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Post N° 37

Post n°37 pubblicato il 13 Maggio 2006 da rossebandiere
 
Tag: Pcus
Foto di rossebandiere

Il modello di Stalin:  
una società perennemente mobilitata
per uscire dall'arretratezza

di Andrea Catone
«L'ampiezza dell'industrializzazione dell'URSS, nei confronti della stagnazione e del declino di quasi tutto l'universo capitalista, risalta dagli indici globali seguenti [...] Negli ultimi dieci anni (1925-1935), l'industria pesante sovietica ha più che decuplicato la sua produzione. Nel primo anno del primo piano quinquennale [1929] gli investimenti di capitale si elevarono a 5,4 miliardi di rubli, nel 1936, devono essere di 32 miliardi», mentre «la produzione industriale della Germania raggiunge in questo momento il livello del 1929 solo in virtù della febbre del riarmo», la produzione industriale degli USA si è abbassata di circa il 25%, quella della Francia di più del 30%, e quella inglese è cresciuta solo del 3-4% con l'aiuto del protezionismo. «Gli immensi risultati ottenuti dall'industria, l'inizio molto promettente di uno sviluppo dell'agricoltura, lo svilupparsi straordinario delle vecchie città industriali, la creazione di nuove, il rapido aumento del numero degi operai, l'elevamento del livello di vita e dei bisogni, tali sono i risultati incontestabili della rivoluzione d'Ottobre, in cui i profeti del vecchio mondo videro la tomba della civiltà. Non è più il caso di discutere con i signori economisti borghesi: il socialismo ha dimostrato il diritto alla vittoria non nelle pagine del Capitale, ma su un'arena economica che comprende la sesta parte della superficie del globo; non con il linguaggio della dialettica, ma con quello del ferro, del cemento e dell'elettricità. [...] Solo la rivoluzione proletaria ha permesso a un paese arretrato di ottenere in meno di vent'anni risultati senza precedenti nella storia».

   Non è Stalin, né un suo sostenitore a scrivere questo nel 1936, quando è in pieno svolgimento il secondo piano quinquennale e viene varata la nuova Costituzione sovietica, ma il suo più fiero, tenace e preparato oppositore, Lev Trockij (1). La «rivoluzione dall'alto» - industrializzazione a passi da gigante e collettivizzazione forzata delle campagne - lanciata da Stalin nel 1929, appare, anche agli occhi del più attento e severo critico, aver raggiunto nel 1936, nonostante gravi errori, profonde contraddizioni e un prezzo altissimo, il risultato incontrovertibile della rottura del blocco dell'arretratezza.

   Questa industrializzazione accelerata, che fa compiere all'URSS in dieci anni parte del cammino che le altre società borghesi avevano percorso durante secoli, è anche il fattore principale della vittoria dell'URSS nella seconda guerra mondiale contro le armate naziste, il più potente e agguerrito esercito del mondo, che dominava incontrastato su tutto il continente europeo. Sono veramente in pochi a negare che senza Stalingrado le sorti della guerra - e del mondo - sarebbero state profondamente diverse.

   La vittoria sul nazismo consente all'URSS di sedere con pari dignità al tavolo delle grandi potenze mondiali e di poter svolgere - pur tra contraddizioni ed errori - un ruolo fondamentale di sostegno, o quantomeno di retrovia nel complesso affidabile, per i movimenti anticoloniali e antimperialistici e per le rivoluzioni socialiste che si sviluppano nei trent'anni successivi al secondo conflitto mondiale, dalla Cina al Viet-nam, da Cuba al Nicaragua.

   Il «mito» di Stalin e dell'URSS si fondava su dati di fatto oggettivi. La rivoluzione d'Ottobre e il «modello di Stalin», che prende forma e si afferma tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta, hanno rappresentato agli occhi di centinaia di milioni di individui oppressi e diseredati la possibilità di uscire dall'arretratezza attraverso una via non capitalistica di sviluppo, nel momento in cui l'imperialismo generava, nel movimento contraddittorio del capitale, sottosviluppo in vaste aree del globo.

   E proprio dalla questione dell'arretratezza si dovrebbe partire nel delineare un profilo dell'uomo che ha guidato, nel bene e nel male, una delle più grandiose trasformazioni sociali della storia.

   Arretratezza non significa soltanto aratri di legno trainati da cavalli, povere isbe come abitazione di milioni di contadini, assenza o povertà di una base industriale, primordialità dei rapporti mercantili, ma anche analfabetismo predominante, scarsità di tecnici, visioni del mondo premoderne, mentalità semifeudale, superstizione diffusa, disabitudine alla vita politica, concezione sacrale del potere: insomma, tutto un retaggio storico che la conquista del potere politico da parte di una forza rivoluzionaria non può cancellare con un tratto di penna. E che chiunque voglia seriamente misurarsi con la storia della rivoluzione d'Ottobre non può mettere tra parentesi.

   Il che non vuol dire affatto giustificare «storicisticamente» ogni aberrazione; significa solo non porsi di fronte alle questioni dello «stalinismo» in termini demonizzanti e con l'attitudine di chi, delineando astrattamente un percorso unilineare, disegnato in base a ciò che «si sarebbe dovuto fare», pretende di «mettere le brache» alla storia. La storia, come sapeva Marx, si presenta anche col suo «lato cattivo».

 

   Il trentennio durante il quale Stalin svolge la funzione di segretario generale (Gensek) del partito comunista sovietico (a partire dal 1922) non può essere assunto come un blocco unico, come se l'intero percorso della direzione staliniana, le drammatiche svolte, le oscillazioni, gli irrigidimenti, gli arretramenti, fossero tutti già iscritti nel dirigente bolscevico che, come scrisse Lenin nel «testamento», aveva «concentrato nelle sue mani un immenso potere» (2).

   Nell'autunno del 1926 Gramsci - invitando la maggioranza del partito bolscevico a non «stravincere», a non adottare «misure eccessive» contro il blocco dell'opposizione di sinistra (Trockij, Kamenev, Zinov'ev), che rappresentava «in Russia tutti i vecchi pregiudizi del corporativismo di classe e del sindacalismo» (3)  - osservava che la nuova politica economica (adottata nel '21 per ridare fiato al paese stremato dalla guerra civile) era gravida di acutissime contraddizioni: tra «nepman impellicciato, che ha a sua disposizione tutti i beni della terra» e «operaio mal vestito e mal nutrito»; tra bednjaki, contadini poveri, ridotti a braccianti giornalieri sottopagati e kulaki in posizione dominante; tra città, affamata di pane, con un'industria limitata e scarsamente produttiva, e campagna, riluttante a vendere il grano dal momento che le «forbici» tra prezzi agricoli, bassi, e prezzi industriali, alti, tendevano ad allargarsi (come Trockij osservava già nel 1923).

   Fino alla gravissima crisi degli approvvigionamenti delle città dell'inverno 1927-28, la posizione di Stalin appare notevolmente prudente, volta a salvare - a costo di procedere a piccoli passi e di ampliare le concessioni al settore privato - il nucleo fondamentale della NEP, l'alleanza operai-contadini, mentre l'opposizione di sinistra teorizza, con la Nuova economia di Preobraženskij (1926) la necessità di un'accumulazione originaria socialista attraverso il «pompaggio» (perekačka) dei capitali essenzialmente dall'agricoltura per finanziare la costruzione di un'industria socialista. L'obiettivo politico, in una situazione internazionale in cui la crisi postbellica non si è risolta in una rivoluzione vittoriosa in Occidente, appare, realisticamente, il mantenimento del potere sovietico, evitando rotture traumatiche all'interno di una società fragile e ancora profondamente scossa dai postumi della guerra civile e del «comunismo di guerra», delle requisizioni forzate nelle campagne, della terribile carestia che nel 1921 aveva provocato 5 milioni di morti.

   È essenzialmente su questo terreno politico - di prudenza e realismo - piuttosto che su quello organizzativo dell'abilità manovriera e del controllo dell'apparato del partito dalla sua posizione di Gensek, che Stalin conquista il consenso della maggioranza dei quadri del partito.   

   La «grande svolta» (è il titolo dell'articolo di Stalin sulla Pravda per il 12° anniversario dell'Ottobre), che rivoluzionerà profondamente in pochi anni i rapporti sociali nelle città e nelle campagne e che conferirà al «sistema sovietico» il suo carattere più marcato, matura con la crisi della NEP, determinata dall'arretratezza russa: il ritmo di sviluppo industriale piuttosto lento della Nep non è in grado di sostenere i lavoratori della città, che non ricevono grano dalla campagna, la quale, d'altra parte, polverizzata in 24 milioni di aziende contadine (dopo i primi decreti rivoluzionari di assegnazione e spartizione delle terre risultavano 1/3 in più rispetto ai 16 milioni del 1914) si caratterizzava fondamentalmente per un'economia di autosussistenza: nel 1926-27 i contadini consumavano l'85% della loro produzione (4). Ciò potrebbe minare alla base il potere bolscevico, metterne in discussione la stessa esistenza, in un contesto internazionale che continua ad essere caratterizzato dalla sindrome della «fortezza assediata» che le potenze imperialistiche non hanno rinunciato ad abbattere (nel 1927 l'Inghilterra rompe le relazioni diplomatiche con l'URSS) e dalla «esacerbazione delle contraddizioni capitalistiche» (è l'analisi prodotta dal VI congresso del Komintern, 1928).

   La grande svolta promossa da Stalin coinvolge profondamente l'intero paese: l'agricoltura, con la collettivizzazione «dall'alto», accelerata e fortemente sostenuta con la coercizione (tuttavia, è bene ricordare, non solo di questo si è trattato, ma anche, sebbene non in tutte le zone, di un movimento di massa di contadini poveri contro i kulaki); l'industria, con la creazione, a ritmi frenetici, di immensi complessi per la produzione di mezzi di produzione; la scuola: nella popolazione tra i 9 e i 49 anni di età la percentuale di analfabeti scende dal 43% del 1926 al 13% del 1939; la percentuale di studenti universitari provenienti da famiglie operaie sale dal 30% nel 1928-29 a quasi il doppio nel 1932-33. 17 milioni di contadini tra il 1928 e il 1935 passano dalle campagne nelle città o nei nuovi poli industriali. La disoccupazione operaia fu riassorbita nei primi due anni del primo piano quinquennale (5). In pochissimi anni l'intera società di un enorme paese subisce una trasformazione radicale come mai era avvenuto nella sua storia. La Russia è un immenso cantiere in continuo movimento, dove sono all'opera, animati da passione ed entusiasmo, milioni di «costruttori» del nuovo mondo, di lavoratori che hanno la possibilità, un tempo impensabile, di una grande mobilità sociale verso l'alto. Il consenso di massa che questa politica ottiene non è fittizio, né coatto, poggia su una base sociale reale.

   Ma questo processo di industrializzazione e collettivizzazione iperaccelerata provoca tensioni e contraddizioni acutissime, che il gruppo dirigente staliniano decide di regolare con un ricorso sempre più massiccio alla coercizione e alla repressione. Nelle campagne vengono colpiti pesantemente non solo i kulaki, ma anche i contadini medi.  Dalle statistiche ufficiali sovietiche si evince che circa 1,2 milioni di persone furono deportate (6). La legislazione del lavoro è segnata in questi anni dall'adozione di misure drastiche (passaporto interno; sistema della propiska: registrazione obbligatoria presso la polizia locale; pene severissime per i «reati contro il patrimonio socialista»).

   All'interno del partito comunista prevale la logica militare, di un esercito impegnato in una guerra difficilissima, che non può permettersi tentennamenti, discussioni, critiche. La guerra è lo stato d'eccezione, che richiede la massima centralizzazione delle decisioni e la riduzione a un minimo dello spazio per la politica. In questa logica, la linea di confine tra la critica alla politica del gruppo dirigente e l'azione diretta contro il potere sovietico, il sabotaggio, si fa estremamente esile: la sanzione politica degli oppositori è accompagnata (o spesso preceduta) dall'azione degli organi polizieschi e giudiziari.

   Tuttavia, fino al 1935-36, l'azione repressiva da parte degli organi del ministero degli interni (NKVD) e della magistratura è volta essenzialmente contro gli «specialisti borghesi» e i rappresentanti delle «vecchie classi moribonde»: 1928, denuncia delle operazioni di sabotaggio organizzate da ingegneri borghesi nelle miniere di Šachty; 1928-1931, licenziamento di migliaia di funzionari degli organismi economici per «deviazione di destra» (indulgenza fiscale nei riguardi di kulaki o nepmany); una serie di processi agli specialisti del VSNCh (Consiglio supremo dell'economia nazionale), del «partito contadino del lavoro», del «partito industriale» con l'accusa di sabotaggio e sovversione economica. La repressione poliziesca non investe, se non marginalmente, i quadri e i dirigenti del partito comunista. In una prima fase del dissidio tra maggioranza e opposizione di sinistra, Stalin vota contro i provvedimenti di esclusione degli oppositori dagli organismi dirigenti del partito e del Komintern. Con l'acuirsi dello scontro, tra il 1926 e il 1927, interviene, accanto alla sanzione politica (esclusione dagli organi dirigenti e dal partito), una sanzione poliziesca: nel gennaio 1928 sono allontanati forzatamente da Mosca Trockij, Radek, Preobraženskij ed altri, rei di aver organizzato, in occasione del 10° anniversario dell'Ottobre, manifestazioni di piazza contro la maggioranza del partito. Tuttavia, la repressione verso i dirigenti del partito accusati di «deviazione di destra» o di «destra-sinistra», di complotto antisovietico e di sabotaggio, non giunge all'eliminazione fisica: nel 1932 la maggioranza del Politbjuro si rifiuta di condannare a morte Rjutin, accusato di attentare alla vita di Stalin (7).

   Al XVII congresso, il «congresso dei vincitori» (gennaio-febbraio 1934), che si lascia alle spalle la fase più drammatica della «grande svolta» e che sembra puntare ad una politica di stabilizzazione (8), tra i 1966 delegati sono presenti, salvo Trockij, anche i maggiori rappresentanti delle opposizioni di destra e di sinistra (Bucharin, Tomskij, Rykov, Zinov'ev, Kamenev, Radek, Pjatakov, Preobraženskij).

   Le cose cambiano radicalmente in seguito all'assassinio (1° dicembre 1934) di Kirov, membro del Politbjuro, segretario dell'organizzazione di Leningrado, dotato di carisma e capace di riscuotere consensi all'interno del partito. La nuova documentazione, disponibile in seguito alla recente apertura degli archivi sovietici, distrugge la credibilità dell'accusa lanciata da Chruščev: allo stato attuale della documentazione nulla prova che Stalin abbia ordinato l'assassinio di Kirov, che non era peraltro un «moderato» (9). Si scatena una repressione violentissima che ha per oggetto anche i principali membri del partito. È il periodo dei grandi processi dimostrativi di Mosca e del «Grande Terrore» (1936-1938), che coinvolge gran parte della «vecchia guardia» bolscevica (Zinov'ev, Kamenev, Pjatakov, Radek, Bucharin, Rykov, Rakovskij, per citare i più noti), condannati alla pena capitale con l'accusa non solo di fomentare la controrivoluzione, ma anche di tradire la patria in combutta con servizi segreti tedeschi, giapponesi o inglesi. Con imputazioni simili viene decapitato anche il vertice delle forze armate (il comandante in capo dell'esercito Tuchačevskij e altri altissimi ufficiali), nonché gli stessi dirigenti della polizia politica, Jagoda e Ežov. Centinaia di migliaia vengono deportati nei campi di lavoro.

   Recenti studi sulla base delle nuove fonti d'archivio smentiscono le esagerazioni di R. Conquest (10), correggendo al ribasso il numero delle vittime della repressione degli anni Trenta (11). Ma la revisione delle cifre non sposta la questione del «grande terrore», che rimane la pagina più oscura e più tragica della storia sovietica, per molti versi ancora inspiegata. Perché, dopo un congresso che sancisce la vittoria della linea staliniana e che pone le premesse per la stesura della costituzione del 1936, destinata a sancire, ex post, la «vittoria del socialismo», si scatena una repressione che falcidia senza pietà buona parte dei vecchi dirigenti e quadri del partito?

   Sono poco convincenti le spiegazioni demonizzanti che attribuiscono alla sete di potere (e di vendetta) di Stalin l'eliminazione dei vecchi bolscevichi per avere completamente campo libero: il potere, anche il più autocratico, non si regge mai su se stesso, rappresenta, pur se in modo abnorme, una base sociale. O le spiegazioni che vedono nel «grande terrore» il punto culminante e inevitabile del percorso «di violenze e sopraffazioni» del comunismo e del bolscevismo a partire dalla presa del Palazzo d'Inverno e dallo scioglimento dell'Assemblea Costituente, fino alla lotta contro i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, alla repressione delle rivolte di Tambov e Kronštadt nei primi anni Venti e via discorrendo (12).    

     Ma è anche poco convincente la tesi del grande terrore come apice di una «controrivoluzione staliniana», che affermerebbe il potere della burocrazia contro il potere del proletariato. Il terrore della seconda metà degli anni Trenta sembra rivolto proprio contro i dirigenti del partito e dello Stato, contro i quadri, contro i funzionari, al punto che nessuno possa sentirsi veramente al sicuro, nessuna carriera al di sopra di ogni sospetto. Il terrore sembra rivolto ad evitare la cristallizzazione e il consolidamento di una qualche burocrazia. Stalin fa appello alle masse dei semplici e onesti contro i dirigenti corrotti e deviati e su questa base ottiene consenso. L'aberrazione tragica di una rivoluzione che divora i suoi figli non può essere iscritta nella categoria della controrivoluzione.

   D'altra parte, non è suffragata dai documenti d'archivio la tesi di un meccanismo poliziesco «impazzito» e autonomizzatosi dagli stessi massimi dirigenti e dal Gensek, la firma dei quali figura in calce alle liste dei repressi.

   Alla spiegazione del terrore potrebbe contribuire, ma solo parzialmente, la tesi della mai sopita sindrome della «fortezza assediata», alimentata dall'ascesa del nazismo in Germania, col suo dichiarato intento di distruggere il bolscevismo e di conquistare spazi vitali a est, e dall'aggressione giapponese in Cina e in Manciuria.

   Una spiegazione strutturale plausibile sostiene che il meccanismo del terrore diviene necessario per mantenere il clima di mobilitazione generale e di stato d'emergenza richiesto dalle esigenze di un'industrializzazione accelerata (13).

   Contrariamente alle aspettative di Hitler, il paese dei Soviet che i nazisti attaccano nel 1941 non si sfalda al primo colpo e non si rivolta contro il suo governo. Nonostante gravi incertezze ed errori iniziali (che Stalin ammette apertamente nel suo Brindisi al popolo russo del 24 maggio 1945), il sistema sovietico si dimostra vitale e capace di reagire vittoriosamente (come si dimostrerà vitale nella rapida ricostruzione postbellica). Nella lotta antinazista Stalin sa essere col suo popolo. Il 18 dicembre del 1941, quando i tedeschi giungono a minacciare Mosca e il governo evacua la capitale, Stalin non abbandona la città. Un altro dicembre di 50 anni dopo, all'annuncio del colpo di Stato di Brest (8.12.1991) che dichiara disciolta l'URSS, il presidente dell'Unione, Gorbace^v, «ne prende atto» e si ritira, senza opporre resistenza alcuna.

 

NOTE

   1. Cfr. L. Trockij, La rivoluzione tradita, Samonà e Savelli, Roma, 1972, pp. 6-8. Evidenziazioni mie, A. C.

   2. Cfr. V. I. Lenin, Opere complete, vol. 36, Editori Riuniti, Roma, p. 429.

   3. Cfr A. Gramsci, La costruzione del partito comunista, Einaudi, Torino, 1971, pp. 130-136.

   4. Cfr. N. Werth, Storia dell'Unione sovietica, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 223.

   5. Cfr. A. Agosti, Stalin, Editori Riuniti, Roma, 1983, pp. 71-72.

   6. Secondo altre ricerche il numero dei contadini colpiti dalla «dekulakizzazione» è ben più alto, cfr. N. Werth, op. cit., p. 265.

   7. Per uno studio del funzionamento e del dibattito in seno al Politbjuro, cfr. la recente raccolta documentaria Stalinskoe Politbjuro v 30-e gody (Il Politbjuro staliniano negli anni Trenta), a cura di O. Chlevnjuk, A. Kvašonkin, L. Košeleva, L. Rogovaja, edizioni «AIRO-XX», Mosca, 1995. Sui processi politici degli anni 1930-50, cfr. Reabilitacija. Političeskie processy 30-50-ch godov, Mosca, 1991.

   8. Cfr. F. Benvenuti, «"Rivoluzione dall'alto" e "Grande ritirata" nel primo stalinismo (1928-1941)», in L'età dello stalinismo, a cura di A. Natoli e S. Pons, Editori Riuniti, Roma, 1991. Cfr. anche F. Benvenuti, S. Pons, Il sistema di potere dello stalinismo, F. Angeli, Milano, 1988.

   9. Cfr. A. Kirilina, L'assassinat de Kirov. Destin d'un stalinien, 1888-1934, Seuil, Paris, 1995.

   10. Cfr. R. Conquest, Il Grande terrore, Milano, 1970.

   11. Cfr. A. Blum, «Éléments sur l'histoire de la population de la Russie», in Retour sur l'URSS. Economie, société, histoire, a cura di J. Sapir, L'Harmattan, Parigi, 1997.

   12. Tale logica guida il recentissimo Le livre noir du communisme, di S. Courtois et alii, R. Laffont ed., Parigi, 1997.

   13. Cfr. M. Lewin, Storia sociale dello stalinismo, Einaudi, Torino, 1988.


(in : La transizione bloccata, Laboratorio Politico, Napoli. 1998)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

PIETRO SECCHIA E LA POLITICA DEL PCI NEL DOPOGUERRA

Post n°33 pubblicato il 13 Aprile 2006 da rossebandiere
 

Una lunga intervista di Ambrogio Donini a L’Espresso ha aperto una grossa polemica sulla storia del Pci dopo la Resistenza, sulla sua politica e sulla lotta politica interna, in particolare sulla figura e le posizioni del compagno Pietro Secchia. La polemica è molto vivace: tant'è che Gian Carlo Pajetta si spinge ad accusare Donini di "menzogna". Probabilmente dietro questi toni duri ci stanno anche dei "casi personali". Evidentemente Pajetta ha ragioni per ritenere che nell’archìvio Secchia ci siano notizie e considerazioni che lo riguardano di persona. Ma questo non basta a spiegare l'asprezza del dibattito, nè le sue motivazioni e il suo interesse.

Che cosa sta succedendo? Sta succedendo che la politica del gruppo dirigente del Pci, la politica del compromesso storico e tutta l'involuzione opportunistica e revisionista che l'ha preceduta sono in difficoltà. Questa politica, che ha mutato natura e funzione al Pci, ha disarmato la classe operaia e le masse lavoratrici di fronte all'avversario di classe e nello stesso tempo però non ha fatto raggiungere risultati significativi, consistenti e durevoli al Pci in rapporto alla Dc. Per questi motivi cresce nelle masse il malcontento per la politica di Berlinguer, ma cresce anche nello stesso Pci il disorientamento, il dibattito e lo scontro sulla politica da adottare. In questa situazione anche la ricostruzione della storia del Pci, della sua politica e della lotta al suo interno diventa oggetto di polemica e di scontro, e ognuno vi interviene secondo i suoi fini.

Dal punto di vista della verità storica Donini ha ragione quando sostiene che vi fu fin dall'immediato dopo-guerra una divergenza di Secchia e di altri - di molti altri - rispetto alla linea che Togliatti e le sue posizioni andavano imponendo al partito.

Quando i vari Amendola (e anche Pajetta che parla di "menzogne") sostengono che la divergenza politica di Secchia emerse nel'53 dopo la Vittoria elettorale contro la legge-truffa e di fronte alla necessità di un "rinnovamento" per superare la "chiusura" e il "settarismo" precedenti lo fanno solo per sostenere la loro linea politica. Nascondendo il fatto che vi fu nel periodo immediatamente successivo alla Liberazione una forte resistenza alla linea che Togliatti proponeva, essi vogliono in realtà sostenere che la strada che si seguì allora e ancor più quella che il Pci ha seguito negli anni successivi fino ad oggi era l’unica che si potesse percorrere e che essa non incontrò opposizioni significative.

Ma la verità storica conta pur qualcosa. In base a questa verità e alla mia esperienza, e in base anche alle numerose occasioni che ho avuto di discutere di queste questioni con Pietro Secchia fino agli ultimi periodi della sua vita, posso sostenere che queste divergenze riguardavano il nocciolo della politica di Togliatti.Togliatti era convinto, e voleva convincere tutti noi, che fosse possibile un lungo periodo di collaborazione con la Democrazia Cristiana, che questo fosse l'obiettivo da perseguire e che addirittura questa fosse l’unica strada per conquistare una democrazia progressiva.

Secchia e la maggior parte di noi che avevamo condotto la Resistenza e la guerra di liberazione soprattutto al nord non eravamo convinti di queste posizioni e delle illusioni che ne seguivano.Vedevamo in primo luogo che la Dc si andava ormai affermando come lo strumento cardine del potere della grande borghesia nel nostro paese e dell'asservimento all'imperialismo americano. Il giudizio sulla Dc costituiva perciò la prima profonda divergenza rispetto a Togliatti.Vedevamo che la politica di rinuncia a portare apertamente e con fermezza la lotta in seno ai Cln per il loro rafforzamento, la loro estensione e il loro radicamento come strumento di iniziativa e di intervento delle masse aveva portato il Pci a non fare quasi nulla al momento della liquidazione del governo Parri - l'unico governo espressione unitaria della Resistenza per respingere l'involuzione reazionaria capitanata dalla Dc. E così il Pci veniva colto di sorpresa a metà del '47 dalla estromissione dei comunisti e dei socialisti dal governo per opera del "colpo di stato" di De Gasperi e rinunciava i far intervenire ampiamente le masse.Nel discorso alla Costituente, nel giugno successivo alla cacciata dal governo, Togliatti si lamentava del fatto che la Dc, operando in questo modo, non tenesse conto dei sacrifici e della moderazione delle richieste che gli operai e le masse lavoratrici si erano assunti per l'opera unitaria di ricostruzione, e finiva per considerare l'episodio come un incidente momentaneo rapidamente superabile. Eppure l'esperienza dell'Aventino e del Pcd'I diretto da Gramsci con l'appello diretto all'intervento popolare dovevano pur insegnare qualcosa sui principi e sui metodi della lotta che un partito comunista deve ingaggiare di fronte alle iniziative reazionarie! Si trattava certo di condizioni diverse, ma in ogni condizione, anche la più difficile, non si può ottenere nulla senza ricorre re alle masse. E le condizioni, se non per avere la garanzia del successo pieno, sicuramente per far fronte alla situazione e aprire prospettive differenti, sicuramente c'erano. Basti ricordare a titolo d'esempio che comunisti e socialisti assieme raccoglievano nel sindacato unitario l'80% degli iscritti, la sola corrente comunista raggiungeva nella Fiom più del 60%, il 71 % negli edili, il 67% nella Federbraccianti.

Bastano questi pochi esempi per illustrare gli elementi di divergenza presenti allora nel Pci. che nessuno può nascondere o mistificare perché oltre ad essere ampiamente documentati nell'archivio di Pietro Secchia sono a conoscenza precisa e documentata di numerosissimi compagni.

Secchia si dichiarava convinto che se le sue posizioni fossero state seguite il Pci non si sarebbe trovato nelle condizioni odierne, ma avrebbe mantenuto un carattere rivoluzionario. Proprio per questo raccomandò che tutti gli scritti del suo archivio fossero consultati da chiunque li volesse leggere e diede una precisa direttiva per la pubblicazione del materiale ancora inedito, perché ciascuno potesse giudicare della sua lotta contro "il revisionismo e l'opportunismo di ogni sorta". Che ciò terrorizzi i dirigenti attuali del Pci non stupisce affatto. Di qui i loro mille sforzi per purgare, censurare, impedire persino la pubblicazione. Pajetta è insorto all'annuncio della esistenza di un rapporto di critica alla linea Togliatti che Secchia fece a Stalin nel '47. L’esistenza di questo rapporto non può essere negata da Pajetta, a meno che tiri fuori dagli archivi del Pci le prove che esso fu discusso con Togliatti, con la segreteria, con la direzione del Pci. Il rapporto Secchia a Stalin: un metodo certo discutibile, anche se allora comprensibile in una situazione in cui l’Urss di Stalin rappresentava indiscutibilmente per tutti i comunisti il reparto avanzato del proletariato internazionale, il momento di orientamento più alto del movimento comunista. Un metodo comunque già allora criticabile: come si poteva pensare di affrontare la battaglia fondandosi sull'aiuto "esterno" e non invece aprendo apertamente nel proprio partito e contando sulle proprie forze la lotta contro l'opportunismo e il revisionismo? Certo, ci sono alcuni che ancora più pericolosamente queste cose le pensano ancora oggi.

E veniamo appunto ad oggi. Annunciando clamorosamente l'esistenza del rapporto ai "compagni sovietici" si vuole forse suggerire che sempre da Mosca si debba fare riferimento per contrastare la politica fallimentare del Pci? Non è forse da là, da Krusciov e da chi l'ha seguito, da Breznev, che si è scatenata l'offensiva revisionistica all'interno del movimento comunista internazionale? Si vuole forse sostenere che dai sovietici ci possa venire la salvezza quando tutti vedono quanti guasti, lutti e divisioni procuri ai popoli, ai movimenti progressisti e di liberazione la pretesa egemonica dell'Urss, la sua contesa con l'imperialismo americano per le sfere di influenza e l'egemonia?

Sappiamo quanto i sovietici si diano da fare anche nel nostro paese per presentarsi come punto di riferimento a chi vuole battere la politica fallimentare degli "eurocomunisti" alla Berliguer. Ma sappiamo anche che in cambio il partito di Breznev propone una teoria e una pratica che con la rivoluzione, con il marxismo e con il leninismo non hanno ormai più nulla a che vedere, una pratica di aggressione, di dominazione, di guerra.

Sarebbe rendere un pessimo servizio a Pietro Secchia. E alla sua sincera volontà di contrastare l'oportunismo e il revisionismo, mettere il suo archivio e le sue testimonianze al servizio di manovre volte a negare al nostro popolo il diritto di decidere in piena libertà del proprio destino.

Anche per questo ritengo che la consegna di Pietro Secchia vada rispettata integralmente. Siano pubblicati senza censure, senza ritardi, senza pregiudizi di convenienza e di opportunità tutti i suoi scritti e le sue testimonianze. I militanti del Pci, gli operai, tutti i rivoluzionari e i democratici, i giovani, potranno così valutare obiettivamente e criticamente, e valersene in piena autonomia da qualsiasi condizionamento per l'approfondimento della conoscenza della storia del movimento operaio del nostro paese e la formazione della coscienza necessaria per i compiti di oggi.

Giuseppe Alberganti

(da fronte popolare, n.150, 26 febbraio 1978, pag.24)

 

 
 
 

Pietro Secchia e l’organizzazione partigiana

Post n°31 pubblicato il 13 Aprile 2006 da rossebandiere
 

di Daniele Maffione

 

“L’insurrezione in massa, la guerra rivoluzionaria, la guerriglia dappertutto, sono gli unici mezzi con i quali un piccolo popolo può vincerne uno più grande, con i quali un esercito più debole può fare fronte ad un esercito più forte e meglio organizzato” K. Marx(da: “La lotta in Italia” in Neue Rheinische Zeitung, 1 aprile 1849 – cit. in “Aldo dice: 26x1”di Pietro Secchia)

 

Cosa significa battersi contro il revisionismo storico? Vuol dire individuare, nel recente passato, le tracce dell’identità di un popolo, conoscendone la storia e le figure degli uomini protagonisti nei suoi mutamenti essenziali. Proprio come lo sono stati i militanti ed i quadri del popolo italiano durante la Guerra di Liberazione nazionale contro il nazifascismo.

Pietro Secchia, in questo senso, ricopre un ruolo di primo piano nella ricostruzione della Resistenza italiana e del Partito Comunista. La sua figura di quadro operaio, dirigente comunista e comandante partigiano manifestano la concezione e la preparazione scientifica della battaglia politica e della lotta armata, che affiora le proprie radici nella combattività del movimento operaio italiano e che rivela, più in generale, il fondamentale contributo dato dai comunisti al movimento resistenziale.

Secchia, appartenente ad una generazione intera di “rivoluzionari professionali”, che costituirono, poi, l’ossatura della Guerra di Liberazione, ebbe il merito di concepire e di strutturare instancabilmente l’intera organizzazione clandestina del P.C.I. durante il Ventennio fascista (fino all’arresto, avvenuto nel 1931) e, con Luigi Longo, di trasformare la lotta antifascista in guerriglia partigiana tra il 1943 ed il 1945. Vediamo, seppur brevemente, in che modo.

Da sempre sostenitore della lotta armata contro il fascismo, tra l’8 ed il 9 settembre 1943, dopo tredici anni di confino a Ventotene, Secchia partecipò all’eroica, ma debole resistenza di Roma al fianco di altri antifascisti e militari insorti contro la smobilitazione del Governo Badoglio e l’occupazione nazista, successiva all’armistizio con gli Anglo-americani. Quell’esperienza fu fondamentale per comprendere che una minoranza, per quanto combattiva potesse essere, sarebbe stata inutile senza il sostegno attivo di un intero popolo, che andava spinto sul terreno della lotta armata.

Botte, Vineis, Piotr, così, divennero alcuni degli pseudonimi utilizzati da Secchia durante la guerra partigiana e furono i nomi conosciuti dai comandanti partigiani di tutte le Brigate d’Assalto Garibaldi ed i quadri della Resistenza, ai quali venivano recapitate le parole d’ordine del Partito, del C.L.N.A.I. e del C.V.L., fondamentali per coordinare le azioni partigiane in montagna ed i sabotaggi in pianura, gli scioperi nelle fabbriche e le azioni dei gappisti nelle città, legando così la resistenza armata dei partigiani alla lotta delle masse per la sconfitta dei nazifascisti. E le staffette, in particolare donne, ricoprirono un ruolo fondamentale in questa organizzazione clandestina.

Il lavoro di preparazione, svolto incessantemente da Secchia e dalla rete di quadri di partito, fu riscontrabile in tutta la propria forza nella  riuscita dei grandi scioperi dell’1-8 marzo 1944 e durante tutti  i venti mesi della Resistenza, fino all’aprile 1945. In questo periodo, Secchia fu, assieme a Longo ed altre figure di primo piano dell’antifascismo italiano, al vertice della lotta armata. La portata di massa degli scioperi del 1944 spinsero così tutti gli strati della popolazione lavoratrice, i contadini e gli intellettuali alla mobilitazione politica contro il nazifascismo, infierendo un colpo mortale all’esercito hitleriano ed alla marmaglia repubblichina.

 

Il radicamento tra i lavoratori, l’organizzazione delle rivendicazioni immediate delle masse e la guerriglia partigiana, ottenuti specialmente ad opera dei comunisti nonostante le torture, gli eccidi ed il terrorismo praticato dai nazifascisti sulle popolazioni inermi, conferirono a tutta la Resistenza italiana quel primato di partecipazione delle masse alla lotta antifascista che in Europa è stata seconda soltanto a quella del popolo jugoslavo. Quel primato e quel protagonismo che qualche carcassa del fascismo ed il vento del revisionismo, “trasversale” agli schieramenti politici, vorrebbe oggi negare e cancellare.

 

Botte, poi, fu protagonista anche nell’organizzazione dei Gruppi d’Azione Patriottica (G.A.P.) e nella pianificazione delle operazioni speciali della guerriglia partigiana, come accadde nel caso della liberazione di Giovanni Roveda dal carcere degli Scalzi a Verona: azione compiuta da un gruppo di gappisti comunisti, comandati da Aldo Petacchi, che si distinsero compiendo un’azione eroica in un fortilizio nemico, unica nel suo genere per l’audacia e la determinazione.

 Abbozziamo una conclusione. Ricordare e studiare le figure degli uomini, che con il proprio ingegno e sacrificio hanno contribuito al successo della lotta partigiana ed alla conquista dei più fondamentali diritti delle masse oppresse, non deve rappresentare un esercizio retorico oppure una nostalgica celebrazione. Bensì, deve lasciar trapelare le cause storiche che conducono, in determinate condizioni economiche e sociali, all’affermazione di figure di combattenti eccezionali, che guidano la lotta d’emancipazione dei lavoratori e dei popoli.

Pietro Secchia diviene, così, non un eroe geniale ed isolato, ma un uomo ed un comunista che, nelle condizioni più dure, ha contribuito alla lotta degli sfruttati italiani per la propria emancipazione.

 

 
 
 

IL 9 E IL 10 APRILE VOTATE COMUNISTA

Post n°29 pubblicato il 07 Aprile 2006 da rossebandiere
 

Cacciamo il centrodestra, rafforziamo i comunisti

 
 
 

LA BIOGRAFIA DI PIETRO SECCHIA di Enzo Collotti

Post n°24 pubblicato il 18 Novembre 2005 da rossebandiere
 

Pietro Secchia

Nacque a Occhieppo Superiore, nel Biellese, il 19 dicembre 1903 da famiglia operaia. Frequentato il ginnasio, fu costretto già nel 1917 a cercarsi un lavoro ed entrò come impiegato in una conceria. Militante sin dal 1919 della FIGS, partecipò attivamente alle lotte del primo dopoguerra nelle file del movimento operaio, in contatto anche con il gruppo dell'Ordine nuovo e come aderente alla frazione comunista del partito socialista. Nel 1920 come impiegato nella fabbrica di cinghie Varale di Biella fu licenziato per avere solidarizzato con gli operai in occasione di uno sciopero; passato a un nuovo impiego presso la manifattura Scardassi nell'agosto del 1922, fu licenziato nuovamente per avere partecipato allo « sciopero legalitario », uno degli ultimi sussulti con i quali il movimento operaio ormai sconfitto cercò di ostacolare la marcia del fascismo. Convinto sostenitore della necessità di fronteggiare il fascismo con una opposizione dura nelle fabbriche, nei campi e nelle piazze, nel gennaio del 1921 S. passò con la maggior parte della federazione giovanile socialista, all'atto della scissione di Livorno, al PCI, del quale doveva diventare ben presto uno dei più tenaci organizzatori e prestigiosi esponenti. Come già aveva incominciato nel volume La lotta della gioventù proletaria contro il fascismo, pubblicato nel 1931 a Berlino a cura dell'internazionale giovanile comunista, S. non cessò mai, soprattutto nell'attività pubblicistica degli ultimi anni della sua esistenza, di sottolineare il significato dell'esperienza compiuta nella Federazione giovanile socialista (e poi nella Federazione giovanile comunista) considerando il passaggio dei giovani al neocostituito PCI una delle componenti politiche (e non soltanto generazionali) essenziali alla formazione del nuovo partito.

Membro sin dalla fondazione del direttivo della federazione comunista biellese, trascorse i primissimi anni della dominazione fascista fra stenti e persecuzioni; subì una prima condanna per detenzione abusiva di munizioni per pistola alla fine del 1922; arrestato una prima volta nel 1923 e associato al primo grande processo contro i dirigenti comunisti, fu rilasciato e costretto a lasciare il Biellese. Si trasferì allora a Milano, dove alternò il lavoro come manovale muratore all'attività politica come segretario della FGCI milanese e membro del Comitato centrale della federazione giovanile comunista. Nel dicembre 1923 fu costretto ad emigrare in Francia, dove prestò la sua opera come imbianchino prima, come operaio in fabbrica a Parigi in un secondo momento, assistito dal Soccorso rosso e senza mai perdere il contatto con la gioventù comunista francese. Nel maggio del 1924 fu chiamato in Italia dalla direzione della FGCI per essere inviato come delegato ai V Congresso dell'Internazionale comunista: nel giugno successivo si recò infatti a Mosca per prendere parte sia al V Congresso dell'Internazionale, sia al parallelo IV Congresso dell'Internazionale giovanile comunista, sia «alle riunioni della commissione italiana che all'ordine del giorno aveva l'entrata dei terzinternazionalisti nel PCI », come egli stesso avrebbe avuto occasione di ricordare. E risale a quella stessa occasione un suo commosso ricordo di G.M. Serrati, con il quale rientrò in Italia nel luglio 1924
«varcando insieme clandestinamente la frontiera svizzera ». Al IV Congresso dell'Internazionale giovanile fu eletto membro del comitato esecutivo dell'IGC, ma non prese mai possesso del suo posto a Mosca. A questo proposito lo stesso S. ha scritto: «Nel 1930 mi si chiese di restarvi [a Mosca] per un certo tempo con la prospettiva di andare a lavorare nell'America latina. Declinai l'offerta, sostenendo che il mio posto di lavoro era in Italia ». Una dichiarazione che riflette lo stato d'animo, la visione politica e tutta intera la personalità di Secchia.

Nonostante i soggiorni all'estero, che egli dovette successivamente affrontare per le necessità della lotta politica, S. lavorò essenzialmente in Italia; fin quando fu possibile in attività legale, dopo la messa al bando definitiva dei partiti antifascisti nella illegalità, sostenendo con estrema coerenza le ragioni dell'agitazione clandestina all'interno, al contatto delle masse lavoratrici, uniche reali protagoniste nella sua visione politica della vita e del destino di un partito rivoluzionario. Al ritorno in Italia, nell' agosto del 1924, entrò come operaio meccanico alla Fiat-Diatto di Torino, diventando contemporaneamente segretario della federazione giovanile comunista di quella città, fin quando fu costretto dagli avvenimenti a dedicarsi esclusivamente all'attività politica, al mestiere di « rivoluzionario di professione ». Divenuto ormai uno dei migliori elementi dell'attività antifascista, in quello stesso anno fu chiamato nel Comitato Centrale e nella segreteria nazionale della FGCI. Nel marzo 1925 fu nominato segretario della federazione di Biella; arrestato il 1° maggio successivo, fu condannato per attività sovversiva a 3 mesi di detenzione con sospensione della pena per 5 anni e rilasciato. Fu arrestato nuovamente nel novembre del 1925, subendo la prima condanna di un certo rilievo: l'arresto ebbe luogo casualmente a Trieste al ritorno da un giro propagandistico che aveva portato S. nel Friuli e a Fiume; non potendolo incriminare per l'attività antifascista, allora formalmente ancora consentita, la polizia lo incriminò per reato di stampa, essendogli state trovate nella valigia copie del giornale antimilitarista La Caserma, che S. appunto redigeva. Trascorse di conseguenza 10 mesi di prigione a Trieste sino all'agosto del 1926, allorché riprese l'attività clandestina che avrebbe ininterrottamente proseguito sino all'arresto e alla nuova condanna del 1931.

Le leggi eccezionali del novembre del 1926 non rallentarono ma intensificarono la sua milizia comunista; nello stesso mese fu nuovamente arrestato a Biella e assegnato dall'apposita commissione provinciale di Novara al confino di polizia per 5 anni. Per continuare l'attività illegale si diede allora alla latitanza; dopo che nel marzo del 1927 l'ufficio politico del partito ebbe deciso le norme per la prosecuzione dell'attività nel centro estero e nel centro interno, S. si trovò tra i responsabili della sezione militare (con G. Sozzi  e Cesare Ravera) dell'attività all' interno, nonchè tra i responsabili del centro interno della FGCI. Fu in quel periodo che ebbe una parte preminente nella redazione dei primi organi della stampa clandestina comunista: La Caserma, L'Avanguardia, l'Unità, Il Galletto rosso. Lo spirito di questa attività di propaganda è stato espresso ancora una volta dallo stesso S.: «Negli anni 1927-28 eravamo talmente occupati a stampare ed a diffondere volantini e giornaletti che trascurammo lo studio e l'impiego di altri mezzi di lotta, quasi che la stampa potesse servire a tutto. La prima cosa che un'organizzazione provinciale o cittadina o di un centro agricolo si proponeva di fare era di procurarsi un mezzo per poter stampare. Il che era senza dubbio importante. Il fascismo voleva impedirci di parlare e noi intendevamo affermare il diritto di pensare, di parlare e di scrivere; intendevamo anche dimostrare che il fascismo non aveva la forza per impedirci l'esercizio di quei diritti».

Tra il 1927 e l'arresto del 1931 si sviluppò una delle stagioni più intense dell'attività politica di S.: membro dal 1928 del Comitato Centrale e dell'ufficio politico del PCI, alternò la sua attività all'interno alle inevitabili missioni all'estero, tra l'altro come responsabile del lavoro presso i lavoratori italiani emigrati e come partecipante, nel gennaio del 1928, alla II Conferenza del PCI di Basilea, sempre sostenendo la necessità di porre anche nella clandestinità il problema del potere, ossia degli obiettivi concreti della lotta, di non limitare il movimento illegale ad una azione puramente passiva di sopravvivenza, di stabilire un legame tra azione legale nelle organizzazioni fasciste e azioni illegali. Fu caratteristico del modo di pensare e di agire di S. che egli anticipasse sin dalla conferenza di Basilea il tema della lotta armata contro il fascismo, aprendo la discussione sul problema militare dell'antifascismo. Dopo l'arresto, tra il marzo e l'aprile del 1928, dei membri del centro interno diretto da G. Li Causi e E. D'Onofrio, S., che nello stesso anno partecipò come delegato anche al VI Congresso di Mosca dell'Internazionale, rimase tra i dirigenti più impegnati nel mantenere e sviluppare i collegamenti clandestini così in Italia come all'estero, essendo stato fra l'altro membro del comitato esecutivo dell'Internazionale giovanile comunista dal suo V Congresso.

Alla fine di gennaio del 1929 fu arrestato a Basilea con altri esponenti comunisti ed espulso dalla Svizzera; rientrò in Italia in un momento di acute discussioni in vista della «svolta» destinata a porre definitivamente all'interno nell'Italia sotto il regime fascista il centro di gravità dell'azione del partito comunista. Nel marzo del 1930 fu tra i più convinti sostenitori della «svolta» del PCI, a proposito della quale in uno degli ultimi scritti di S. si trova questa testimonianza: «La discussione [sulla svolta] provocò comunque una grave crisi, una frattura nello stesso centro dirigente del PCI, quale non si era avuta prima e quale non si ebbe più in seguito. L'ufficio politico si spezzò in due e metà dei suoi componenti dovette essere esclusa dal partito. Il voto di maggioranza alle giuste posizioni politiche di Longo e di Togliatti fu dato dal rappresentante della Federazione giovanile » (S., Il PCI e la guerra di liberazione 1943-45, in Annali dell'Istituto G. Feltrinelli, a. XIII, 1971, Milano, 1973, p. 172). Quel rappresentante dei giovani era S., che già aveva preso parte a Mosca nel gennaio al plenum dell'Internazionale, pronunciandosi a favore della «svolta». Dopo aver partecipato nella primavera del 1930 con P. Togliatti  e L. Frausin  a nuove discussioni a Mosca sulla questione italiana, dall'estate dello stesso anno S. rimase praticamente responsabile del centro interno del PCI,il cui compito principale in questo periodo fu la preparazione del Congresso, che si sarebbe riunito a Colonia, in Germania, tra il 14 e il 21 aprile 1931, senza la sua partecipazione. S. infatti era rientrato definitivamente in Italia, dopo un primo soggiorno nell'autunno del 1930, il 1 gennaio 1931. Dopo essere ripetutamente sfuggito agli arresti operati dalla polizia fascista tra i quadri comunisti, cadde nelle mani della polizia il 3 aprile 1931 a Torino. Dall'aprile al dicembre del 1931 fu in carcere a Torino, successivamente a Roma, dove nel febbraio del 1932 fu celebrato il processo dinanzi al Tribunale speciale, che lo condannò a 17 anni e 9 mesi di carcere; trascorse il periodo di detenzione in parte a Lucca, ma sopratutto a Civitavecchia. Come ha scritto egli stesso, rimase «prigioniero del nemico sino al 18 agosto 1943». Essendogli stata ridotta la pena, rimase in carcere sino alla metà del 1936; fu inviato quindi al confino, prima a Ponza, poi, dal luglio 1939, a Ventotene, dove fu trasferito dopo avere trascorso altri 6 mesi di reclusione a Napoli, in seguito all'attività politica svolta al confino. Ritenuto «pericolosissimo elemento» fu costantemente sottoposto a particolare vigilanza. Infatti né in carcere né al confino cessò mai la discussione e la riflessione politica e l'opera di educazione politica tra i compagni e gli antifascisti reclusi, tra i quali si esercitava il fascino della grande coerenza politica ed ideologica del popolare Botte. Dal carcere stesso, riflettendo sulle ragioni della propria «caduta», in un messaggio ai compagni del PCI dell'ottobre del 1931 S. ribadì la necessità di rafforzare in ogni modo l'organizzazione della lotta illegale: «Bisogna insomma che nella testa di tutti entri il principio che si può e si deve piantare le tende in Italia non solo in carcere ma tra la massa, nelle nostre organizzazioni nella fabbrica».

Convinto assertore sin dagli anni della illegalità della necessità di portare la lotta contro il fascismo sul terreno dell'insurrezione armata, non appena fu liberato, il 19 agosto 1943, si recò a Roma per riprendere i collegamenti con gli altri dirigenti comunisti tra Roma e Milano, dove si trasferì definitivamente l'11 settembre dopo avere partecipato alla sfortunata difesa di Roma contro le forze tedesche. Dal 20 settembre 1943 alla liberazione del nord fu con L. Longo  tra i principali protagonisti della partecipazione comunista alla lotta armata, come membro della direzione del PCI per 'l'Alta Italia e soprattutto come commissario generale delle brigate Garibaldi, dando un contributo decisivo alla elaborazione della tattica e della strategia della Resistenza, come attestano tra l'altro le raccolte dei suoi scritti di quel periodo e la documentazione della sua attività di dirigente politico e di comandante partigiano. In particolare i suoi articoli sulla Nostra lotta (raccolti insieme a quelli del Combattente e dell'Unità degli anni 1943-45 nel volume I comunisti e l'insurrezione) costituiscono il più cospicuo contributo all'elaborazione di quella concezione della Resistenza come lotta armata insieme lotta di massa, con una forte accentuazione della polemica contro l'attendismo e un'altissima tensione politica, che fu alla base della sua azione operativa e che sarebbe ritornata nei suoi «ricordi» nelle sue «testimonianze» sulla Resistenza, come egli presentò modestamente il rilevante contributo documentario e storiografico dato nell'ultimo ventennio della sua esistenza alla conoscenza e all'interpretazione della Resistenza; la Resistenza come lotta di popolo, come movimento di massa, non opera di vertici ma di un profondo processo di politicizzazione alla base; non frutto di spontanee iniziative individuali ma di tenace e capillare lavoro di organizzazione, quel lavoro di oscuri militanti antifascisti che aveva consentito anche nei suoi meno appariscenti momenti, di conservare una presenza comunista nel paese senza soluzione di continuità e di operare dopo l'8 settembre 1943 la saldatura tra i quadri dell'antifascismo clandestino, delle carceri e della guerra di Spagna e le nuove leve dell'«antifascismo di guerra». La consapevolezza che ebbe dei limiti dell'unità antifascista non deve tuttavia far pensare che egli sottovalutasse o negasse le esigenze e il valore dell'unità dei partiti antifascisti. Il suo sforzo fu diretto a concepire l'unità, ed anche la politica di unità nazionale promossa da Togliatti non nel suo ineliminabile contenuto di compromesso tra le diverse forze politiche, compromesso tra le istanze dirigenti, ma nelle sue potenzialità espansive, nelle possibilità che si offrivano di allargare alla base lo schieramento delle forze trascinate nella Resistenza, con la preoccupazione costante che della iniziativa di Togliatti non si desse una interpretazione riduttiva sul terreno delle lotte di massa e soprattutto delle istanze di lotta di classe inalienabili dalla Resistenza.

Dopo la liberazione S. ricoprì cariche di primo piano nella vita del partito comunista e sedette con ininterrotta continuità quale rappresentante comunista negli organismi parlamentari. Nel giugno del 1945 fu posto a capo dell'organizzazione del PCI a livello nazionale, dall'8 agosto dello stesso anno nominato membro della direzione provvisoria del partito; al V Congresso del PCI (Roma, 29 dicembre 1945-5 gennaio 1946) fu eletto membro del Comitato centrale, della direzione e della segreteria del partito, nonché responsabile della commissione nazionale di organizzazione. Nel febbraio del 1948, dopo il VI Congresso del partito, fu eletto vicesegretario generale del PCI, una carica che ricoprì sino alla fine del 1954. Nel giugno del 1948 partecipò alla seconda riunione del Kominform in Romania, che si concluse con la condanna della Jugoslavia di Tito. Nel quadro della sua attività di dirigente del PCI spiccano alcuni momenti particolari: l'energia con la quale controllò la situazione dopo l'attentato a Togliatti del 14 luglio 1948 di fronte a pressioni insurrezioniste prive di fondamento reale, tanto più dopo che le elezioni del 18 aprile 1948 ebbero dato la maggioranza assoluta alla DC; le grandi mobilitazioni di massa contro il Patto atlantico e la guerra fredda, nel cui ambito va ricordato il movimento dei partigiani della pace; la parte decisiva che ebbe nella mobilitazione popolare contro la legge-truffa del 1953; l'energica lotta impegnata in difesa dei partigiani principalmente neI periodo della repressione scelbiana. Rimasto ininterrottamente membro del Comitato centrale del PCI sino alla sua morte, nel luglio del 1954 rimase vittima di un incidente che segnò l'inizio del suo declino politico all'interno del partito comunista: la defezione di Giulio Seniga suo stretto collaboratore, passato ad una azione apertamente scissionista e provocatrice nei confronti del PCI ebbe come conseguenza l'allontanamento di fatto di S. dalla vicesegreteria del partito e nel dicembre del 1956, all'VIII Congresso, anche dalla direzione del PCI. Non c'è dubbio che il caso Seniga, che colpì profondamente uno dei più alti esponenti del PCI, fu anche l'occasione che mise in evidenza alcune linee di dissenso della posizione di S. rispetto alla linea politica promossa e impersonata da Togliatti. Ciò si rese evidente nella concezione che S. ebbe sia del partito, secondo la tradizione della III Internazionale, sia della politica delle alleanze, nella quale avrebbe voluto portare tutto il peso della classe operaia e dell'intransigenza classista, con un maggiore e più intenso sviluppo delle lotte di massa in direzione delle istanze di «democrazia progressiva»; sia infine nel costante richiamo all'internazionalismo che si fece in lui anche più pressante dopo il XX Congresso del PCUS e dopo la contestazione giovanile del 1968.

Responsabile tra il 1955 e l'inizio del 1957 della segreteria regionale lombarda del PCI, diresse successivamente, sino alla fine del 1962, l'attività editoriale del partito. Ma dopo il 1954 la sua attività si sviluppò essenzialmente nel campo parlamentare e nelle organizzazioni della Resistenza. Membro della Consulta nazionale nel 1945-46, deputato all'Assemblea costituente nel 1946-47, entrò nel primo parlamento della repubblica come senatore di diritto; dalle elezioni del 7 giugno 1953 fu rieletto ininterrottamente senatore nel suo collegio di Biella; dal 16 maggio 1963 al 1972 fu anche vicepresidente del senato. Vicepresidente dell'ANPI e dal 26 giugno 1966 alla morte vicepresidente dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, ebbe una parte di primissimo piano nella mobilitazione popolare in difesa dei valori della Resistenza, come in particolare dopo le giornate del luglio del 1960, allorché si fece promotore al senato assieme a F. Parri e ad altri esponenti della Resistenza del progetto di legge di messa al bando del Movimento sociale italiano. Ma soprattutto, negli ultimi quindici anni della sua esistenza, pur senza mai interrompere una intensa attività politica, come attesta la sua partecipazione ai dibattiti interni del partito comunista e ai lavori parlamentari, dedicò gran parte della sua opera alla rievocazione e allo studio della storia del movimento operaio, dell'antifascismo e della Resistenza, presentando con la modestia del «testimone» spesso contributi di inestimabile valore documentario e di elevato interesse storiografico, pur nel segno di una profonda continuità con il suo operato politico. Concentrò la sua riflessione in particolare sulla storia del partito comunista, senza indulgere a ricostruzioni rituali ma sempre mettendo in evidenza la ricchezza del dibattito interno; sulla grandezza e i limiti della Resistenza, con una forte rivendicazione contro ogni visione spontaneistica della sua matrice nell'antifascismo delle carceri e delle prigioni; sulla sorte delle istanze di base espresse dai CLN, smentendo la rappresentazione caricaturale di chi gli attribuiva l'opinione che la Resistenza potesse avere obiettivi immediatamente socialisti. «Non si lottava per il socialismo, ma per un'Italia rinnovata e veramente democratica basata su nuove strutture sociali i cui pilastri avrebbero dovuto essere le formazioni partigiane, tutte le organizzazioni e gli organismi sorti durante la guerra di liberazione. L'insurrezione nazionale per la quale lottavamo non si poneva e non poteva porsi il problema della realizzazione della rivoluzione socialista, della dittatura del proletariato, ecc. ma neppure si proponeva il ritorno alla vecchia democrazia prefascista; lottavamo per realizzare una nuova democrazia, una democrazia progressiva che avrebbe potuto realizzarsi soltanto con delle profonde riforme strutturali e sociali col ricreare dalle fondamenta tutto l'apparato amministrativo e statale». La sua attività di studioso e di promotore di iniziative politico-culturali, quali l'Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza, non va interpretata né come un'astrazione dal lavoro politico né come compensazione psicologica di fronte alla forzata inattività quale dirigente politico, seguita ai fatti del 1954, che S. avverti come una profonda ingiustizia operata nei suoi confronti. Essa fu invece la prosecuzione della sua azione politica, con la consapevolezza di essere e di volere essere sempre un militante del movimento operaio e in particolare del partito comunista. Egli concepì questo lavoro come parte dell'attività politica alla quale non rinunciò mai completamente, conservandosi fedele a una concezione del partito e dell'internazionalismo proletario derivata dalla tradizione della III Internazionale.

Non ultimo aspetto della personalità di S. non solo come organizzatore di partito ma anche come uomo politico furono la sua concezione del l'internazionalismo e la consapevolezza del 'fatto che anche il partito italiano altro non era che l'unità di un unico esercito internazionale, una concezione tipica della III Internazionale, che trovò difficoltà a tradursi dopo il secondo dopoguerra, soprattutto nella fase della distensione succeduta alla «guerra fredda», in cui la scelta di campo aveva di necessità imposto la disciplina di blocco a favore dell'Unione Sovietica e degli Stati socialisti dell'Europa orientale. Numerosi, in particolare, furono i viaggi che S. effettuò nei paesi socialisti in missione di partito o in forma privata; nell'ultimo decennio della sua vita, come uomo di partito e come parlamentare, egli ebbe occasione di allargare il raggio delle sue visite ai paesi latino-americani e soprattutto ai paesi del medio oriente e dell'Africa settentrionale e centrale in lotta per la propria emancipazione: fu in Egitto e Siria nel luglio-agosto del 1967, nell'Africa settentrionale nell'ottobre-novembre dello stesso anno; in Giordania e Siria nel dicembre del 1969; nel Sudan, in Etiopia e in Somalia nell'ottobre del 1971. Fu da ultimo nel Cile di Allende, nella prima decade del gennaio 1972; e appunto al ritorno da quel viaggio il 13 gennaio di quell'anno, ebbe i primi sintomi del male che doveva condurlo alla morte e sulla cui origine i dubbi dei medici indussero lo stesso S. a formulare l'ipotesi che potesse essere stato avvelenato nel corso del suo soggiorno in Cile. Irreparabilmente minato nella salute, morì a Roma il 7 luglio 1973. (E. Collotti)

 
 
 
 
 

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