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filo aperto con tutti coloro che s'interrogano sull'organizzazione politica della società e che sognano una democrazia sul modello della Grecia classica

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« UMANO, ESSERE-UMANO E LI...MEZZI E FINI DELL'UOMO »

IL SENSO IN SÈ E LA COMPETIZIONE

Post n°1069 pubblicato il 25 Dicembre 2022 da rteo1

IL SENSO IN SÈ E LA COMPETIZIONE

L'uomo ha bisogno di un "senso" al suo "esserci" nel mondo. Egli non riesce a vivere senza "darsi un senso" e a "dare un senso" all'esistenza, soprattutto in funzione del "dopo". Anzi, è proprio quest'ultimo, "il dopo", che lo tormenta di più, tanto che i più fragili psicologicamente - ossia la stragrande maggioranza degli umani - preferiscono non pensarci e fare ricorso ad inutili e superstiziosi "scongiuri" come se questi siano utili per cancellare l'evento finale. L'idea di dare un senso alle cose, alle azioni, agli accadimenti, che si manifestano nella realtà fenomenica strugge il pensiero. È questo -il pensiero- che tormenta la vita. Non di tutti, ovviamente, ma di certo di tutti coloro che sono convinti che esso sia il mezzo di interlocuzione con l'universale, col Tutto, l'infinito, l'indeterminato, l'Essere. La Costituzione italiana lo "celebra" all'art.21, comma 1, ove è sancito che "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", salvo, poi, limitarlo, al comma 6 : "Sono vietate le pubblicazioni a mezzo stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni", oltre a sanzionarlo penalmente con i "reati di opinione" (vilipendio) e di "satira" (ingiuria e diffamazione).  Ma questo "dualismo" costituzionale e giuridico non è altro che la prova indiretta che ad essere duale è proprio "il pensiero". Ma si ha "paura" di ammetterlo perché così crollerebbe una certezza fondamentale su cui è stato strutturato l'intero "castello di sabbia" degli esseri umani. Hegel nel suo saggio "La fenomenologia dello spirito", sosteneva che "la realtà è autocontraddittoria, tende a superare sé stessa e a divenire altro da quello che è". Diceva anche che l'idea deve manifestarsi e che lo fa diventando realtà naturale la quale ha in sé la "ragione". Il problema, a mio avviso, è quello di capire se già l'idea sia in sé "autocontraddittoria" oppure se lo diventi dopo, nel momento in cui la "realtà" si manifesti. La risposta (peraltro, allo stato, senza alcun fondamento scientifico) non è priva di conseguenze: Postulare, infatti, che già il pensiero sia contraddittorio in sé vuol dire ammettere che, da una parte, verso "l'alto", tutto l'universo è autocontraddittorio, e, dall'altra, verso il "basso", che tutte le decisioni umane (individuali o collettive, sociali, politiche, istituzionali, economiche, ecc.) sono autocontraddittorie. Relativamente al "basso", ossia ai rapporti tra gli esseri umani, tra le molteplici e diverse "contrapposizioni" assurge quella del dare "senso" alle cose (e, prima di tutto, alla vita) perché automaticamente ne deriva un dualismo con il "non senso". Questa distinzione avviene per opera della c.d. "ragione" umana, che è frutto di convenzioni sociali "assolutizzate" che la elevano anche a parametro supremo di tutti i comportamenti e delle elaborazioni politiche. Mediante tale "distinzione" alcune azioni sono consentite (perché avrebbero senso) e altre escluse (perché non avrebbero senso). Questo non vuol dire, ovviamente (anzi potrebbe essere vero il contrario), che tale contrapposizione sia valida anche nel "mondo" dell'illimitato, dell'indifferenziato (com'è, ad es., anche il "mondo quantico"), dove in potenza tutto è possibile e nulla impossibile, ove, perciò, potrebbe essere che  senso e non senso siano un tutt'uno, coessenziali a sé stessi e a tutti gli enti universali. Purtroppo, però, non se ne può avere certezza che sia così perché il "libero pensiero" è socialmente condizionato, segregato e plasmato dalle "regole" del "super-Io" (interiore ed esterno) che governa la mente e parte della psiche umana. E così gli esseri umani continuano a rimettersi alla "ragione" che scinde, divide, ciò che si reputa avere senso rispetto a ciò che non ne ha, anche se (forse) nell'indifferenziato (com'è peraltro anche il subconscio umano) non esista alcuna "contrapposizione"; che "senso e non senso" siano equivalenti (senso-non senso e viceversa), ovverosia esista un "senso in sé" di tutti gli enti dell'universale (uomini inclusi, ovviamente). E allora, se le cose stessero così (e non si può escludere. Anzi, ben si potrebbe affermare.), sorgerebbe inevitabile la seguente domanda: esiste un senso in sé, in generale, e della stessa vita ? Una canzone dal titolo "Un senso" di un noto artista italiano contiene il seguente brano: «Voglio trovare un senso a questa vita / Anche se questa vita un senso non ce l'ha ». Gli artisti, si sa, hanno una sensibilità particolare che consente loro di travalicare i limiti della "ragione" e di avvicinarsi al "senso ontologico" delle cose e del Tutto. Bisogna, perciò, tenerne sempre conto, ma non si può, ovviamente, abdicare mai la verifica, la ricerca della prova mediante il proprio pensiero. Ed è proprio questo che fa subito emergere l'aporia, la contraddizione in sé, del predetto brano musicale: se si ritenga, infatti, che la vita non abbia senso, allora non ha senso cercare (trovare) un senso. Invece è evidente l'errore di escludere, a priori, che "la vita abbia un senso in sé stessa" (così come la sua antagonista: la morte). Certamente questa soluzione ridimensiona l'uomo e il suo egocentrismo e relativo antropocentrismo ma consente di comprendere che non è vero che non esista alcun senso, in assoluto, ma che invece il senso esista, come "senso in sé", sia della vita che di tutte le cose, e che questa "conclusione" non impedisce agli uomini di darsi e dare un senso anche se essi stessi sono posseduti e dominati dal "senso in sé". Un modo, seppur indiretto, per "dimostrarlo", tra i tanti possibili, risulta essere quello relativo ad alcuni rituali fondamentali esistenti in natura. Il primo è certamente quello del "corteggiamento", finalizzato alla riproduzione. Tutte le specie viventi sono "schiave" di tale rituale, che prelude la selezione del partner. Solitamente è il "maschio" che si esibisce, come su di un palcoscenico, assumendo le "pose" più ardimentose, ma anche "ridicole", al tempo stesso. Si ostentano piumaggi, canti, stridi, muscoli, e si fa ricorso alla "competizione", alla "lotta", tra gli aspiranti per il primato dell'accoppiamento. La "femmina" solitamente attende che la "contesa" abbia termine, e a volte sceglie anche il partner che ritenga più idoneo allo scopo (questa libertà di scelta e anche d'iniziativa sono diventate, ormai, "patrimonio culturale" di buona parte del "mondo occidentale"). In natura, quindi, tutto avviene secondo la "competizione" in vista dell'accoppiamento per la "riproduzione". È questo, quindi, il "trofeo", il "premio" in palio, che consente la trasmissione del "patrimonio genetico" e la prosecuzione della specie. Anche gli esseri umani soggiacciono alle stesse leggi della natura. Ma essi, che hanno anche il "dono" della fantasia, frutto della follia che abita l'inconscio, ci aggiungono anche altro, che è il prodotto della società e della cosiddetta "civiltà": i riti. Sono questi, infatti, che più di tutto marcano la differenza tra gli umani e le altre specie viventi, e non perché queste ultime non abbiano i propri "riti", giacché anch'esse ne hanno (secondo natura), ma perché gli umani hanno anche l'esigenza di "dare senso" alle proprie azioni, per cui "inventano" rituali, spesso bizzarri ed estrosi, che a volte travalicano ogni (buon) senso, fino al punto che "il senso non ha più alcun senso". Per comprendere queste "pazzie" tipiche del mondo umano è sufficiente riflettere sulla complessità e varietà dei "corteggiamenti", ma anche sull'accoppiamento, che precede, prescinde, o segue il rituale del matrimonio, che spesso si conclude con i "festeggiamenti" a cui prendono parte "processioni" di invitati. Lo stesso dicasi per i "rituali" politici, istituzionali, sociali prescritti dalle "regole" giuridiche, etiche, morali, religiose, che a volte non hanno alcun collegamento col reale, col naturale, "costringendo" gli individui e le masse a credere o accettare per fede (o per appartenenza) che simboli e segni abbiano in sé ed esprimano principi e valori "assoluti", trascendenti, metafisici, senza rendersi conto che durante lo spazio-tempo del divenire, senza il libero pensiero, "un essere relativo e finito non può capire e scoprire l'assoluto né l'infinito". E ciò nonostante, gli umani continuano a voler imporre in generale le loro produzioni, sacralizzandole con i riti, come se fossero l'espressione della "verità". Alla base, comunque, dell'esistenza, sia umana che non, vi è, come detto, la "competizione" che, in generale, secondo natura, è finalizzata alla "riproduzione", e quest'ultima, a sua volta, alla stessa "competizione", intesa secondo il suo significato originario (da cum petere, andare insieme verso lo stesso obiettivo), diverso dal "Polemos" (il conflitto eracliteo), dall'autocontraddittorietà della realtà hegeliana e anche dalla "dialettica socratica" (seppur, quest'ultima, affine in ordine alla ricerca della "verità"). La "competizione", perciò, come innanzi intesa (andare verso il "comune obiettivo", cioè il "pensiero puro, dell'energia), e la riproduzione (in funzione della prima e viceversa), costituiscono i veri fondamentali di tutti gli esseri viventi e delle organizzazioni umane. Anche le "leggi", quindi, così come la competizione per l'assunzione di funzioni e ruoli pubblici, hanno come substrato, più o meno inconscio, dominato dall'economia della specie, il fine della "riproduzione". In ordine a quest'ultima giova sottolineare che essa nell'élite intellettuale e creativa tende spesso a "sublimarsi" e, così, l'élite trae "piacere"  dalla creazione di prodotti artistici, culturali, politici, economici, ovvero, nel campo istituzionale, mediante la identificazione col potere costituito, e, nel mondo religioso, con la missione verso il trascendente. La "riproduzione", perciò, quale esigenza primaria ed essenziale per la natura, interconnessa con la competizione, nel consorzio umano impone il suo "senso in sé", non curandosi  del "non senso umano" che mediante la divaricazione dell'intelletto, per esigenze socio-politiche, oltre che psicologiche dell'individuo, spinge a "dissociare" "l'essere" dal "dover essere", mediante l'apparire (che è anch'essa una forma della "competizione"). E cosi può accadere di assistere a "rituali" pubblici, privati e sociali del tutto analoghi a quelli tipici dell'infanzia, seppur celebrati con "solennità". Ma si tratta solo e sempre del "senso" convenzionalmente distinto dal "non senso" per appagare l'esigenza tutta umana di credere di avere il primato assoluto sia in natura che su tutte le altre specie viventi. Ma soprattutto di credere di "essere altro" rispetto a ciò che realmente si è e che si manifesta ai sensi. Tutto comunque, e si ribadisce, si muove sempre in base alla competizione. Nulla e nessuno la può impedire perché essa è alla base della natura (anche la pandemia virale costituisce un esempio di "competizione" tra specie diverse) ed ha senso "in sé stessa". Tale "competizione" in ambito sociale viene disciplinata mediante le "regole" e le istituzioni. Lo sport, come ad es. il calcio, ne costituisce l'esempio per eccellenza, dove il "trofeo" (la coppa) costituisce l'equivalente simbolico del risultato dell'accoppiamento e "riproduzione sessuale o intellettuale". Il "frutto" è il trofeo in palio, la coppa, come l'elezione alla carica pubblica è il premio della competizione elettorale (e il "posto fisso", il premio del concorso pubblico). Certamente senza né regole socio-politiche né istituzioni tutti gli umani sarebbero preda delle basilari "pulsioni naturali" (alimentari, per la sopravvivenza, e sessuali, per la prosecuzione della specie), che pur tuttavia, seppur in modo più o meno inconscio, continuano ad orientare i comportamenti degli umani, singoli e associati. E tanto è vero che analizzando i criteri di distribuzione delle risorse economiche prodotte dalle società "civili" ben si coglie come tali risorse siano distribuite sulla base (iniqua ma resa legale) della "competizione" tra le diverse funzioni e ruoli pubblici e privati, secondo gerarchie più o meno rigide tra classi e caste. Relativamente a queste va detto che la "democratizzazione della Repubblica", come è accaduto nel dopoguerra in Italia (ma anche in molti altri Stati europei), ha consentito di superare le dure ed estreme contrapposizioni sociali di stampo ottocentesco, ben analizzate e sviluppate nel Manifesto del 1848 e nel Capitale di K. Marx, che, secondo la logica dialettica dell'ineludibile conflitto tra le classi, avrebbero dovuto portare la "classe proletaria" (operai e contadini) alla conquista del potere politico diventato prerogativa della "borghesia", che lo aveva sottratto alla "classe feudataria". Per effetto della "democratizzazione", che ha "imborghesito" i proletari, come argutamente osservato dal filosofo Aldo Masullo nella relazione "crisi della fenomenologia e fenomenologia della crisi", la contrapposizione tra le classi si è diluita, soprattutto dopo i "moti del 1968". La "contrapposizione", così, nell'attuale "Repubblica democratica", ha ridimensionato il potenziale "rivoluzionario" della "classe proletaria" e ha assunto la forma e la natura della "competizione" tra molteplici "gruppi di interessi" (partiti, in primis, sindacati, corporazioni professionali, burocratiche, istituzionali, associazioni, ecc.). La sostanza, però, non è cambiata in modo radicale perché anche nella "Repubblica democratica" permane la "competizione" per la conquista del "premio" (l'accaparramento delle risorse economiche), finalizzata "all'accoppiamento" (scegliere o essere scelti dal partner) o alla sublimazione (assunzione ed esercizio del potere, et similia). Ovviamente la "competizione", però, può anche giungere a livelli estremi, come accade (e sta avvenendo) tra le potenze statali, che spingono la competizione nel campo bellico nel quale, a causa dell'esistenza delle pulsioni distruttive nell'inconscio umano, la soppressione della vita del "nemico" diventa il "trofeo" da conquistare. E gli "Stati", strumenti idonei ad esaltare le virtù dei cittadini, se mal gestiti diventano  amplificatori delle "pulsioni distruttive" che scaricano la "forza" e la "violenza" cieche e bieche dimostrando che la "ragione" è pura convenzione. L'esperienza, però, finora maturata, anche grazie al contributo della cultura, delle idee liberali, della scienza e della tecnologia, induce a ritenere che il (buon) senso umano possa avere senso, così come è avvenuto con la "democratizzazione della competizione" che seppur ostacolata dalle élites e ancora imperfetta, perché trascura e a volte vessa, tiranneggia, le minoranze politiche (e non solo), costituisce la migliore soluzione sociale e politica finora adottata. Per questo essa dovrebbe essere estesa, quanto più è possibile, in tutti gli ambiti (istituzionali, politici, economici), con l'adozione di "statuti di libertà per le minoranze", se si vogliano ridurre i contrasti sociali (e le guerre civili e tra Stati). Certamente la "competizione" prima o poi "supererà" le odierne civiltà più "evolute" e anche l'attuale democrazia, come già si coglie dai segnali che si registrano sia all'interno che all'esterno dell'Italia. E questa sarà la prova evidente dell'esistenza del ciclo vitale di tutto ciò che esiste in natura; ma anche che tale ciclo ha il "senso in sé" così come nella fondamentale e ineliminabile "competizione", a cui tutto è assoggettato. È la "competizione", quindi, secondo il suo "senso in sé", di concorso verso il comune obiettivo (il pensiero puro, l'energia), "il principio fondamentale" che coinvolge la vita stessa e la natura. Tuttavia, nel divenire, c'è anche spazio per il "senso" degli esseri umani, singoli o associati, utile per metter ordine e dare speranza alla vita individuale, sociale e politica degli esseri umani. L'importante, però, è che tale "senso", prodotto dalla "ragione", da cui si originano "le convenzioni", non diventi mai "verità assoluta" perché questa, è interconnessa alla "competizione", che ha in sé stessa il proprio senso, ben diverso dal "senso in sé" degli esseri umani e di ogni cosa ed enti dell'assoluto.

 
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misteropagano
misteropagano il 26/12/22 alle 11:03 via WEB
:mi sembra che il cuore - quello divertente, l'ho trovato divertente - - sia "un essere relativo e finito non può capire e scoprire l'assoluto né l'infinito" a meno che non si eserciti a superare ogni tipo di senso contrapposto al senso e al non senso (e mi trovi d'accordo sul libero pensiero.); che la cosiddetta "democratizzazione" - ancora imperfetta - pur giocando un ruolo decisivo nella competizione pare, a mio avviso, snaturare di senso ciò che sembrava averlo: intendo cultura e gli ammenicoli dei rituali che danno senso all'esistenza. Di fatto è presente una disruption galoppante dovuta alla messa a disposizione di chiunque di una massa notevole di informazioni, assimilate tali e quali senza metabolizzazione dell'esperienza, e tali da portare, infine, ad una effettiva mancata alternanza di contenuti. Così, il rito, si replica senza distinzioni, giacché ogni rito ha il suo senso - per sfuggire ad un rito, torneo, o trionfo accettato e tramandato, se ne instaurano di ogni tipo: evoluzioni, alterazioni, competizioni con gli originari. Un destino quantistico riunirebbe ogni Uno nel nulla e nel tutto.
Forse lo meritiamo, intendo come silenzio della Specie.
Nel frattempo, occupiamo si il tempo, ci mancherebbe, nel vederselo sfilare poiché quello epocale, globale, e o frattale ha bisogno di molto molto tempo per far vedere, forse, nuove, vere Albe. Solo nel piccolo possiamo confidare di aver messo un piede, oltre. Buon 26. Misty^
(Rispondi)
 
rteo1
rteo1 il 27/12/22 alle 08:41 via WEB
Grazie per gli spunti. E' da questi che il pensiero si perfeziona. L'infinito e l'assoluto non sono alla portata dell'umano, tuttavia questi, coltivando il libero pensiero (come ben dici andando oltre il senso-non senso) può coglierne il significato. Cambierà qualcosa nel mondo ? No, almeno non nell'immediato, però la propria vita se ne gioverà. Circa la "democratizzazione" di alcune società, premesso che trattasi di strumenti politici illusori mediante i quali ci si illude di concretizzare l'eguaglianza (che non esiste nella fenomenica),gli umani governano se stessi e danno "senso" al proprio vivere in comunità. E' ovvio che tutto questo non farà nè accelerare nè decelerare il moto rotatorio della terra di circa 1600 Km/h però accompagnerà meglio il passaggio di stato degli umani, terrorizzati dal processo di trasformazione che necessariamente spinge verso il "poi", il dopo. Buone feste e felice anno nuovo
(Rispondi)
 
 
misteropagano
misteropagano il 08/01/23 alle 13:24 via WEB
Felice 2023 rteo, tornerò volentieri a leggere il primo post dell'anno. Saluti
(Rispondi)
 
 
 
rteo1
rteo1 il 08/01/23 alle 15:46 via WEB
Grazie. Buon 2023. Con gli occhi dei sensi e della mente.
(Rispondi)
ElettrikaPsike
ElettrikaPsike il 14/01/23 alle 07:01 via WEB
Parlando di scongiuri introduci un argomento non da poco rteo,  che apre varchi e riflessi in ognidove e che non si può certo liquidare facilmente, relegandolo nell'ambito semplicistico e immediato della superstizione. In sintesi, richiami i confini labili seppure apparentemente netti tra scienza, fede religiosa e credenze popolari, della doxa. Lo scongiuro, infatti, trova le sue radici nell'antropologia come forma ritualistica e come esorcismo espletato per evitare qualsivoglia conseguenza negativa e nociva (per sè o per gli altri) sia esso derivante da forze percepite come espressamente maligne, oscure,  sia da se stessi, dalla propria insicurezza e dalla propria paura. Di fatto, la stessa preghiera diventa una forma istituzionalizzata di scongiuro nella religione. Scienza, fede, credenza popolare, per quanto possano sembrare lontane e addirittura inconciliabili tra loro, sono storicamente interconnesse e, in un certo senso, intrecciate quando non sovrapposte. Lo sviluppo della scienza è nato proprio dalla primitiva volontà dell’uomo di vincere la paura dell'ignoto (forse la prima e, in definitiva, unica vera sfida dell'uomo). Il timore verso i fenomeni naturali considerati come inspiegabili e minacciosi veniva, così, esorcizzato attraverso rituali e scongiuri trasmessi di padre in figlio; ma le superstizioni, come tutti i riti apotropaici pagani che perseguivano lo scopo di dominare la paura e l’angoscia attraverso ritualistiche, non potevano non sfociare nella religiosità e nel rapporto con il mistero, e di conseguenza con il divino ed il sacro in ogni declinazione e sfumatura possibile. Pertanto diventa difficile liquidare nell'inutilità la totalità della ritualistica umana, se si pensa che dalla più semplice forma di meditazione alla preghiera, fino al più banale procedimento di organizzazione mentale - comunemente definito "metodo" - l'uomo non fa che proporre rituali finalizzati all'ottenimento di un risultato positivo che annulli la prospettiva di sconfitte e risultati spiacevoli. Alla fine, ogni cosa che facciamo che sia volta ad una riuscita favorevole è, in un certo senso, riconducibile nella grande famiglia degli "scongiuri", e non soltanto la pratica superstiziosa vera e propria. Non è, infatti, soltanto nel "toccare ferro" o nello stringere corni scarlatti che si può parlare di scongiuri. In fondo, le stesse tecniche previste dalla programmazione neurolinguistica che aiutano ad identificare i modelli di pensiero e i comportamenti più adatti per conseguire determinati risultati non sono forme di "pensiero magico" comparabile agli scongiuri? Ed ancora, pensiamo all'effetto placebo in medicina:  pensare che certi rituali possano curare una malattia può, talvolta,  stimolare un miglioramento della sintomatologia. Quindi, al di là della fede personale o dell'approccio soggettivo ed intimo di un individuo con il sacro, con il mistero e con la dimensione magica dell'esistenza c'è da tenere in conto che questa sorta di "ritualistica dello scongiuro", se da un lato è pericolosamente assimilabile ad un disturbo ossessivo compulsivo e/o riconducibile alla più buia superstizione, dall'altro è ben di più di ciò che appare, nascondendo, in una forma distorta e degradata, un fondamento tutt'altro che ingenuo o astruso. Se lo sviluppo della scienza ci ha liberati da un percorso inizialmente impostato sulla sudditanza e sul timore, emancipandoci dai tabù attraverso la possibilità di conoscere empiricamente la realtà, ricordiamoci anche che, talvolta, il sapere scientifico è sorprendentemente cieco, e non soltanto virtuoso o intellettualmente sofisticato. Come ogni fatto umano, infatti, il suo valore è inscindibilmente legato all’uso che se ne fa. E se la scienza si preoccupa di comprendere il “come” dei fenomeni, la saggezza individuale, la filosofia e l'approccio più onesto e puro con il mistero ci aiuta a porci domande sul "perché", sul fine di quella conoscenza. Allo stesso modo, però, certamente anche l'elemento di sacralità è soggetto a potenziale ambiguità perché anche la fede è un atto umano che può essere facilmente percepito in modo distorto e forzatamente incanalato da più volontà di dominio. Distillati di secoli di riflessione e di esperienza umana, infatti, possono venire facilmente e velocemente trasformati in slogan con pretese di verità dogmatica. La fede più intima, se liberata dai fanatismi (e con la ragione umana e la dignità come banco di prova) può essere un vero antidoto per la superstizione e la più schizofrenica credulità; ma allo stesso modo anche la scienza dovrebbe essere sempre accompagnata dal coraggio di credere che non esiste solo quello che si vede e si tocca. Sul pensiero contraddittorio in sé, invece, ti posso dire che l'esistenza stessa implica - e tuttavia trascende - la contraddittorietà con l'esistenza dei paradossi, se ci pensi. E senza che essi siano scandalo per la ragione. Il caos non è, in fondo, un ordine non ancora decifrato dove ciò che  appare disarmonico ad un primo e parziale ascolto non lo è più all'ascolto della sinfonia completa?  E la stessa considerazione che in potenza tutto è possibile  e nulla è impossibile diventa contraddittoria se la si analizza. Se ogni cosa è possibile, allora anche l'impossibile lo è (possibile) quindi non è vero che ogni cosa è possibile. E se nessuna cosa è impossibile neanche l'impossibile è impossibile, quindi l'impossibile è possibile. Io, poi, più che di indifferenziato parlerei di simultaneità eliminando la presenza della competizione. Pertanto, ti posso solo dire che per me un senso della vita c'è eccome, e non solo nonostante ma anche - e proprio - grazie ai paradossi.  
(Rispondi)
 
rteo1
rteo1 il 14/01/23 alle 09:29 via WEB
E' sempre un piacere leggere le tue riflessioni. E come non condividerle, per la profondità e vastità del ragionamento e delle giustificazioni. Spero tanto che la tua pagina possa costituire per gli erranti una valida strada per proseguire il cammino verso la ricerca della "verità", ovvero del "senso", tema del "mio" post. Scrivi: " Se ogni cosa è possibile, allora anche l'impossibile lo è (possibile) quindi non è vero che ogni cosa è possibile. E se nessuna cosa è impossibile neanche l'impossibile è impossibile, quindi l'impossibile è possibile". Ebbene, per cogliere la "verità" insita nell'apparente contraddizione credo che occorra accettare, come dato di fatto, che la "vita è duplice in sé": un'apparente realtà, il c.d. quotidiano, e l'altra "realtà", del pensiero e dell'inconscio. Le disamine "umane" hanno per oggetto la prima realtà perciò l'impossibile è e rimane impossibile perchè in tale "realtà", che definisco "sensibile" per capirci, è tutto predeterminato (il c.d. determinismo, che gli umani rifiutano perchè limitativo del proprio Io). Ma la "vita", come dicevo, è "duale", pertanto, nell'altra parte, non esiste nulla di "impossibile". Il problema sta nel fatto che gli umani non danno importanza, o la stessa importanza, a quest'altra parte della vita, perchè presi, catturati, dalla bramosia degli istinti e dai sensi. Inoltre, va poi considerato che "ogni singolo umano" è un ente diverso, necessariamente differente, da tutti gli altri. Ed è "necessario" che sia così perchè altrimenti tutti gli umani sarebbero la copia di tutti gli altri, e anche le altre forme viventi. Invece tutto dev'essere singolarmente differente, anche a livello di singole cellule di ogni organismo vivente. E in corrispondenza vi è uno specifico "senso". Cercare, perciò, un senso che sia "comune" non ha senso. Ogni ente ha senso in sé e l'unico "senso comune" è soltanto nel "Tutto", ossia nella fusione di tutti gli enti, indistinti, illimitati. Avverto però, a questo punto, la "responsabilità" di dover anche precisare che ogni singolo "umano" dev'essere partecipe della "prima realtà" nella quale deve dare il "proprio sé". E quindi prendere parte, anche alle dinamiche "politiche", sociali, civili. Con una convinzione, però, che il risultato è il prodotto di tutti i contributi, nel c.d. bene o male. L'uomo deve vivere il suo tempo. Ma lo deve "vivere". In che modo ? essendo sé stesso. Così com'è. Singolarmente diverso, perchè pur volendolo non potrebbe essere "uguale" a nessun altro. Anche le piante devono stare al proprio ruolo, così come tutte le altre forme di vita, visibili e invisibili. E' il Destino. Ma se lo si accetta si comprende il senso che è in ognuno e non si perde tempo prezioso per cercarlo ove non è. Soprattutto nelle inutili sovrastrutture. Grazie ancora per lo sprone. Ricambierò appena possibile.
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ElettrikaPsike
ElettrikaPsike il 14/01/23 alle 07:05 via WEB
Come ricorda giustamente mistero nel suo intervento, un destino quantistico riunisce ogni Uno nel nulla e nel tutto ma nel frattempo sarebbe auspicabile poter occupare il nostro illusorio tempo (nel tempo senza tempo) restando  - da un lato - consapevoli che solo nel piccolo possiamo confidare di aver messo un piede "oltre" e - dall'altro - altrettanto consapevoli che come è in alto è anche in basso e come all'esterno, così è all'interno.
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