Servitori del Popolo

IO SONO IL DIRETTORE


IO SONO IL DIRETTORE“IO SONO IL DIRETTORE !” (sottinteso: tu non sei nessuno; sei un precario; il tuo contratto dipende da me, dalla mia volontà; posso decidere se fartelo prorogare oppure no, e dire che non mi servi più e mandarti a casa. Anzi posso dire perfino che non sei altezza del compito, tanto nessuno crederà mai a te, perché sono IO il  Direttore). Le espressioni che precedono sembrano il frutto della pura fantasia, invece  sono vere; rappresentano la realtà quotidiana che vivono tantissimi lavoratori precari (e chi la racconta), che uno Stato, che Gramsci definiva come lo strumento al servizio della classe dominante e che Marx voleva abbattere per organizzare una società senza più classi, ha organizzato per perpetuare “di fatto” la schiavitù (che non è soltanto fisica, ma anche psicologica e morale) che è stato costretto ad abolire per legge. E allora il “precario”, di fronte a tale semidio che parla investito d’autorità pubblica (imperium), pensa che in fondo ha ragione il Direttore, perché lui ha fallito sempre nella vita, mentre invece il Direttore, che è arrivato su tale vetta, è sicuramente migliore (sono soltanto malelingue quelle che dicono che ha avuto sempre dietro un Senatore importante, e che è un incapace, instabile mentalmente, ignorante). E ricorda anche che dalle elementari, fino al liceo pur avendo ottenuto sempre dei risultati scolastici ottimi (tanti dieci, ma forse per benevolenza, così come anche il 60/60 alla maturità con la versione di Greco tradotta anche in latino, avendo finito prima del tempo concesso) poi ha sbagliato le scelte successive. Avrebbe voluto iscriversi a lettere classiche ma le fu imposto dalla famiglia di scegliere farmacia. I risultati comunque furono buoni lo stesso, anche se durante il cammino la vita gli pose una serie di ostacoli di vario genere e complessità. La laurea alla fine arrivò ma la farmacia no, perché il numero chiuso di una sola farmacia per ogni 5.000 abitanti glielo impediva. E allora non restava altro da fare che lavorare come dipendente, in attesa di tempi migliori. Intanto, per un vizio d’infanzia, malgrado la famiglia da seguire e un padre bisognoso di cure, riprendeva gli studi e conseguiva una specializzazione triennale e un master in management sanitario che gli davano l’opportunità di avere un contratto di collaborazione coordinata e continuativa con un’azienda ospedaliera. In questo lavoro si prodigava, e non perché precario, per conservare il rapporto di lavoro, ma per indole e cultura umanistica (a volte fa la differenza, forse anche con il Direttore) tanto che veniva benvoluto da tutti, soprattutto dai pazienti che serviva con umiltà e competenza professionale. Il Direttore, però, questo consenso pubblico, tanto diffuso, non lo gradiva, perché dava risalto al “precario”, e creava anche gelosie nelle dirigenti di ruolo (assunte grazie al sisma del 1980: si, il sisma, che non ha portato soltanto disgrazie, ma anche posti di lavoro, seppur a volte con concorsi fasulli). “Il precario”, in altri termini, stava sovvertendo l’ordine costituito; i ruoli non venivano più rispettati per come la legge li ha distinti (di ruolo e non di ruolo, ossia precario; tra servitori dello Stato e servi di nessuno) ma metteva in risalto la competenza: se sei capace meriti, se non lo sei non meriti. Il sistema, così, avrebbe rischiato gravi conseguenze, quasi rivoluzionarie. E allora, come reagire ? Alla scadenza del contratto (a dicembre 2014) il Direttore farà in modo che non venga rinnovato. Il precario, così, a 50 anni suonati, se ne tornerà a casa buttando tutti i titoli scolastici e accademici rilasciati dallo Stato nel “cesso”, ma non sarà solo il precario ad aver perso la partita con la vita perché nel “cesso” ci finirà anche la credibilità dello Stato.