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IL “PASTO” DI CITTADINANZA

Post n°952 pubblicato il 05 Ottobre 2018 da rteo1

IL "PASTO" DI CITTADINANZA

Il cosiddetto "reddito di cittadinanza" - progetto politico del M5 stelle - è stato finora avversato da molti cittadini, ma ciò che lascia piuttosto perplessi è che è inviso anche a quelli del "mondo della sinistra", che pure dovrebbero avere a cuore le sorti degli indifesi e degli esclusi. A tale reddito fa da pendant la "pensione di cittadinanza", altro rimedio economico previsto in favore di coloro che percepiscono una pensione mensile al di sotto del livello minimo per la sopravvivenza (quantificato in euro 780 mensili). Per farla breve, si può dire che, in un modo o in un altro, il problema della povertà è stato messo al centro della politica dell'attuale governo. Indubbiamente rispetto alle soluzioni prospettate risulta possibile sollevare tutta una serie di obiezioni, a cominciare dal debito pubblico, che continua a lievitare, e allo sforamento del rapporto deficit/Pil, che mette in ansia i mercati e l'U.E. Ma detto questo, è ben evidente che rispetto al grave problema della povertà assoluta in cui versano, ormai, alcuni milioni di cittadini le "forze" politiche non governative, e in particolare quelle di sinistra, come il PD, non dimostrano di offrire soluzioni alternative né credibili. Dire, infatti, come fa tale partito, che con il "reddito di cittadinanza" si fa solo assistenzialismo, mentre, invece, occorre dare ai cittadini il lavoro, perché soltanto questo dà dignità, significa voler eludere il problema e continuare a tutelare solo quei cittadini che sono dentro il sistema politico (come è accaduto col bonus degli 80 euro e il ticket di 500 euro) e sono garantiti da redditi certi (e spesso anche ingiustamente elevati). Si può, infatti, pur aderire, in linea teorica, alla predetta obiezione, e cioè che occorra dare lavoro, ma non si può di certo pensare che in attesa di dare a tutti un lavoro (cosa peraltro impossibile in economia) chi è povero assoluto deve attendere e intanto "arrangiarsi" come può, o morire di fame. E che il problema della povertà meritasse delle risposte era stato compreso anche dal precedente governo che, seppur timidamente, e con notevole ritardo, rispetto a come invece erano stati affrontati altri problemi sociali (ad es. quello del fallimento di alcune banche), aveva previsto, all'approssimarsi delle elezioni (che facevano intravedere una probabile sconfitta dei partiti di governo),  il cosiddetto "reddito di inclusione" stanziando in un apposito fondo circa un miliardo e mezzo di euro (somma certamente insufficiente per raggiungere la stragrande maggioranza dei cittadini poveri ed emarginati). Il "problema povertà", perciò, esisteva e persiste tuttora per cui va responsabilmente affrontato, come è giusto che sia in una Comunità statale che continua a professarsi tale, anche se spesso dimostri di non crederci sino in fondo, soprattutto per poter continuare a perpetrare privilegi di classe. Vale la pena sottolineare che una Comunità, spesso evocata dai politicanti come semplice intercalare senza averne chiaro il concetto, è tale solo quando vi sia condivisione, nel bene e nel male, delle sorti di tutti i membri. La Comunità, perciò, non esiste più, ovvero è soltanto un simulacro legislativo, costituzionale e istituzionale, quando, mediante la legislazione, i cittadini sono discriminati tra ricchi e poveri, tra padroni e schiavi, riconoscendo e attribuendo le risorse economiche soprattutto ai primi. Bisogna sempre ricordare che le prime cellule sociali, che erano aggregate dal vincolo di sangue, condividevano tutto; nessuno, perciò, era privato almeno dei beni necessari alla sopravvivenza. La fusione di tali cellule in aggregazioni sociali sempre più complesse, fino a quella suprema oggi detta Stato, ha avuto il solo obiettivo di migliorare le condizioni di vita di tutti gli appartenenti alla stessa Comunità statale. È, pertanto, da escludersi in assoluto che un nucleo familiare sia entrato a farne parte senza avere le garanze che la propria condizione sociale, economica e politica sarebbe stata migliore e mai peggiore di quella originaria, regolata soltanto dalle forze della natura. La "legge", perciò, quale strumento politico sostitutivo delle forze della natura, non può mai derogare al principio che ogni essere umano appartenente al Consorzio civile deve essere provvisto di risorse utili e necessarie per una vita dignitosa. Il lavoro, perciò, come sostengono i "partiti di sinistra", garantisce certamente la dignità ma questa, in assenza di lavoro per tutti, deve essere necessariamente tutelata con l'attribuzione di risorse economiche. Riguardo a queste, poi, si obietta che le casse pubbliche, stante l'elevato debito sovrano di circa 2300 mld di euro, non risulta possibile garantire a tutti i poveri un reddito minimo di cittadinanza perché il costo annuale per lo Stato, pari ad oltre dieci miliardi, sarebbe insostenibile. È del tutto evidente l'inconsistenza della obiezione, che tende, ovviamente, a conservare lo status quo dei privilegi delle diverse categorie e corporazioni. Non si può negare, infatti, che nell'ambito pubblico sono tuttora elargite remunerazioni esorbitanti, senza alcun rapporto proporzionale con un minimo da garantire a tutti. Oggi la voce stipendio della busta paga, se si esclude la riforma del 1978, che aveva fissato per livelli funzionali le retribuzioni per tutto il comparto pubblico, costituisce una voce isolata rispetto a tutte le altre e molteplici indennità strampalate, premi di produzione, premi incentivanti, ticket pasti, e altre amenità, tipiche di civiltà preistoriche, reintrodotte a causa delle azioni sindacali che hanno affermato le diverse peculiarità dei rami della burocrazia. Bisogna, perciò, iniziare a sfoltire la giungla retributiva (compensando con gli "onori pubblici" quei cittadini che li bramano) per recuperare le risorse necessarie per affrontare il problema della povertà assoluta; inoltre, occorre introdurre un inderogabile rapporto tra il minimo di reddito per la sopravvivenza riconosciuto a tutti i cittadini e il massimo di reddito per i lavoratori pubblici, secondo il giusto rapporto proposto già da Platone nella misura di uno a  cinque, che peraltro era coincidente proprio con quanto percepiva l'amministratore delegato della Fiat qualche anno addietro quando l'equità e la giustizia sociale erano dei valori generalmente condivisi. Il "reddito di cittadinanza", così, potrà entrare a pieno titolo nell'ordinamento giuridico e potrà garantire tutti, perché non è assolutamente vero che chi oggi è ricco lo sarà di sicuro anche domani o avrà sempre garantito un posto di lavoro. È il caso anche di ricordare che nella Grecia antica in alcune polis erano stati prescritti i "sissizi", ossia i pasti comuni; questi consentivano di instaurare e consolidare i vincoli di appartenenza e di solidarietà. I famosi simposi erano anch'essi una espressione, seppur in ambito privato e circoscritto, di tale idea comunitaria di condivisione del sociale. Anche le più recenti Comunità contadine - tra cui quelle irpine - praticavano spesso la consumazione di pasti in comune (una sorta delle sagre paesane dei tempi moderni). Si potrebbe, perciò, recuperare anche quella remota esperienza socio-politica per garantire nell'immediato a tutti i cittadini indigenti almeno un "buono pasto", come peraltro viene attribuito ai lavoratori che poi lo spendono mensilmente nei supermercati. Un "pasto di cittadinanza", perciò, come diritto fondamentale e non come elargizione del potere, potrebbe intanto costituire un primo e rapido passo in sintonia con l'istituzionalizzazione del reddito e della pensione di cittadinanza perché tale pasto giornaliero non lede certamente la dignità - come forse eccepiranno in mala fede alcuni cittadini che non ne hanno assolutamente bisogno (e beati loro) - ma impedisce a chiunque sia in una condizione di povertà di dover fare la fila presso la Caritas o di rovistare tra i cassonetti, di fronte alla totale indifferenza di tanti cittadini democratici che predicano l'accoglienza indiscriminata ma tengono chiuse e sigillate le porte delle loro abitazioni.

 
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Commenti al Post:
massimocoppa
massimocoppa il 05/10/18 alle 12:07 via WEB
personalmente sono di formazione keynesiana, quindi credo alla bontà della spesa pubblica se serve a spingere la domanda globale; quindi sono anche favorevole ai sussidi, perché verranno spesi e aiuteranno l'economia. L'aumento del deficit, per i keynesiani come me, non è un problema, se ha uno scopo virtuoso e non finisce sotto controllo
(Rispondi)
 
massimocoppa
massimocoppa il 05/10/18 alle 12:07 via WEB
ovviamente volevo dire "se non finisce FUORI controllo" :-)
(Rispondi)
 
 
rteo1
rteo1 il 06/10/18 alle 08:27 via WEB
Buongiorno. Sono in linea con te. In questa riflessione mi pongo solo l'obiettivo minimo, ossia un pasto al giorno a chi muore di fame, visto che per il reddito di cittadinanza sia il PPD che Forza Italia (strana coincidenza) sono decisamente contrari.
(Rispondi)
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