad Auschwitz ed a Treblinka in Polonia, affidati a reparti speciali delle SS con il compito di organizzare lo sfruttamento delle energie lavorative degli internati con il minimo costo (quindi distribuendo loro solo stracci per indumenti e solo scarti alimentari come cibo) e fino all’esaurimento (quindi assegnando loro mansioni massacranti ed uccidendoli non appena diano segno di essere malati od eccessivamente indeboliti). L’orrore di questi lager arriva al punto che vi è consentito persino l’uso degli internati come materia prima. Infatti, nella Germania di quegli anni vengono fabbricati saponi con grasso umano; pettini ed attaccapanni con ossa umane; borse, guanti e paralumi con pelli umane conciate. Altri internati sono usati come cavie di esperimenti chimici, chirurgici e farmacologici. Né si deve credere che si tratti dell’universo demoniaco delle sole SS e dei più degenerati dei capi nazisti. Al contrario, il capitalismo tedesco è beneficiario dell’orrore dei lager e vi è coinvolto fino in fondo. "In previsione di ulteriori esperimenti con nuova droga chimica, vi saremo grati se ci poteste procurare 150 soggetti in buona salute". "Gli esperimenti sono stati eseguiti. Tutti i soggetti sono morti. Ci metteremo presto in contatto con voi per una nuova ordinazione". Queste frasi agghiaccianti si trovano in lettere commerciali spedite nel 1943 dal gruppo tedesco Farben, massimo gruppo chimico del paese, all’amministrazione del lager di Auschwitz. Altri gruppi industriali tedeschi si sono comportati nella stessa maniera, e particolarmente numerose, poi, sono state le industrie che, o per mancanza di operai (acutissima nella Germania dell’epoca, dopo che milioni di uomini sono stati chiamati alle armi, e non sono stati sostituiti che in parte da lavoratori stranieri fatti emigrare in Germania), o per effettuare risparmi sui salari, hanno stipulato veri e propri contratti di cessione di internati, da usare come schiavi per i lavori più pesanti e dequalificati, con amministrazioni delle SS. Il sistema dei lager nazisti si rivela perciò, ad una attenta analisi storica, come prodotto non di una regressione ad un’ancestrale barbarie, ma di un determinato sviluppo, modernamente e disumanamente efficiente, del capitalismo tedesco che, per superare i suoi squilibri tra ricavi e costi, indotti da scarsità di capitale e alti prezzi di materie prime, costituisce alla propria periferia un sistema di rapporti sociali non capitalistici, e tuttavia funzionali al profitto capitalistico (non diversamente, se non per una maggiore efficienza disumanizzante, da quanto aveva fatto il primo capitalismo inglese con lo schiavismo negro delle piantagioni americane destinate a fornire le materie prime delle industrie tessili inglesi). Nella prospettiva finale del cosiddetto Nuovo Ordine sognato da Hitler, del resto, l’intera Europa orientale slava avrebbe dovuto diventare una sorta di immenso lager che, fornendo alla Germania derrate alimentari gratuite, perché prodotte da schiavi, avrebbe aumentato il potere di acquisto dei salari tedeschi e consentito quindi al capitalismo industriale tedesco di accrescere i profitti riducendo ulteriormente i salari. Ma i lager hanno anche un’altra funzione nel mondo hitleriano. Essi servono cioè come una sorta di laboratorii sociali in cui sperimentare nuove forme di dominio dell’uomo sull’uomo che possano risultare utili al sistema capitalistico per neutralizzare quanti esso rende marginali o considera ostili. Nei lager, infatti, non c’è disordine ma, al contrario, un ordine, per quanto perverso, formalistico e minuzioso. Gli internati sono suddivisi in categorie ordinate gerarchicamente e distinte da contrassegni visibili: più in basso di tutti, gli ebrei, segnati da un triangolo rosso; poi gli asociali (cioè zingari, omosessuali e lavoratori licenziati per infrazioni alla disciplina di fabbrica o di ufficio), segnati da un triangolo nero; poi i dissidenti religiosi (valdesi, testimoni di Geova, ecc.), segnati con un triangolo viola; e al vertice criminali comuni (per lo più i condannati dai tribunali per omicidio o violenza carnale), segnati con un triangolo verde. A questi ultimi viene affidato il compito di mantenere la disciplina quotidiana (implicante l’uccisione dei deboli e dei malati, lo smistamento delle cavie, ecc.), che essi eseguono solitamente con brutale e attenta efficienza, perché a questo prezzo essi hanno salva la vita. Ciò a cui mirano i nazisti, infatti, è che ogni lager produca lavoro, torture e morte autonomamente, con un intervento minimo delle SS, facendo collaborare al suo funzionamento, in cambio della vita o persino del differimento della morte, una parte degli stessi internati, in base alle loro gerarchie interne di cui si è detto, e spegnendo nell’altra parte ogni spirito di rivolta attraverso precise tecniche di distruzione anche psicologica. In tal modo, il lager diventa il prototipo sperimentale di un futuro perimetro sociale in cui possano essere gradualmente annientati, senza pericolo di rivolte né necessità di impiego di grandi forze repressive e conseguente inevitabile pubblicità della repressione, tutti coloro, per quanto numerosi possano essere, che non sappiano accettare il posto loro assegnato nella società dal capitalismo (tedesco), nazista in tempo di guerra, ma anche eventualmente democratico in tempo di pace. ---------------------------------------------------------------------------- Cronologia ---------------------------------------------------------------------------- Bibliografia - Bontempelli-Bruni: Storia e coscienza storica. Vol.III. Trevisini Editore, Milano. - V.Giuntella: Il nazismo e i lager. Studium, Roma. - G.Reitlinger: La soluzione finale. Longanesi. - L.Poliakov: Il nazismo e lo sterminio degli ebrei. Einaudi - Gustavo Ottolenghi, Arbeit macht frei: le industrie del Terzo Reich che sfruttarono la mano d'opera coatta dei prigionieri dei campi di concentramento, 1933-1945. Carnago: Sugarco, (1995). - 249 p. - Jean-Claude Pressac, Le macchine dello sterminio: Auschwitz, 1941-1945. Milano, Feltrinelli, 1994 - 192 p. - Gianni Moriani, Pianificazione e tecnica di un genocidio: la politica razziale del nazionalsocialismo. Padova, F. Muzzio, 1996 - 249 p. ------------------------------------------------------------------------- Recensione Georges Bensoussan: L'eredità di Auschwitz (Einaudi, Torino, 2002) Il semplice ricordo della seconda guerra mondiale per gli ebrei, e non solo, è «luogo di una memoria intollerabile, inevitabile e difficile da trasmettere», ricomponibile nella sua cruda interezza solo con grande fatica. L'universo concentrazionario non è mai stato veramente separato dal mondo ordinario, è un fatto che balza immediatamente all'attenzione quando si inizia a decifrare, per trasmettere, quella «memoria intollerabile». Gli occhi e le orecchie che pure esistevano intorno ai luoghi del massacro erano ostinatamente chiusi per non vedere e non sentire. Gli assassini hanno continuamente tentato, fin dall'inizio del genocidio, di separare le vittime dal mondo ordinario consegnandole alla nacht (notte) e alla nebel (nebbia). Commemorare, anche se con grande partecipazione, tende proprio a creare quella separazione: sono esistiti un luogo e un tempo in cui quelle «cose» sono avvenute ma, in un mondo che «privilegia l'istante a scapito della durata», il fastidio di un ricordo troppo doloroso viene banalizzato in una serie di ricorrenze rituali cariche di incerta pietà. È una trappola perché la semplice memoria «non protegge da nulla: non si educa contro Auschwitz». Occorre altro. Il punto è proprio questo, «mai come oggi la banalizzazione della xenofobia, del razzismo e dell'antisemitismo ha fatto tanti progressi», mai una destra che sostiene, nella pratica dei fatti, «l'ineguaglianza delle razze umane ha raccolto così tanti voti». La storia, cruda e così come è, può sostenerci nelle scelte politiche, elettori ed eletti. Non possiamo lasciare che «il "corso delle cose" abbandonato a se stesso» ci conduca alla catastrofe. (da Le Monde Diplomatique, 2002) ----------------------------------------------------------- v. anche: "AUSCHWITZ, OVVERO IL GRANDE ALIBI" ---------------------------------------------------------------------------- Il deportato n.1 ad Auschwitz, Stanislaw Ryniak, è morto all'età di 88 anni ------------------------------------------------------------------ Riferimenti Presentazione

 
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Per non Dimenticare

Post n°38 pubblicato il 28 Gennaio 2007 da antifascistavt
 
Foto di antifascistavt

“Son morto con altri cento, son morto ch' ero bambino,
passato per il camino e adesso sono nel vento…”

(Auschwitz, Francesco Guccini)

 

Alla nostra città, dove giornalmente viene riproposta con simboli, motti, aggressioni e rivendicazioni ideologiche, la storia nera di Mussolini ed Hitler, noi del CAT vogliamo ricordare le vittime dello sterminio nazista e fascista nel mondo.

Vogliamo ricordarle perché oggi più che mai si ripresenta il bisogno di mostrare all’umanità la ferocia delle azioni di allora e delle vigliaccherie di oggi.

Pensare che molte persone sentano ancora il bisogno di riunirsi sotto le bandiere di chi ha commesso tali crimini, per rivendicare la loro ideologia passata, è oltraggioso.

Ma ancora più irritante è vedere in giro per Viterbo, i manifesti di partiti come “Forza Italia”, che prima “corteggiano” a suon di finanziamenti i gruppi neofascisti (proponendo loro spazi, con la possibilità di gestire un’emittente radio) e poi si presentano all’esterno commemorando le vittime dei campi di sterminio.

Il problema reale, sul quale vogliamo puntare l’accento, è quello della situazione che si è creata in Italia e nel nostro territorio; dove il centro destra si presenta alle elezioni con Fiamma Tricolore; dove Fiamma Tricolore ha accolto presso di sé le frange dell’estrema destra italiana, ossia il “Veneto Fronte Skinheads”; dove l’associazione “Vertice Primo” di Viterbo (cioè coloro che sono stati artefici delle aggressioni locali da due anni a questa parte, il cui orientamento politico è ben espresso dal leader dell’associazione e visibile nell’intervista riportata da Tusciaweb:http://www.tusciaweb.it/notizie/2005/dicembre/24_3neofascisti.htm) sono entrati nel partito della Fiamma Tricolore.

E’ senz’altro utile ricordare che il rappresentante del “Veneto Fronte Skinheads”, tale Piero Puschiavo, è stato candidato tra le file della Fiamma Tricolore (vedere l’intervista riportata da “Il Giornale di Vicenza” collegandovi al link: http://www.ecn.org/antifa/article/129/dal-fronte-veneto-skinheads-al-comitato-centrale-dellmsi).

E’ inoltre indispensabile sapere che del “Veneto Fronte Skinheads” fa parte una nota band musicale nazi-oi del panorama italiano ed europeo, ossia i “Gesta Bellica” che sfornano nelle loro canzoni frasi come: “Hanno assassinato Rudolph Hess, Rudolph Hess, Senza colpe l'han rinchiuso”, “Tu vigliacco drogato senza futuro sei già fallito”, “Tu ebreo maledetto, giudeo senza patria”, “Bianco, potere bianco!” “Io sono camicia nera, la mia patria è la mia bandiera”.

Questa è la realtà del centro destra italiano.

Naturalmente, davanti a tutto questo, non ci stupisce che un gruppo di ragazzi vada in giro per la città di Tarquinia ed imbratti le mura con svastiche il giorno della memoria.

Non ci stupisce neanche che Viterbo sia per l’ennesima volta il luogo dei raduni fascisti di tutta Europa.

Noi non crediamo al fatto che all’imminente raduno non vi siano tutti gruppi fascisti  e ci batteremo anche questa volta per cercare di impedirlo (insomma, che sia anti-antifascista la dice lunga).

Vi invitiamo perciò a visitare il sito di alcuni dei gruppi musicali che parteciperanno al raduno, per vedere i link ai quali sono collegati (ad esempio, SPQR è collegato al link degli ormai citati “Veneto Fronte Skinheads”) oppure girando tra i loro web, potete notare (http://hateforbreakfast.spaces.live.com/) cosa scrivono del raduno del 3 Febbraio.

La realtà è molto più complicata di quanto sembra e se parte della politica locale ed italiana avalla questi rigurgiti fascisti, nazisti e razzisti, la situazione in cui viviamo diventa insostenibile.

Se la politica dà spazio a queste realtà aberranti di entrare nel tessuto sociale (con le elezioni, concedendo luoghi di aggregazione o facilitando la diffusione delle loro ideologie), potremmo dire addio a tutto ciò che la lotta partigiana con fatica è riuscita ad ottenere.

Che lo vogliate o no, la nostra costituzione è nata dalla resistenza!

Non permettiamo a chi vuole riproporre odio e terrore di privarci di questa nostra valorosa conquista!

“…Ancora tuona il cannone, ancora non è contento
di sangue la belva umana e ancora ci porta il vento…”

(Auschwitz, Francesco Guccini)

C.A.T. Coordinamento Antifascista della Tuscia

http://blog.libero.it/resistenze/, antifascistavt@libero.it 

 

 

 
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Continua la Raccolta Firme

Post n°37 pubblicato il 19 Gennaio 2007 da antifascistavt
 

Il Coordinamento Antifascista della Tuscia e il circolo di Viterbo della Rifondazione Comunista si sono già impegnati a fondo sulla questione dell’intitolazione della circonvallazione a Giorgio Almirante.

Insieme al comitato cittadino, promotore dell’iniziativa, abbiamo raccolto molte delle firme che sono state presentate alla conferenza stampa di venerdì 12 gennaio.

Per mettere fine al revisionismo storico, ormai dilagante, di cui si fa protagonista anche la nostra amministrazione comunale, intendiamo comunicare alla stampa e alla cittadinanza viterbese che continueremo anche noi, di pari passo con il comitato, a raccogliere le firme necessarie per portare a termine questa iniziativa.

A tale scopo, informiamo che il testo della petizione da sottoscrivere è visibile nel blog del CAT, http://blog.libero.it/resistenze/ e che è possibile aderire inviando il vostro nome e cognome ai seguenti indirizzi di posta: antifascista@libero.it e prcviterbo@libero.it oppure recandovi presso i locali del circolo PRC in Via Garibaldi 46 dalle ore 16 alle 20 ogni giovedì.

Il risultato conseguito con le firme raccolte sino ad ora è significativo ed evidenzia un disagio generalizzato in tutto il territorio.

 

C.A.T. Coordinamento Antifascista della Tuscia

Partito della Rifondazione Comunista, circolo di Viterbo

 
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Antifascismo militante

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FIRMA ANCHE TU

 
Petizione Contro l'intitolazione della Circonvallazione a Giorgio Almirante

Il giorno 19/07/2006 il sindaco di Viterbo ha intitolato una parte della circonvallazione di Viterbo a Giorgio Almirante.

Almirante è stato uno dei redattori della rivista “La difesa della Razza” caratterizzata da feroce e becero razzismo ed antisemitismo.

Militante attivo della Repubblica sociale di Salò che, alleata dei nazisti, torturava e massacrava i cittadini italiani democratici, è stato, dopo la guerra, tra i fondatori dei Movimento Sociale Italiano, diventando poi segretario dello stesso partito. Il MSI di Almirante, si caratterizzò anche come organismo politico che mitizzava la dittatura mussoliniana e che esaltava anche le dittature contemporanee, come la dittatura greca dei Colonnelli, la dittatura militare Turca e il colpo di stato cileno, mentre denigrava ed offendeva il movimento antifascista e la democrazia repubblicana italiana. Il MSI di Almirante si rese protagonista inoltre di una miriade di aggressioni contro studenti, operai e militanti democratici con conseguenti ferimenti ed omicidi.

Lo stesso Almirante partecipò attivamente all’attacco violento contro la facoltà di giurisprudenza insieme al collega Caradonna.

Almirante ancora protagonista di un inquietante episodio collegato alla strategia della tensione. Viene infatti incriminato per favoreggiamento del terrorista Cicuttini, autore della strage di Peteano. Si salverà con l’amnistia.

La storia politica di quest’uomo, si chiude senza alcun riconoscimento delle battaglie civili che hanno contribuito alla costruzione della democrazia italiana.

Intitolare a questo personaggio una via di una città italiana, significa quindi offendere chi è morto lottando contro i nazifascismi ed offendere chi ha speso la propria vita per costruire e rafforzare la democrazia italiana.

Chiediamo rispetto per l’Italia. Chiediamo che questa targa sia rimossa dalle vie della città di Viterbo.

Per aderire inviate via e-mail il vostro nome e cognome all’indirizzo antifascistavt@libero.it

Iniziativa appoggiata dal Coordinamento Antifascista della Tuscia

 

 

 

 
 

Antonio Gramsci

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