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filo aperto con tutti coloro che s'interrogano sull'organizzazione politica della società e che sognano una democrazia sul modello della Grecia classica

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IL PRESIDENZIALISMO DEMOCRATICO

Post n°1071 pubblicato il 13 Marzo 2023 da rteo1

IL PRESIDENZIALISMO DEMOCRATICO

In Italia da anni si parla di "presidenzialismo", così come di altre riforme costituzionali, come ad esempio quella della separazione delle carriere (o dell'Ordine) tra la magistratura inquirente e la giudicante. Questa legislatura sembra essere "politicamente buona" per introdurre nella Costituzione italiana il (semi)presidenzialismo (alla francese) perché il governo e la maggioranza parlamentare che lo sostiene l'hanno posto come punto fondamentale del programma elettorale e hanno confermato nelle sedute ufficiali che intendono approvarlo. Anche senza il contributo delle forze politiche di opposizione, se dovesse rendersi inevitabile. Comunque vada, è tuttavia opportuno (o necessario) che l'eventuale approvazione della legge di riforma sia sottoposta al vaglio referendario, sperando che non si concretizzi la disposizione del co.3 dell'art.138 della Costituzione: "Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti". Va detto, per "onestà intellettuale", che nessuna Costituzione dura in eterno, così come neppure la democrazia ateniese durò oltre i due secoli, con fasi alterne, tra cui anche un periodo dittatoriale. E di questo era ben cosapevole Solone il quale, incaricato dagli ateniesi di dare loro una Costituzione e delle leggi per superare le frequenti guerre civili, le approvò e ne fissò la durata in cento anni, e per evitare condizionamenti e "pressioni" sociali si allontanò dalla polis per una decina di anni. Anche a Polibio era ben nota la "ciclicità" delle Costituzioni, il quale l'associava al ciclo della natura, così come Gaetano Filangieri era convinto anche della ciclicità della legislazione. Niente di nuovo, perciò, se oggi si stia parlando di riformare in senso "presidenziale" la Repubblica italiana. D'altronde ciò è previsto anche dalla vigente Costituzione, che all'art.138, innanzi richiamato, lo consente (con la doppia approvazione), e ne è prova il fatto che, fino ad oggi, sono state già approvate molte modifiche della Carta (tra le più incisive vi è certamente la riforma del Titolo V sulle autonomie delle Regioni, su c.d. "giusto processo" e la recente riduzione del numero dei parlamentari). Indubbiamente il clima socio-politico-economico italiano, con circa dieci milioni di poveri (relativi e assoluti) e molte aziende che hanno già chiuso o stanno per chiudere i battenti, e il contesto geopolitico europeo e mondiale in cui molti Stati hanno piegato la "ragione" alla supremazia della volontà di potenza mediante l'impiego delle armi per risolvere conflitti etnico-territoriali e prendere parte attiva ad una farneticante guerra alle porte dell'Europa, consiglierebbero di risolvere prima di tutto i problemi quotidiani e di sopravvivenza di molti cittadini messi in ginocchio dalla crisi globale economica ed energetica. E, inoltre, di prendere sul serio gli estremi cambiamenti climatici sulla terra e la scarsità dell'acqua potabile in molte aree del pianeta colpite da lunghi periodi di siccità. Tuttavia, si deve anche riconoscere al mondo della c.d. "politica" pure la necessità dei suoi riti, sia in termini di programmi elettorali che di attuazione degli stessi. Ovviamente, prima di operare, però, un cambamento dell'attuale assetto costituzionale dello Stato occorrerà riflettere a lungo sul se sia proprio necessario, sul perché farlo e come intervenire circa la ripartizione dei poteri, avendo sempre ben chiaro che ogni scelta politico-istituzionale deve migliorare le condizioni di vita di tutti i cittadini e mai peggiorarle (come sarebbe, ad es., gettare le basi per futuri regimi dittatoriali). Bisogna, perciò, mettere da parte le "bandierine ideologiche" e "ragionare", prima di compiere passi così importanti per l'equilibrio istituzionale della Repubblica italiana. L'operazione "chirurgica" da eseguire in senso politico, costituzionale e giuridico inciderebbe, come ormai a tutti noto, sulla ripartizione, nell'ambito della Repubblica, dei fondamentali poteri dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario. In tale contesto, nell'attuale forma della Repubblica democratica, il ruolo del Presidente della Repubblica entra in relazione con tutti i poteri. È pertanto inevitabile che inclinando l'asse di tale eminente funzione verso una delle predette tre funzioni (come, ad es., quella governativa, di cui si tratta) si altererebbe l'equilibrio generale dell'intero regime repubblicano-democratico. Pertanto, una tale riforma implica un necessario riassetto generale di tutti i poteri statali per "dosare" in modo equilibrato il rapporto tra i poteri secondo il noto principio della separazione previsto da Montesquieu nel famoso libro "Lo spirito delle leggi" (Esprit des lois) in cui lo si esaltava e giustamente come strumento idoneo ad impedire il sorgere delle tirannie, dei dispotismi, delle dittature. Già Aristotele, però, nella sua opera "Politica", coglieva l'importanza della divisione dei poteri nell'ambito della "polis", dopo aver esaminato e descritto ben oltre un centinaio di Costituzioni vigenti durante il suo tempo e di quello a lui immediatamente precedente. E dalla tradizione anglosassone si recepiva anche il principio del "bilanciamento dei poteri" (check and balance) e del controllo reciproco tra i diversi poteri statali come migliore tutela di qualunque comunità politicamente organizzata. E tuttavia, malgrado tutte queste cautele, non si è mai riusciti ad impedire del tutto l'avvento del "capo", diversamente denominato nel corso della storia (Duce, Zar, Caesar, Führer, Califfo, Faraone, Scià, Rex, ecc.). E la stessa storia ha anche registrato nei secoli passati l'avvento del "principato" allorquando, nella Repubblica dell'impero romano, si passò dalla "Repubblica aristocratica" (senatoriale) a quella del "princeps" (l'imperatore romano). Occorre, perciò, stare sempre in guardia nell'elaborare le diverse formule politiche per evitare che si legittimi un "princeps", ossia un "capo", un uomo solo al comando, divinizzato, idolatrato, venerato e acclamato, perché una tale soluzione è sempre, in generale, foriera di tragedie per il popolo sottoposto a tale potere monarchico e al genere umano. L'impresa ovviamente non è facile perché la stragrande maggioranza degli uomini ha la vocazione al ruolo di  "gregari", ovvero a voler essere "servili", come ben sosteneva De la Boetie nell'opera "Discorso sulla servitù volontaria", tuttavia è doveroso per gli "uomini di libertà" ma anche di quelli "dell'amore", come li distingueva L. De Crescenzo, tentare di impedire che ciò possa accadere e adottare tutti i rimedi possibili affinché nessun "umano", almeno in Europa, diventi più un "princeps", inteso come "padre-padrone" di un popolo. Perciò bisogna essere sempre convinti che il "presidenzialismo" (o altra riforma) deve essere sempre "un mezzo" rispetto ai benefici che tutto il Popolo (nessun cittadino escluso) deve trarne, sia in termini di benessere che di libertà, individuali e collettive, oltre al miglior funzionamento dei poteri dello Stato, anche in senso di trasparenza generale dell'attività pubblica. Inoltre, va sempre tenuto presente che in natura "l'istituzione in sé" non esiste (è una "creazione" artificiale del diritto) e che essa per "agire" deve essere incarnata necessariamente da una persona fisica, ossia da un umano che, come tale, per "volontà suprema universale", è inevitabilmente imperfetto, nel senso che, per quanto sia "geniale" in un campo, ha sempre dei difetti psico-fisici e biologici che non possono essere assolutamente eliminati. Perciò la soluzione non potrà mai essere un rimedio politico, né che sia l'elezione diretta nè indiretta, anche se la scelta della prima esprime una maggiore democrazia del regime di governo. Pertanto, poiché ciascuno "conosce sé stesso" (o dovrebbe) e anche i propri simili ci si dovrà seriamente interrogare su quali e quanti poteri sia opportuno e necessario attribuire ad un umano, prima di dare il proprio consenso politico alla riforma in senso "presidenziale" della Repubblica, che sia alla francese o all'americana, oppure ispirata da altre latitudini. Ed è, altresì, anche utile riflettere sull'errore, diffuso non solo tra le diverse forze politiche ma anche tra i migliori politologi e accademici, che l'elezione diretta del PdR implichi necessariamente anche l'attribuzione allo stesso degli effettivi poteri di governo. Invero ciò, come di seguito meglio si preciserà, non è assolutamente indispensabile dal punto di vista democratico, perché una cosa è la partecipazione diretta del popolo (i cittadini elettori) nella scelta del candidato alla carica costituzionale o istituzionale altra, invece, la "quota" di potere da attribuire al Presidente (Pdr) nel quadro generale dei poteri costituzionali. In altri termini, ben si potrebbe, eventualmente, prevedere l'elezione diretta del PdR ma senza intaccare minimamente le attuali funzioni allo stesso già riconosciute dalla vigente Costituzione. E questa scelta non sarebbe assolutamente riduttiva del ruolo del Pdr bensì sarebbe da ritenere maggiormente "democratica", perché consentirebbe direttamente al Popolo anziché al Parlamento di eleggere il Pdr, il quale conserverebbe gli stessi poteri oggi riconosciutigli, che non sembrano essere né pochi né marginali. E per avere maggiori elementi sui cui poter riflettere risulta opportuno richiamare alcuni articoli circa gli attuali poteri: Art.87: "Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale. Può inviare messaggi alle Camere. Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione. Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di inziativa del Governo. Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione. Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato. Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione delle Camere. Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere. Presiede il Consiglio superiore della magistratura. Può concedere grazia e commutare pene. Conferisce le onorificenze della Repubblica"; inoltre: Art. 85: Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni (senza alcun limite formale ai mandati); Art.88: "Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse"; Art.92: "Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri"; Art.126: Con decreto motivato del Presidente della Repubblica sono disposti lo scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della giunta..."; Art. 59: È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può nominare (cinque) senatori a vita..."; Art.135: "La Corte costituzionale è composta di quindici giudici nominati per un terzo  dal Presidente della Repubblica...". Come ben si evince dalle norme innanzi richiamate il PdR s'inserisce nelle procedure della "funzione legislativa" (promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge, autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo, e può sciogliere le Camere), della funzione esecutiva (nomina il Presidente del Consiglio dei ministri, i funzionari dello Stato, ha il comando delle Forze armate), della funzione giudiziaria (Presiede il Consiglio superiore della magistratura) e della funzione di garanzia della Costituzione (nomina un terzo dei giudici della Corte costituzionale). Non sembrano pochi i poteri, in verità. Ma allora che cosa si vorrebbe cambiare con la riforma ? Dagli Atti Parlamentari della passata XVIII legislatura (vds. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. PdL n.42) si rilevano, in sintesi, le seguenti novità che s'intendeva introdurre nella Costituzione: "Il Presidente della Repubblica è eletto a suffragio universale e diretto. Riduzione a quaranta anni l'attuale limite dei cinquanta anni per essere eletto a Pdr; Il Presidente della Repubblica è eletto per cinque anni. Può essere rieletto una sola volta. Il Presidente della Repubblica nomina il Primo ministro e, su proposta di questo, nomina e revoca i ministri. Il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio dei ministri". In ordine all'elezione "diretta", come già sopra detto, non c'è alcuna obiezione da fare, ovviamente; anzi, essa amplia certamente la "democrazia" "concessa" dalla Costituzione repubblicana (magari ce ne fosse di più, per es. per la scelta di altre alte cariche apicali costituzionali, e anche in ordine all'iniziativa legislativa dei cittadini e a quella referendaria). In tale modo si riducono i "limiti" di cui all'art.1 che sanisce: "...La sovranità appartiene al Popolo ... nei limiti della Costituzione". È proprio questo "principio fondamentale" che "regola" l'esercizio della Sovranità popolare nella Repubblica, ben intesa quest'ultima, e descritta già da Aristotele, nella sua opera "Politeia", e da Cicerone, nella "Res publica", come il "complesso delle cariche pubbliche dello Stato" le quali, nella democrazia, poiché è il Popolo ad avere il "governo dello Stato" è lo stesso popolo ad assunmere le cariche, per cui l'elezione "diretta" anziché l'indiretta costituisce la migliore espressione della democrazia. Riconoscere, perciò, al Popolo il "suffragio universale e diretto" per l'elezione del Presidente della Repubblica consolida e rafforza la partecipazione democratica nella vita della Repubblica. Anche la durata del mandato a cinque anni, con la possibilità di una sola rielezione, sembra garantire maggiormente la democrazia, e si pone in linea con altri Stati europei dove la durata complessiva non supera i dieci anni e i due mandati. Più problematica, invece, appare la "nomina del Primo ministro" (non più semplice Presidente del Consiglio) e il potere di "presiedere il Consiglio dei ministri", soprattutto perché non vengono riviste tutte le altre competenze previste dalla vigente Costituzione, come, ad es., quelle relative alla "funzione legislativa", alla funzione "giudiziaria" e anche quella di "garanzia" (la nomina dei cinque Giudici della Corte costituzionale). È questo il vero vulnus della suddetta proposta di riforma in senso "presidenziale" dell'attuale Repubblica democratica. Gli italiani finora hanno avuto la possibilità di conservare il "gioco democratico" tra i diversi poteri e organi dello Stato a garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini grazie ad una "classe politica"  e ai partiti che avevano provato l'amara esperienza della seconda guerra mondiale e la dittatura. Da allora il "clima politico" è notevolmente cambiato, e anche il relativo livello di etica e moralità pubblica. Perciò non si può più escludere in assoluto il rischio di poter dare ingresso, nel futuro, a regimi di tipo totalitario; e neppure potrebbe impedirlo l'U.E., dove la democrazia è ancora lontana e il potere è burocratizzato e spostato verso il Consiglio europeo e la Commissione, che è un organo tecnico che si cura dei mercati e della finanza, mentre i costi istituzionali continuano a lievitare (l'U.E. spende circa 170 mld annui di euro e l'Italia contribuisce con circa 17 mld di euro all'anno). E neanche l'alleanza "occidentale" o "euroatlantica", che valorizza soprattutto lo strumento militare contro il "resto del mondo", può facilitare decisioni governative che limitino le libertà e i diritti fondamentali dei cittadini conquistati con il prezzo del sangue delle giovani generazioni passate. Per quanto innanzi detto, quindi, l'unica "riforma" che consenta il "presidenzialismo democratico" è soltanto l'elezione diretta del Presidente della Repubblica che conservi tutti e solo gli attuali poteri previsti dalla vigente Costituzione, senza alcuna ulteriore modifica della vigente Carta costituzionale, se non le sole norme che ora attribuiscono al Parlamento in seduta comune tale elezione. Ferma restando, comunque, la chiamata referendaria del Popolo per confermarne l'approvazione. Con la consapevolezza, ovviamente, dell'inevitabile "ritorno all'origine secondo l'ordine del tempo", come previsto da Anassimandro, e dell'azione imprevedibile dello "spirito oggettivo" sul mondo, come sostenuto da Hegel. Senza tuttavia escludere che, in attesa di tempi migliori, possa risultare democraticamente utile abbandonare (o accantonare) l'iniziativa politica, anche per "comprendere" più in profondità i delicati meccanismi del bilanciamento dei poteri, la loro necessaria separazione, e, in particolar modo, le dinamiche psicologiche e biologiche degli esseri umani, sia dei capi che dei gregari, sia dei liberi che degli schiavi.

 
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MEZZI E FINI DELL'UOMO

Post n°1070 pubblicato il 08 Gennaio 2023 da rteo1

MEZZI E FINI DELL'UOMO

Gli uomini fin dal "fuoco" di Prometeo "inventano", realizzano e costruiscono ogni cosa per migliorare le condizioni di vita individuali e collettive. Essi ne hanno bisogno, soprattutto per la propria esistenza e difesa perché sono carenti di istinti naturali, posseduti, invece, fin dalla nascita, da tutte le altre specie animali. "L'intelligenza", l'ideazione, l'immaginazione, l'esperienza, costituiscono le fonti principali da cui attingono per concretizzare i propri strumenti atti a potenziare i propri sensi, talenti e abilità. Tutto, comunque, è "creato" sempre con lo scopo, almeno iniziale e dichiarato, di farne uno strumento, un mezzo, anche se poi spesso accade che tale "mezzo" diventi un "fine". In particolare, quando il mezzo, a causa della follia umana, venga "rivestito", ammantato, di finalità sovrumane, ultraterrene, tali da renderlo oggetto "sacro", da venerare. E ciò accade anche rispetto a delle "idee astratte" che, soggettivamente e relativamente trasformate in "simboli" reali e concreti, assurgono a emblemi, modelli, "principi" e "valori universali", assoluti, che devono essere doverosamente e obbligatoriamente "ossequiati" per ciò che è stato d'autorità o convenzionalmente stabilito che essi "rappresentino" e non invece guardati, analizzati, radiografati, per ciò che in realtà essi sono in senso materiale, ossia dei puri oggetti fisici. Certamente questi processi sociali di "sacralizzazione" di oggetti materiali (frutto di aggregazioni di atomi in vibrazione) hanno in sé stessi delle patologie, anche se sul piano psicologico hanno un effetto di collante delle società, delle identità "nazionali", che sono un bene ma anche un male perché generano conflitti e possono sfociare anche in guerre. Gli uomini, comunque, amano mascherare e travisare la realtà, anche mentendo a sé stessi. Si illudono, così, anche di garantire in perpetuo l'ordine quando, invece, tale "ordine" alimenta il "disordine", che scaturisce dall'inevitabile entropia del sistema proprio a causa dell'energia necessaria per mantenere l'ordine. La realtà, invece, è che "Il re è nudo", come disse il bambino della fiaba di Andersen "I vestiti nuovi dell'imperatore". E per questo forse aveva ragione Nietzsche nel ritenere che né il cammello né il leone fossero il "superuomo" bensì il bambino perché privo dei condizionamenti del "SuperIo", senza alcuna responsabilità, guidato solo dall'inconscio, dalla voglia di divertirsi e dai sensi della natura. In ogni caso, il rapporto "mezzo-fine" deve sempre costituire un vincolo indissolubile, la strada maestra da seguire, da parte di qualsiasi società che abbia raggiunto un elevato livello di civiltà e di rispetto dei diritti, della dignità e delle libertà fondamentali degli uomini e dei cittadini. Scambiare, infatti, l'ordine dei fattori, ossia far diventare "fine" il "mezzo", può trasformare gli uomini in schiavi, non solo dal punto di vista culturale, intellettuale, ma persino fisicamente; come ad es. mediante incarcerazione, per aver espresso una libera "critica" del "modello", del "simbolo", magari con lo scopo di stimolare la riflessione e la crescita culturale della collettività la quale deve essere sempre consapevole che tutto ciò che l'uomo "crea" è soltanto "mezzo", anche quando sia convenzionalmente posto come "fine". L'unico "fine", infatti, è "il fine in sé", il fine universale, che appartiene soltanto all'assoluto, rispetto al quale tutte le cose, uomini inclusi, sono solo un "mezzo", parte del "fine ultimo". Perciò tutti i "fini temporali" degli uomini sono soltanto delle fantasie, frutto dell'antropocentrismo, che bisogna sempre ridimensionare e portare al loro giusto ruolo di mezzi, per impedire il dominio degli uomini sugli uomini. Pertanto bisogna avere sempre ben chiaro che, a prescindere da chi governi temporaneamente la società, l'uomo deve essere sempre al di sopra di qualunque creazione, "istituzione", invenzione, o ideazione umana. Anche quando trattasi di principi e valori come la vita, l'esistenza, la libertà, la dignità, la democrazia, la solidarietà, perché anch'essi devono essere dei mezzi al servizio dell'uomo e del cittadino. Anche, e soprattutto, il denaro e la tecnica, che sono diventati, ormai, dei "totem" adorati dagli umani. Per questo bisogna sempre essere vigili affinché il "potere", principalmente politico, ma anche di qualsiasi altra natura, relativo a qualsiasi livello sociale e ordinamentale, locale, nazionale e internazionale, sia sempre e solo strumento al servizio dei cittadini e mai il "fine", tenendo anche ben presente che il "potere" s'incarna necessariamente nell'uomo e che questi rischia sempre di esserne deformato e assimilato tanto da identificarsi, confondersi, con lo stesso potere. E che il "fine politico" deve essere sempre il "benessere di tutti i cittadini" (neanche uno escluso, o emarginato) e la ripartizione di tutte le risorse prodotte dalla collettività deve essere sempre equa e solidale, intendendosi per "equa" soltanto la distribuzione "paritaria" o, a limite, contenuta tra un minimo e un massimo secondo un rapporto di uno a quattro (come sosteneva Platone), dal momento che nelle società contemporanee vige la "specializzazione" del lavoro (per cui nessuno basta a sé stesso). Così come avviene più in generale in natura, a partire dalle cellule di ogni organismo vivente che si aggregano e si specializzano, per poi andare verso la conclusione del proprio ciclo vitale. Un rimedio contro le "devianze" umane a causa delle malìe del potere potrà essere l'avvicendamento costante nei ruoli e funzioni e la prescrizione di limiti inviolabili di età (max 70 anni) per uscire di scena, per indurre gli umani "ammalati" di potere ad occuparsi di sé stessi in funzione del "dopo". E potrà essere utile anche sancire che il nome e cognome della persona fisica precedano il titolo della funzione (così si evita anche il "problema" dell'articolo e della vocale maschile o  femminile rispetto alla "neutralità" dell'istituzione e si rende chiaro che quest'ultima è un mezzo e non un fine). È il mondo della politica e delle sue articolazioni, infatti, l'ambito nel quale accade spesso che siano "venerati" e "osannati" anche degli umani, senza razionalmente considerare che trattandosi di umani sono per ciò stesso anch'essi parte della medesima specie animale, con tutti i vizi (tanti), difetti (molti), con limiti fisici, psichici e mentali, e qualche virtù, relativa al regime socio-politico di riferimento. Come innanzi accennato le spiegazioni relative ai comportamenti umani sono certamente molteplici, e spaziano dal campo della mitologia all'antropologia, dalla psicologia alla sociologia, dalla teologia alla genetica, dalla fisica alla chimica. La "sacralizzazione" e la "divinizzazione", sia degli umani che di tutte le loro "creazioni" materiali e concettuali, sono certamente una grave malattia da cui bisogna necessariamente guarire e fintanto che questo non accadrà l'uomo sarà sempre culturalmente un primitivo, un cavernicolo, "un ponte tra la scimmia e il superuomo", come sosteneva Nietzsche, anche se ha vinto la sfida contro la legge della gravità mettendo in orbita satelliti e stazioni spaziali e sta realizzando il teletrasporto con la fisica dei quanti. Eppure siamo giunti, ormai, nel terzo millennio d.C., per cui bisognerebbe iniziare a scrivere una nuova storia, diversa da quella finora scritta, che è stata soprattutto l'elencazione cronologica delle numerose battaglie epiche e della mitizzazione dei vari condottieri, spesso definiti "magni" per pura propaganda e limitazione mentale. E sarebbe sufficiente a far invertire e modificare la rotta della storia la riflessione sui dati dell'ultima guerra mondiale che ha lasciato "sul campo" europeo e dell'est asiatico oltre sessanta milioni di vittime; e pensare altresì alle conseguenze devastanti delle bombe nucleari sganciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki che cancellarono le due città (oggi gli ordigni nucleari hanno una potenza distruttiva di migliaia di volte superiore e ci sono Stati che ne possiedono alcune migliaia). Eppure si continua a parlare con disinvoltura di "guerra nucleare", come se fosse una vacanza in crociera anziché una follia umana in grado di distruggere la terra. È fuori di dubbio, perciò, che l'uomo sia ancora un "minorato culturale", e non fa alcuna differenza che sia un comune cittadino o sia alla guida di potenze statali nazionali e mondiali (Non è l'abito che fa il monaco). Perciò è senz'altro terapeutico "metterlo a nudo", secondo Madre natura, anziché "sacralizzarlo", "venerarlo", idolatrarlo, perché tali "divinizzazioni" fanno sì che la sua follia diventi incontenibile, così come accadeva con i "Cesari pazzi" durante l'impero romano. E la cura deve necessariamente partire dalla diagnosi della patologia che ha come oggetto dell'analisi e della riflessione il processo aggregativo e disaggregativo, in generale e degli umani in particolare. Bisogna riconoscere che in natura tutto si aggrega, si "organizza", a partire dalle particelle subquantiche, per dare infinite forme a tutta la materia del mondo macroscopico, dal quale, poi, mediante il divenire dello spazio-tempo si verifica il processo inverso delle singole forme, le quali si disaggregano per ritornare ad essere pura energia. Perciò "nulla si crea, né si distrugge, ma tutto si trasforma". Molti "umani" lo hanno compreso; ne sono coscienti, consapevoli, e sono anche autocoscienti. Così come conoscono, ormai, il loro rapporto con le esigenze prioritarie della specie, di fronte alle quali l'Io soccombe sempre; così come crollano tutti i sogni, i progetti, le ambizioni a causa della "decretazione" della "fine del ciclo biologico" da parte della specie la quale, per la sua stessa esistenza, ha la necessità di rinnovarsi e perpetuarsi sempre e solo con "nuova vita"; mediante il costante avvicendamento delle generazioni che si passano il testimone come nella gara della "staffetta" (oggi i nati negli anni '40, subentrati a quelli degli anni '30, stanno "sgombrando il campo" per far "avanzare" in prima linea i nati negli anni '50, mentre si preparano "ai bordi" quelli nati negli anni '60 ancora per poco in "panchina"). Così come aveva intuito Schopenhauer: l'esigenza della vita è una sola: la vita; e aggiungeva: senza alcuno scopo! E di questo ne era convinto anche Leopardi. Trattavasi, però, di reazioni e delusioni dovute alla constatazione dell'inesistenza di alcun primato dell'uomo. Così come quando Blaise Pascal si doleva di fronte al cielo stellato perché l'universo ignorava la sua esistenza e Giobbe si lamentava verso Dio perché non lo premiava per la sua fede. Invece dovrebbe essere, ormai, proprio tale consapevolezza dell'insignificanza universale degli umani ad orientare tutte le loro scelte. A cominciare proprio fin dai fondamentali organizzativi delle società, sia formali che materiali. Nietzsche, a proposito della questione sull'esistenza della "dignità dell'uomo" e della "dignità del lavoro", sosteneva che "l'uomo in sé, in assoluto, non ha dignità, né diritti né doveri". Egli certamente aveva ragione, rispetto "all'uomo in sé", a cui bisognerebbe sempre ispirarsi nel corso della vita, ma con tale idea non sarebbe stato possibile tutelare l'uomo sociale, soprattutto se appartenente alle fasce emarginate, esempre preda degli altri uomini, come la realtà di tutti i giorni insegna. Ecco perché la teoria non può non tener conto dell'attuazione pratica in ambito sociale dove l'uomo è l'homo di Hobbes che vien "mangiato" dai sui simili pur protetto dalla "dignità". Figurarsi, cosa accadrebbe se non avesse neppure l'etichetta formale della "dignità". Ad ogni buon conto, però, secondo "natura" l'uomo non può che essere "uomo", e da questa consapevolezza ne deve necessariamente conseguire, senza alcun dramma né panico per il "senso del vuoto", l'accettazione che tutta la "produzione umana" è soltanto frutto delle convenzioni, per cui queste (relative a qualsiasi ambito ordinamentale) devono avere sempre il limite degli strumenti e mai diventare dei fini. Così come la miriade di enti giuridici, e anche gli organismi difensivi delle "alleanze" politiche e le organizzazioni internazionali. Dev'essere, perciò, sempre ben chiaro a tutti che nulla di ciò che viene concretizzato e istituzionalizzato è vero in assoluto. Così come neppure il pensiero e il giudizio umano che separano il "giusto e l'ingiusto"; e che anche il paradigma legale elaborato dagli organi preposti è soltanto un mezzo di disciplina della condotta dei cittadini che non può mai essere un fine, così come neanche tutte le regole derivanti dalle tradizioni, dall'etica e dalla morale. Va anche compreso che i "ricchi" e i "poveri" pur essendo presenti in ogni sistema sociale a causa della dinamica del conflitto (secondo Eraclito) tuttavia il divario, la diseguaglianza, è solo il frutto delle regole "politico-economiche" e giuridiche, perciò sempre modificabili. E va anche detto che gli uomini hanno la possibilità, mediante il costante controllo dei propri impulsi ancestrali, di valorizzare ed esprimere il loro potenziale di "esseri-umani", ovvero di trascendersi pensando all'Assoluto, di  collegarsi col "Tutto" e comprenderne la "molteplicità" e la "diversità". E tutto ciò è possibile realizzarlo durante il divenire. Eraclito sosteneva che nell'universo tutto è regolato dal conflitto. Ogni singolo organismo ne è pervaso perché ciò è "necessario" alla dinamica di trasformazione. Sono infatti le opposte polarità che impediscono la "stasi" e generano la dinamica nel senso irreversibile della "freccia del tempo". È perciò "cooperazione" nella "competizione" e "competizione" nella "cooperazione" e non "guerra". Freud ha individuato nel subconscio umano sia gli impulsi sessuali (Eros) che distruttivi (Thanatos), ma entrambi sono coessenziali, funzionali, in "cooperazione" e non in antitesi per annullarsi ma per alimentare la trasformazione. È, perciò, da questa consapevolezza che bisogna partire per trovare la migliore medicina possibile per guarire dal male. Occorre accettare il principio che ogni uomo è come "mezzo" fenomenicamente "unico" e che in assoluto nessun uomo è "migliore" né "peggiore" di nessun altro uomo; così come non lo è rispetto a tutte le altre e diverse forme e specie viventi che si manifestano nell'ecosistema e nell'universo. Per questo lo stesso Eraclito invitava a cercare di capire "le ragioni del governo del tutto, mediante il tutto". Nel "Tutto" non c'è, infatti, alcun primato di nessuna singola parte, mentre "il Tutto è più della somma delle singole parti". Perciò l'esigenza del primato umano è in assoluto del tutto fallace. Analogamente, come detto, anche tutte le convenzioni, le regole, che differenziano, distinguono, gli uomini dagli altri uomini sulla base dei ruoli o funzioni; oppure rispetto al c.d. "merito", il quale deve essere anch'esso inteso soltanto come mezzo in funzione del suddetto benessere generale di tutti i membri della collettività tenendo ben chiaro che chi ha "merito" in un campo non ha altrettanto merito in altri campi, e la società, da sempre, e soprattutto quella contemporanea, si fonda ormai sulle specializzazioni dei ruoli. E non ha alcuna giustificazione naturale e universale neppure il "primato" vantato dagli uomini sulle altre forme viventi, perché queste ultime hanno eguale importanza nel "Tutto" (anzi, semmai si potrebbe riconoscere a buon ragione il "primato" delle piante, perché sono le uniche autosufficienti capaci, mediante la fotosintesi, di trasformare l'energia solare in alimento). Bisogna, perciò, considerare tutto ciò che è produzione umana, sia materiale che concettuale, soltanto come "mezzo" e mai come "fine", soprattutto per quanto concerne il "potere di governo". Tutto, infatti, nel reale, e nella società in particolare, è soltanto mezzo perché l'unico fine è soltanto il "fine in sé" dell'Universo e dell'Assoluto, dove si ignora l'uomo, e la vita stessa, che ha avuto inizio senza l'uomo e continuerà comunque dopo di lui. 

 
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IL SENSO IN SČ E LA COMPETIZIONE

Post n°1069 pubblicato il 25 Dicembre 2022 da rteo1

IL SENSO IN SÈ E LA COMPETIZIONE

L'uomo ha bisogno di un "senso" al suo "esserci" nel mondo. Egli non riesce a vivere senza "darsi un senso" e a "dare un senso" all'esistenza, soprattutto in funzione del "dopo". Anzi, è proprio quest'ultimo, "il dopo", che lo tormenta di più, tanto che i più fragili psicologicamente - ossia la stragrande maggioranza degli umani - preferiscono non pensarci e fare ricorso ad inutili e superstiziosi "scongiuri" come se questi siano utili per cancellare l'evento finale. L'idea di dare un senso alle cose, alle azioni, agli accadimenti, che si manifestano nella realtà fenomenica strugge il pensiero. È questo -il pensiero- che tormenta la vita. Non di tutti, ovviamente, ma di certo di tutti coloro che sono convinti che esso sia il mezzo di interlocuzione con l'universale, col Tutto, l'infinito, l'indeterminato, l'Essere. La Costituzione italiana lo "celebra" all'art.21, comma 1, ove è sancito che "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", salvo, poi, limitarlo, al comma 6 : "Sono vietate le pubblicazioni a mezzo stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni", oltre a sanzionarlo penalmente con i "reati di opinione" (vilipendio) e di "satira" (ingiuria e diffamazione).  Ma questo "dualismo" costituzionale e giuridico non è altro che la prova indiretta che ad essere duale è proprio "il pensiero". Ma si ha "paura" di ammetterlo perché così crollerebbe una certezza fondamentale su cui è stato strutturato l'intero "castello di sabbia" degli esseri umani. Hegel nel suo saggio "La fenomenologia dello spirito", sosteneva che "la realtà è autocontraddittoria, tende a superare sé stessa e a divenire altro da quello che è". Diceva anche che l'idea deve manifestarsi e che lo fa diventando realtà naturale la quale ha in sé la "ragione". Il problema, a mio avviso, è quello di capire se già l'idea sia in sé "autocontraddittoria" oppure se lo diventi dopo, nel momento in cui la "realtà" si manifesti. La risposta (peraltro, allo stato, senza alcun fondamento scientifico) non è priva di conseguenze: Postulare, infatti, che già il pensiero sia contraddittorio in sé vuol dire ammettere che, da una parte, verso "l'alto", tutto l'universo è autocontraddittorio, e, dall'altra, verso il "basso", che tutte le decisioni umane (individuali o collettive, sociali, politiche, istituzionali, economiche, ecc.) sono autocontraddittorie. Relativamente al "basso", ossia ai rapporti tra gli esseri umani, tra le molteplici e diverse "contrapposizioni" assurge quella del dare "senso" alle cose (e, prima di tutto, alla vita) perché automaticamente ne deriva un dualismo con il "non senso". Questa distinzione avviene per opera della c.d. "ragione" umana, che è frutto di convenzioni sociali "assolutizzate" che la elevano anche a parametro supremo di tutti i comportamenti e delle elaborazioni politiche. Mediante tale "distinzione" alcune azioni sono consentite (perché avrebbero senso) e altre escluse (perché non avrebbero senso). Questo non vuol dire, ovviamente (anzi potrebbe essere vero il contrario), che tale contrapposizione sia valida anche nel "mondo" dell'illimitato, dell'indifferenziato (com'è, ad es., anche il "mondo quantico"), dove in potenza tutto è possibile e nulla impossibile, ove, perciò, potrebbe essere che  senso e non senso siano un tutt'uno, coessenziali a sé stessi e a tutti gli enti universali. Purtroppo, però, non se ne può avere certezza che sia così perché il "libero pensiero" è socialmente condizionato, segregato e plasmato dalle "regole" del "super-Io" (interiore ed esterno) che governa la mente e parte della psiche umana. E così gli esseri umani continuano a rimettersi alla "ragione" che scinde, divide, ciò che si reputa avere senso rispetto a ciò che non ne ha, anche se (forse) nell'indifferenziato (com'è peraltro anche il subconscio umano) non esista alcuna "contrapposizione"; che "senso e non senso" siano equivalenti (senso-non senso e viceversa), ovverosia esista un "senso in sé" di tutti gli enti dell'universale (uomini inclusi, ovviamente). E allora, se le cose stessero così (e non si può escludere. Anzi, ben si potrebbe affermare.), sorgerebbe inevitabile la seguente domanda: esiste un senso in sé, in generale, e della stessa vita ? Una canzone dal titolo "Un senso" di un noto artista italiano contiene il seguente brano: «Voglio trovare un senso a questa vita / Anche se questa vita un senso non ce l'ha ». Gli artisti, si sa, hanno una sensibilità particolare che consente loro di travalicare i limiti della "ragione" e di avvicinarsi al "senso ontologico" delle cose e del Tutto. Bisogna, perciò, tenerne sempre conto, ma non si può, ovviamente, abdicare mai la verifica, la ricerca della prova mediante il proprio pensiero. Ed è proprio questo che fa subito emergere l'aporia, la contraddizione in sé, del predetto brano musicale: se si ritenga, infatti, che la vita non abbia senso, allora non ha senso cercare (trovare) un senso. Invece è evidente l'errore di escludere, a priori, che "la vita abbia un senso in sé stessa" (così come la sua antagonista: la morte). Certamente questa soluzione ridimensiona l'uomo e il suo egocentrismo e relativo antropocentrismo ma consente di comprendere che non è vero che non esista alcun senso, in assoluto, ma che invece il senso esista, come "senso in sé", sia della vita che di tutte le cose, e che questa "conclusione" non impedisce agli uomini di darsi e dare un senso anche se essi stessi sono posseduti e dominati dal "senso in sé". Un modo, seppur indiretto, per "dimostrarlo", tra i tanti possibili, risulta essere quello relativo ad alcuni rituali fondamentali esistenti in natura. Il primo è certamente quello del "corteggiamento", finalizzato alla riproduzione. Tutte le specie viventi sono "schiave" di tale rituale, che prelude la selezione del partner. Solitamente è il "maschio" che si esibisce, come su di un palcoscenico, assumendo le "pose" più ardimentose, ma anche "ridicole", al tempo stesso. Si ostentano piumaggi, canti, stridi, muscoli, e si fa ricorso alla "competizione", alla "lotta", tra gli aspiranti per il primato dell'accoppiamento. La "femmina" solitamente attende che la "contesa" abbia termine, e a volte sceglie anche il partner che ritenga più idoneo allo scopo (questa libertà di scelta e anche d'iniziativa sono diventate, ormai, "patrimonio culturale" di buona parte del "mondo occidentale"). In natura, quindi, tutto avviene secondo la "competizione" in vista dell'accoppiamento per la "riproduzione". È questo, quindi, il "trofeo", il "premio" in palio, che consente la trasmissione del "patrimonio genetico" e la prosecuzione della specie. Anche gli esseri umani soggiacciono alle stesse leggi della natura. Ma essi, che hanno anche il "dono" della fantasia, frutto della follia che abita l'inconscio, ci aggiungono anche altro, che è il prodotto della società e della cosiddetta "civiltà": i riti. Sono questi, infatti, che più di tutto marcano la differenza tra gli umani e le altre specie viventi, e non perché queste ultime non abbiano i propri "riti", giacché anch'esse ne hanno (secondo natura), ma perché gli umani hanno anche l'esigenza di "dare senso" alle proprie azioni, per cui "inventano" rituali, spesso bizzarri ed estrosi, che a volte travalicano ogni (buon) senso, fino al punto che "il senso non ha più alcun senso". Per comprendere queste "pazzie" tipiche del mondo umano è sufficiente riflettere sulla complessità e varietà dei "corteggiamenti", ma anche sull'accoppiamento, che precede, prescinde, o segue il rituale del matrimonio, che spesso si conclude con i "festeggiamenti" a cui prendono parte "processioni" di invitati. Lo stesso dicasi per i "rituali" politici, istituzionali, sociali prescritti dalle "regole" giuridiche, etiche, morali, religiose, che a volte non hanno alcun collegamento col reale, col naturale, "costringendo" gli individui e le masse a credere o accettare per fede (o per appartenenza) che simboli e segni abbiano in sé ed esprimano principi e valori "assoluti", trascendenti, metafisici, senza rendersi conto che durante lo spazio-tempo del divenire, senza il libero pensiero, "un essere relativo e finito non può capire e scoprire l'assoluto né l'infinito". E ciò nonostante, gli umani continuano a voler imporre in generale le loro produzioni, sacralizzandole con i riti, come se fossero l'espressione della "verità". Alla base, comunque, dell'esistenza, sia umana che non, vi è, come detto, la "competizione" che, in generale, secondo natura, è finalizzata alla "riproduzione", e quest'ultima, a sua volta, alla stessa "competizione", intesa secondo il suo significato originario (da cum petere, andare insieme verso lo stesso obiettivo), diverso dal "Polemos" (il conflitto eracliteo), dall'autocontraddittorietà della realtà hegeliana e anche dalla "dialettica socratica" (seppur, quest'ultima, affine in ordine alla ricerca della "verità"). La "competizione", perciò, come innanzi intesa (andare verso il "comune obiettivo", cioè il "pensiero puro, dell'energia), e la riproduzione (in funzione della prima e viceversa), costituiscono i veri fondamentali di tutti gli esseri viventi e delle organizzazioni umane. Anche le "leggi", quindi, così come la competizione per l'assunzione di funzioni e ruoli pubblici, hanno come substrato, più o meno inconscio, dominato dall'economia della specie, il fine della "riproduzione". In ordine a quest'ultima giova sottolineare che essa nell'élite intellettuale e creativa tende spesso a "sublimarsi" e, così, l'élite trae "piacere"  dalla creazione di prodotti artistici, culturali, politici, economici, ovvero, nel campo istituzionale, mediante la identificazione col potere costituito, e, nel mondo religioso, con la missione verso il trascendente. La "riproduzione", perciò, quale esigenza primaria ed essenziale per la natura, interconnessa con la competizione, nel consorzio umano impone il suo "senso in sé", non curandosi  del "non senso umano" che mediante la divaricazione dell'intelletto, per esigenze socio-politiche, oltre che psicologiche dell'individuo, spinge a "dissociare" "l'essere" dal "dover essere", mediante l'apparire (che è anch'essa una forma della "competizione"). E cosi può accadere di assistere a "rituali" pubblici, privati e sociali del tutto analoghi a quelli tipici dell'infanzia, seppur celebrati con "solennità". Ma si tratta solo e sempre del "senso" convenzionalmente distinto dal "non senso" per appagare l'esigenza tutta umana di credere di avere il primato assoluto sia in natura che su tutte le altre specie viventi. Ma soprattutto di credere di "essere altro" rispetto a ciò che realmente si è e che si manifesta ai sensi. Tutto comunque, e si ribadisce, si muove sempre in base alla competizione. Nulla e nessuno la può impedire perché essa è alla base della natura (anche la pandemia virale costituisce un esempio di "competizione" tra specie diverse) ed ha senso "in sé stessa". Tale "competizione" in ambito sociale viene disciplinata mediante le "regole" e le istituzioni. Lo sport, come ad es. il calcio, ne costituisce l'esempio per eccellenza, dove il "trofeo" (la coppa) costituisce l'equivalente simbolico del risultato dell'accoppiamento e "riproduzione sessuale o intellettuale". Il "frutto" è il trofeo in palio, la coppa, come l'elezione alla carica pubblica è il premio della competizione elettorale (e il "posto fisso", il premio del concorso pubblico). Certamente senza né regole socio-politiche né istituzioni tutti gli umani sarebbero preda delle basilari "pulsioni naturali" (alimentari, per la sopravvivenza, e sessuali, per la prosecuzione della specie), che pur tuttavia, seppur in modo più o meno inconscio, continuano ad orientare i comportamenti degli umani, singoli e associati. E tanto è vero che analizzando i criteri di distribuzione delle risorse economiche prodotte dalle società "civili" ben si coglie come tali risorse siano distribuite sulla base (iniqua ma resa legale) della "competizione" tra le diverse funzioni e ruoli pubblici e privati, secondo gerarchie più o meno rigide tra classi e caste. Relativamente a queste va detto che la "democratizzazione della Repubblica", come è accaduto nel dopoguerra in Italia (ma anche in molti altri Stati europei), ha consentito di superare le dure ed estreme contrapposizioni sociali di stampo ottocentesco, ben analizzate e sviluppate nel Manifesto del 1848 e nel Capitale di K. Marx, che, secondo la logica dialettica dell'ineludibile conflitto tra le classi, avrebbero dovuto portare la "classe proletaria" (operai e contadini) alla conquista del potere politico diventato prerogativa della "borghesia", che lo aveva sottratto alla "classe feudataria". Per effetto della "democratizzazione", che ha "imborghesito" i proletari, come argutamente osservato dal filosofo Aldo Masullo nella relazione "crisi della fenomenologia e fenomenologia della crisi", la contrapposizione tra le classi si è diluita, soprattutto dopo i "moti del 1968". La "contrapposizione", così, nell'attuale "Repubblica democratica", ha ridimensionato il potenziale "rivoluzionario" della "classe proletaria" e ha assunto la forma e la natura della "competizione" tra molteplici "gruppi di interessi" (partiti, in primis, sindacati, corporazioni professionali, burocratiche, istituzionali, associazioni, ecc.). La sostanza, però, non è cambiata in modo radicale perché anche nella "Repubblica democratica" permane la "competizione" per la conquista del "premio" (l'accaparramento delle risorse economiche), finalizzata "all'accoppiamento" (scegliere o essere scelti dal partner) o alla sublimazione (assunzione ed esercizio del potere, et similia). Ovviamente la "competizione", però, può anche giungere a livelli estremi, come accade (e sta avvenendo) tra le potenze statali, che spingono la competizione nel campo bellico nel quale, a causa dell'esistenza delle pulsioni distruttive nell'inconscio umano, la soppressione della vita del "nemico" diventa il "trofeo" da conquistare. E gli "Stati", strumenti idonei ad esaltare le virtù dei cittadini, se mal gestiti diventano  amplificatori delle "pulsioni distruttive" che scaricano la "forza" e la "violenza" cieche e bieche dimostrando che la "ragione" è pura convenzione. L'esperienza, però, finora maturata, anche grazie al contributo della cultura, delle idee liberali, della scienza e della tecnologia, induce a ritenere che il (buon) senso umano possa avere senso, così come è avvenuto con la "democratizzazione della competizione" che seppur ostacolata dalle élites e ancora imperfetta, perché trascura e a volte vessa, tiranneggia, le minoranze politiche (e non solo), costituisce la migliore soluzione sociale e politica finora adottata. Per questo essa dovrebbe essere estesa, quanto più è possibile, in tutti gli ambiti (istituzionali, politici, economici), con l'adozione di "statuti di libertà per le minoranze", se si vogliano ridurre i contrasti sociali (e le guerre civili e tra Stati). Certamente la "competizione" prima o poi "supererà" le odierne civiltà più "evolute" e anche l'attuale democrazia, come già si coglie dai segnali che si registrano sia all'interno che all'esterno dell'Italia. E questa sarà la prova evidente dell'esistenza del ciclo vitale di tutto ciò che esiste in natura; ma anche che tale ciclo ha il "senso in sé" così come nella fondamentale e ineliminabile "competizione", a cui tutto è assoggettato. È la "competizione", quindi, secondo il suo "senso in sé", di concorso verso il comune obiettivo (il pensiero puro, l'energia), "il principio fondamentale" che coinvolge la vita stessa e la natura. Tuttavia, nel divenire, c'è anche spazio per il "senso" degli esseri umani, singoli o associati, utile per metter ordine e dare speranza alla vita individuale, sociale e politica degli esseri umani. L'importante, però, è che tale "senso", prodotto dalla "ragione", da cui si originano "le convenzioni", non diventi mai "verità assoluta" perché questa, è interconnessa alla "competizione", che ha in sé stessa il proprio senso, ben diverso dal "senso in sé" degli esseri umani e di ogni cosa ed enti dell'assoluto.

 
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UMANO, ESSERE-UMANO E LIBERO-PENSIERO

Post n°1068 pubblicato il 02 Ottobre 2022 da rteo1

UMANO, ESSERE-UMANO E LIBERO-PENSIERO

Parafrasando e liberamente interpretando il pensiero di Parmenide mi viene da scrivere che "l'essere umano è, e non può non essere" e che "l'essere non umano non può essere umano". L'essere, perciò, "è", ciò che "è" e non può essere altro, diverso da quello che "è". Durante il "divenire" egli si "trasforma", a partire dall'origine, cui seguono la crescita, lo sviluppo, la procreazione e la fine del ciclo. Sia individuale che collettivo, sia delle città che delle civiltà. Così come argutamente scriveva G.B. Vico, ma era già arcinoto ai filosofi Greci, che inserivano tali cicli in quello più generale della natura. Anche "l'essere non umano" ha il proprio ciclo. Non esiste, comunque, almeno nella forma fenomenica, un "non essere", se non nella distinzione che precede, ossia tra "essere umano" e "essere non umano". Ma senza alcun giudizio di valore, come spesso si usa fare, né di rilevanza o primogenitura nel cosmo perché quivi "l'Uno" e il "molteplice" si fondono, sono la stessa cosa. Gli "esseri umani" nel corso dei millenni hanno "creato" sovrastrutture nelle quali hanno disciplinato i loro comportamenti, non più secondo natura ma secondo "convenzioni". Il "diritto", la morale, l'etica, la scienza, le lettere, l'arte, le istituzioni, ne sono i prodotti, "grazie ai quali" viene disciplinata la "convivenza", sia tra singoli che tra gruppi, organizzati in società e Stati. Anche questi ultimi seguono le regole delle "convenzioni" (Trattati, in genere), senza aver, tuttavia, mai abbandonata la forza della violenza delle armi, come è avvenuto nella recente guerra tra la Russia e l'Ucraina. In questi casi, come noto, la barbarie prende il sopravvento e orienta tutti i comportamenti degli esseri umani, sia posti ai vertici delle istituzioni di governo sia dei semplici cittadini. Tutti prendono parte ai conflitti, e tutti secondo "ragione", ma mai come in questi casi la "ragione" si rivela per ciò che essa è: "convenzione". E così si constata che l'essere umano è anche irrazionalità, follia, inconscio. Lo "scibile" umano ha consentito di poter descrivere l'essere umano in una miriade di forme, attività, e tutte le "creazioni" ne costituiscono il migliore "prodotto" per poterlo decriptare. Una cosa è però certa: è un essere relativo, come sosteneva Protagora, anche se l'essere umano è sempre più convinto di essere stato "prescelto" per compiere "La Missione" e di conoscere l'Assoluto. Ma un essere "finito" non può conoscere "l'infinito"; analogamente, un essere "relativo" non può conoscere "l'Assoluto". Perciò "l'essere umano è ciò che è" e non può essere "altro", così come si manifesta nella sua molteplicità e diversità nel "divenire". Se proprio una distinzione si vuole tentare è quella che riguarda le "convenzioni" in virtù delle quali si usano indifferentemente i termini di essere umano e di uomo (o umano). Ad es., nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 si legge che «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti» (art.1); nella Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950: «Obbligo di rispettare i diritti dell'uomo» (art.1); nella Costituzione italiana è sancito che « La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art.2). Invece, nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, si dichiara che «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti» (art.1). Come si vede, uomini, uomo ed esseri umani sono ritenuti equivalenti, alternativi, sinonimi, secondo le "convenzioni". Eppure, volendo "spigolare", si potrebbe rilevare tra tali termini una certa differenza, e forse non soltanto formale. Ne propongo una. Le "distinzioni" sottendono due differenti "fedi": laica e religiosa, materiale e spirituale. Dire "uomo o uomini", perciò, è diverso che dire "esseri umani". Nel primo caso l'Essere non ha alcuna rilevanza, nessun collegamento, nessuna importanza: l'uomo è l'uomo e basta (lo zoon Politikon di Aristotele, per capirci). Nel secondo caso, invece, l'uomo è parte dell'Essere, perciò "essere umano". In verità è quest'ultimo concetto ad essere più problematico perché porta sia a sostenere che l'Essere "abita" l'umano, sia che quest'ultimo sia in costante collegamento con l'Essere supremo. E da queste due convinzioni  conseguono la "sacralità" dell'essere umano, la primogenitura di questi, ma anche i "conflitti" per avere il monopolio della rappresentanza terrena. Tralasciando, qui, queste problematiche di tipo "religioso", può essere utile, invece, ricercare delle "peculiarità" sia dell'uomo che dell'essere umano rispetto alle "convenzioni", in particolare rispetto alla "libertà di pensiero". È questa, infatti, a mio avviso, la vera e unica caratteristica degli esseri umani, tanto che tutti gli ordinamenti la "temono" e la disciplinano. I tempi bui del medioevo per fortuna sono ormai passati, anche se la ciclicità degli eventi li riporta nella storia umana. Oggi sembra che stiano avanzando, e ciò lo si è visto sia a causa della pandemia che della guerra che hanno dato ai governanti (e alla maggioranza dei cittadini) il potere di limitare (o cancellare) il "diritto di critica", che è una forma della libera espressione del pensiero. Resiste, comunque, il valore della scienza, grazie alla quale è stato possibile comprendere anche l'origine dell'universo e la sua evoluzione. Anche se molte cose ancora si ignorano, ma ormai la strada della scienza è stata tracciata e la tecnologia concorre a scoprire anche i segreti più microscopici della natura. Prima o poi altre scoperte si aggiungeranno a quelle finora conseguite e il genere umano farà un ulteriore "salto evolutivo" (salvo che la "follia" non lo riporti all'età della pietra o alla scomparsa definitiva), come è avvenuto con  le teorie della relatività sia ristretta che generale di Einstein e nei tempi più recenti con la teoria dei quanti L'importante, comunque, è che i "custodi" della "fede" non divengano intolleranti così come purtroppo ormai lo sono diventati molti governanti, anche spacciatisi per "liberali e democratici", e sia sempre consentito al "pensiero" di essere "libero" di procedere verso (o dentro) la "verità". È infatti solo il "libero-pensiero" che eleva l'uomo e gli consente di immaginare "l'Assoluto", oltre che capire quanto a volte siano "miseri" gli umani, anche incaricati di responsabilità piramidali. E forse è proprio per impedire che l'uomo divenga consapevole di sé e, come Terenzio, conosca meglio tutti i vizi dei suoi simili, che si tende ad imporre sempre il "pensiero dominante" come "unico" e a reprimere quello delle minoranze e degli intellettuali illuminati e impegnati. È un dato di fatto, facilmente verificabile, che tutti i governanti, in genere, e gli ordinamenti giuridici, siano inclini ad ostacolare o impedire, con il perimetro spesso angusto della "legalità" sostenuta dalle sanzioni penali, il libero esercizio del pensiero. Anche di quello del mondo dell'arte, della scrittura, e persino di quello dei Poeti, che con la loro ispirazione riescono ad uscire dagli schemi sociali artificiali e a cogliere "il senso" che sta oltre il reale. Epperò più una società coltiva il libero-pensiero, lo premia, lo valorizza, lo stimola, e più esce dalla "caverna" di Platone, soprattutto quando tale scelta "liberale" consenta di mettere in discussione i pregiudizi, l'intolleranza, le arbitrarie diseguaglianze sociali ed economiche e le caste e classi professionali e istituzionali. Purtroppo le tendenze "umane" sono spesso "autolimitative". Basta, infatti, riflettere sugli ordinamenti, in generale, e sulle varie e diverse consorterie di tipo associativo per rendersi conto di quanto gli "umani" adorino le "gerarchie", alle quali si sottopongono con non poco piacere. Non si tratta, infatti, come si vuole credere, di "socialità" (e comunque non soltanto) ma di "rinuncia" all'esercizio del libero pensiero, demandando ad altri il potere di pensare e decidere. E così si afferma l'appartenenza, l'essere faziosi di parte (come nei "partiti"), a prescindere dalla riflessione, dal "giudizio critico". È certamente un "male", perché, come sopra detto, solo grazie al "libero pensiero" l'umano può essere definito "essere umano". Altrimenti, rimane soltanto "umano", inteso nel senso stretto della natura, come specie tra i milioni di specie. Occorre, perciò, "demolire" le costruzioni mentali, gli stereotipi, abbattere i muri, i luoghi comuni, i confini, per guardare il cielo sovrastante e l'universo intero con le sue leggi immutabili. Scandagliare anche l'universo che è dentro di sé, che ognuno può conoscere, solo se lo si voglia. L'unica guida, infatti, deve essere la "Verità", che è la sintesi di ciò che è umanamente ritenuto corretto e dell'errore. Così come sosteneva Hegel, secondo il quale "La verità è l'intero" e "l'Assoluto è la risultante di tutte le mediazioni del reale nel divenire". L'unica vera peculiarità dell'essere umano è perciò sempre e solo il "pensiero". È soltanto quest'ultimo, infatti, che  consente di "dialogare", sia all'interno di se stessi, anche mediante la "critica" del proprio pensiero, sia verso l'esterno, quando si rivolga il "pensiero" all'Assoluto, al mondo esterno e all'ultraterreno. Il pensiero, però, capace di "dialogare", nell'uno e nell'altro caso, deve essere necessariamente libero da ogni e qualsiasi condizionamento, di nessuna natura, né politica, né giuridica, né tantomeno religiosa o sociale. E bisogna sempre ricordare che l'uomo non è altro che un organismo "relativo", perciò anche le sue idee ritenute "assolute" sono sempre e solo relative. Quindi è puro fanatismo assolutizzare le proprie convinzioni contro il "relativismo" nei rapporti civili e di ogni altra e diversa natura. Ogni cosa, incluso il pensiero, nel mondo fenomenico si "manifesta" in modo "dialogico", apparentemente conflittuale, e questo è la conseguenza dell'essere "relativi". Soltanto nell'Assoluto, infatti, è tutto indistinto, indeterminato, illimitato, eterno. L'uomo, quindi, è soltanto un semplice "mediatore" che nel "divenire" partecipa all'opera di trasformazione dell'Assoluto. E le sue idee sono "necessariamente" conflittuali, sia che abbiano un collegamento con l'Assoluto, sia che si originino solo all'interno di se stesso, mediante un semplice, per quanto complesso, processo biochimico. Il dualismo conflittuale, perciò, è parte dell'essere umano (e anche dell'umano), anche quando si manifesti in modo "distruttivo". E l'uomo è "dentro il mondo" e non "fuori dal mondo". Non un semplice osservatore, ma parte attiva e passiva del mondo. L'essere-umano, però, ha la possibilità di esprimersi come "essere", collegato all'illimitato (Àpeiron, di Anassimandro), da cui è uscito per "entrare" nel mondo reale, anziché agire come semplice "umano" che asseconda le sue pulsioni naturali. La "scelta" dipende soltanto dall'uomo: decidere se conservare in sé il proprio "essere", oppure allontanarsene, porsi in contrapposizione all'Assoluto, ove tuttavia si dovrà fare comunque ritorno, perché è il prezzo da pagare per essersi differenziato dall'illimitato. L'essere-umano, però, per essere tale, dovrà sempre rivendicare ed esercitare il "libero-pensiero" durante la sua esistenza perché è l'unico modo per fondere la duale soggettività di "essere" e di "umano", come energia-materia, o spirito-materia, nel proprio "divenire" sospinto dalla "freccia del tempo". E grazie a tale "fusione" l'essere-umano col libero pensiero potrà anche trascendersi per impedire (o limitare) gli "opposti" (bene e male, pace e guerra, odio e amore,ecc.), che agiscono nel solo mondo "relativo" e non nell'Assoluto. 

 
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IL 25 SETTEMBRE SI VOTERA'. ATTENTI AL LISTINO

Post n°1066 pubblicato il 26 Luglio 2022 da rteo1

21.9.2022: VOTERÒ CONTRO LA GUERRA ! METTERÒ LA CROCE SUL SIMBOLO CHE HA NEL PRORAMMA IL RIPUDIO DELLA GUERRA" E DELL'INVIO DELLE ARMI ! E NON PER "PAURA DELLA GUERRA NUCLEARE" MA PER MANIFESTARE IL MIO DISSENSO CONTRO LA STUPIDITÀ DEI POLITICI CHE CI GOVERNANO CHE NON HANNO VALUTATO I DANNI ALL'ECONOMIA NAZIONALE E CHE IL CONFLITTO RIGUARDAVA DUE STATI ESTRANEI ALLA NATO E ALLA.U.E.. INOLTRE PERCHÉ IL GOVERNO HA RINUNCIATO A SVOLGERE L'UNICO RUOLO DI CUI L'ITALIA POTEVA ANDARE FIERA: QUELLO DELLA TRADIZIONE DIPLOMATICA.

26.8.2022: se il candidato all'uninominale è sostenuto da più liste del proporzionale si potrebbe scegliere la lista che ha il capolista più gradito (o meno sgradito) al di là dell'appartenenza politica del candidato all'uninominale e alla propria appartenenza partitica. Sopratutto se si tratta di "digerire" un candidato blindato imposto dalla segreteria romana. È questo un modo per dare la preferenza aggirando la legge che non lo consente.

IL 25 SETTEMBRE SI VOTERA'. ATTENTI AL LISTINO !

Prendo spunto da una relazione di qualche anno fa tenuta dal filosofo Aldo Masullo, nolano (come il Grande Giordano Bruno), anche se nato ad Avellino (nel 1923, e deceduto a Napoli nel 2020). Egli sviluppava le sue tesi su la "Crisi della Fenomenologia e la Fenomenologia della crisi". Relativamente a quest'ultima, avente ad oggetto l'antropologia, la storia, la sociologia, la politica, ripercorreva il processo della "classe operaia" che dal secondo dopoguerra si era "imborghesita" e fusa con le classi intermedie (professionisti, artigiani, piccoli imprenditori, ecc.). Egli attribuiva all'imborghesimento una connotazione positiva, e non c'è motivo per non condividerla. Nella dinamica, infatti, della "lotta di classe", anche il proletariato (soprattutto operai e contadini) riusciva ad avere finalmente un ruolo politico nel Paese. I partiti che raccoglievano i consensi dell'ex proletariato erano soprattutto quelli di sinistra (il PCI, più degli altri) ma anche i "conservarori di centro" (DC). Dalle prime elezioni politiche del 1948 ad oggi è notevolmente mutata la rappresentanza. Sono sorti tanti nuovi partiti e movimenti e oggi la "sinistra" non è più "sinistra". Da un recente sondaggio, infatti, è emerso che oltre il 55% degli elettori del PD (erede, piuttosto lontano, ormai, degli ex PCI e DC) percepisce un reddito medio alto. Sono prevalentemente le "classi dirigenti" pubbliche, e questo spiega perchè tale partito è fortemente "governista", anche a discapito dei meno abbienti, che hanno dovuto trovare altri "rappresentanti" (come ad es, il Movimento 5S) oppure disertare le urne con l'astensionismo. Certamente questo non è un bene, soprattutto per i diseredati (circa 5 milioni di poveri assoluti e 5 milioni di poveri relativi), ma alla "ex sinistra" poco importa perchè ciò che conta è continuare a garantire il reddito alla classe dirigente, che ha anche il compito politico di "soggiogare" i più deboli per orientarne il consenso elettorale (anche le candidature al parlamento dei sindaci  e consiglieri regionali vanno in tale direzione perchè essi col potere locale e territoriale gestiscono le "speranze" dei cittadini emarginati). Per "fortuna" nella passata legislatura c'è stato il M5S che ha raccolto il disagio sociale. Molti provvedimenti favorevoli agli emarginati sono stati varati. Peccato, però, che ora tale M5S si sia liquefatto (in parte) perchè una buona parte, anche a causa del vincolo del doppio mandato senza deroghe ha preferito cercare nuove strade politiche. Il divieto del terzo mandato se osservato da tutti i partiti (e magari costituzionalizzato) sarebbe però una buona cosa perchè consentirebbe di avvicendare i cittadini nella cura della cosa pubblica e di spezzare il vincolo psicologico col potere che si genera quando si entra nelle "stanze dei bottoni". Indubbiamente molti parlamentari, che non avevano, e spesso ancora non hanno, "nè arte nè parte", non sanno come riorganizzare la propria vita una volta usciti dal parlamento ma di certo il bene collettivo se ne avvantaggia perchè ritornare ad essere tutti dei comuni cittadini è sempre un bene. Personalmente, perciò, do un notevole valore al limite del doppio mandato e osservo con preoccupazione tutti quei partiti che non lo adottano come criterio. Certamente, però, la candidatura non dovrà avvenire soltanto in base alla detta regola. La vigente legge elettorale prevde collegi uninominali e plurinominali (secondo il criterio proporzionale). Per questi ultimi i partiti compongono dei "listini" con i nominativi dei candidati (fedeli al capo) da far eleggere. L'elezione avviene secondo l'ordine di lista. Perciò è sempre il primo della lista ad essere eletto, perchè non ci sono preferenze da esprimere. Attenzione, perciò, a non limitarsi a leggere il solo nominativo del candidato all'uninominale perchè questi funge anche da "cavallo di Troia" per tirare l'elezione al primo candidato del listino collegato. Spesso quest'ultimo è un "politico" che non ha nulla a che fare col territorio del collegio, perciò gli elettori devono soltanto "obbedire" come gli schiavi dell'antica America del sud. Certamente molti obbediranno perchè hanno un debito col partito (o una promessa che deve essere mantenuta) ma, per fortuna, alcuni cittadini (anche se pochi) sono ancora liberi di scegliere. E questi lo dovranno fare, se hanno a cuore l'evoluzione civile della propria specie. Per quanto concerne "gli ultimi" è senz'altro utile che essi difendano la propria dignità ed evitino di affidare la cura dei propri interessi ai partiti, anche se si dichiarano di sinistra, che, come detto, rappresentano soprattutto le "classi dirigenti". Perciò vanno evitati quelli che vorrebbero continuare l'esperienza del governo passato, che certamente non è stata proprio vicina ai meno abbienti, soprattutto a causa  dell'ostinazione nella politica bellicistica che ha provocato immensi danni economici al Paese (che si manifesteranno ancor più in autunno). In conclusione (per ora): gli "ultimi", secondo l'analisi che precede, dovrebbero orientare le proprie scelte elettorali secondo il criterio della lotta di classe, per cui se si è "ultimi" (i 10 milioni circa di italiani emarginati) occorre stare alla larga dai partiti di ex sinistra che garantiscono le classi dirigenti e sostenere, invece, chi ancora intende curarsi degli emarginati, ma con i fatti e non a parole. Anche la regola statutaria del doppio mandato potrà essere un buon segno dello spirito civile e democratico del partito, o movimento, da scegliere perchè impedisce di trasformare in tiranni, dittatori, i cittadini che entrano nella gestione del potere istituzionale. E bisogna NON VOTARE quei candidati dell'UNINOMINALE che hannno un LISTINO COLLEGATO col primo nominativo ESTRANEO AL TERRITORIO DEL COLLEGIO. E occorrerà, inoltre, anche considerare i profili personali dei candidati perchè è importante chi sono, che hanno fatto nella vita, se siano o meno persone oneste e competenti, ecc., soprattutto in questa nuova fase costituzionale in cui il Parlamento è stato ridotto di 400 unità.  

 
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