satyagraha

Relazione generale tenuta all'assemblea del mir (prima parte)


“Gesù ha fornito lo spirito, Gandhi ci ha mostrato come usarlo… L'obiettivo finale della non-violenza deve essere la creazione di una Comunità in cui regni l’amore. Le tattiche della non-violenza senza il suo spirito possono trasformarsi in in una nuova forma di violenza.“Martin Luther KingPremessaEccoci ad una nuova assemblea nazionale, un appuntamento che  ci permette di fare un bilancio, una analisi di cosa abbiamo fatto, cosa potremmo e vorremmo fare, ma soprattutto un momento in cui ritrovarsi, vivere comunitariamente, riprendere forze ed energie.Da alcuni anni questo momento riesce a rispondere abbastanza bene a queste esigenze: ricordo nel passato assemblee noiose ed altre molto tese, come a volte è facile fare quando si rimane troppo fissati sulle pur importanti scadenze istituzionali e organizzative e si dimenticano le ragioni di fondo per cui siamo qui.Per questo ho voluto premettere a questa mia relazione la citazione di uno dei nostri “buoni maestri”, che non ha bisogno di ulteriori commenti: è importante che l’abbiamo davanti non solo agli occhi, ma al cuore durante questa nostra assemblea, perché non dimentichiamo mai il perché noi spendiamo tempo, energie, ci muoviamo da un capo all’altro dell’Italia, a volte felici di farlo, altre più per senso del dovere: perché crediamo possibile, e vogliamo esserne protagonisti, la creazione di una “società dell’amore”: tutto il resto, il mir, le assemblee, il sito, le circolari, le campagne, le cariche, sono strumenti per realizzare quel grande obiettivo: è importante  non scambiare i fini con gli strumenti per raggiungerli.Quest’anno l’assemblea capita una settimana dopo l’annuale incontro delle branche europee dell’Ifor, su cui relazionerò domani; incontro sempre interessante e “caricante”, come un buon “ricostituente”, se non altro per il fatto che ci si trova a discutere tra persone provenienti da paesi e culture diverse, uniti da quello stesso obiettivo di cui sopra: quest’anno eravamo in 30, “rappresentanti” 14 nazioni diverse.In questo incontro ho trovato diversi spunti utili al nostro lavoro: in particolare ho conosciuto Hildegard Goss, una donna eccezionale, che ci ha raccontato l’esperienza della sua vita, da 50 anni  strettamente legata a quella dell’Ifor.Alcuni dei suoi pensieri mi sono rimasti particolarmente impressi: in particolare ha rimarcato l’importanza di trovarsi personalmente, oltre gli scambi pur utili per via telematica o epistolare; ogni incontro dell’ifor dovrebbe essere impostato partendo dall’analisi della situazione in cui ci troviamo ad operare per chiederci quali sono i nostri compiti.Ed è quello che tenterò di fare io, sperando di trovare in voi degli attenti critici, perché penso che questa analisi possa essere fatta solo collettivamente così come la successiva fase di definizione di come agire.Situazione generaleEssa è caratterizzata dalla continuazione della “guerra globale al terrorismo”, con sempre maggiori e preoccupanti complicazioni.Quest’anno c’è un ulteriore elemento che si sta prepotentemente imponendo all’attenzione dell’opinione pubblica: il cambiamento climatico ormai in atto.Puo’ sembrare un elemento frivolo o estraneo alle tematiche che siamo abituati ad affrontare nei nostri consessi, invece è un dato estremamente preoccupante, ben più, a mio avviso, degli stessi sviluppi della “guerra globale”.Esso è il fenomeno di quel complesso di azioni umane chiamato, non sempre con proprietà di linguaggio, inquinamento.Non si tratta infatti solo di inquinamento, nel senso di produzione ed immissioni nell’ambiente di elementi nocivi e velenosi per la vita, ma di un complesso di interazioni prodotte da un sistema che ha completamente dimenticato non il senso, ma l’esistenza dei limiti, che modificano gli equilibri che da milioni di anni hanno favorito la presenza dell’uomo sulla Terra. Da tempo, non i verdi o gli alternativi, né gli eterni contestatori antisistema, ma fior di scienziati, stanno denunciando la pericolosità di un sistema economico sociale e di uno stile di vita, che sta producendo cambiamenti di entità mai vista nella storia umana, mettendo in guardia che quando i fenomeni del cambiamento del complesso equilibrio ambientale avrebbero cominciato ad essere “verificabili” sarebbe stato troppo tardi porvi rimedio: e da qui deriva proprio il dato più preoccupante della situazione odierna: e cioè che quel punto di non ritorno sembra ormai essere stato superato.In realtà quando ho parlato di pericolosità di un sistema economico sociale ho usato un linguaggio che è nostro, non degli scienziati: infatti questi hanno parlato di emissioni di CO2, di necessità di abbatterle, di dati chimico fisici; ma i provvedimenti proposti presuppongono un cambiamento di mentalità tale che difficilmente l’attuale sistema potrà realizzare se non trasformandosi radicalmente.Molti di noi nonviolenti, sia dentro che fuori dal mir, abbiamo da tempo denunciato che questo sistema si sarebbe scontrato con la compatibilità ambientale: particolarmente profetiche sembrano, a rileggerle oggi, le critiche al sistema industriale capitalistico fatte da Gandhi già ai primi del Novecento, e non solo per motivi etico morali, ma proprio per motivi “tecnici” (ricordate la domanda: se 25 milioni di inglesi per mantenere il loro stile di vita devono sfruttare 300 milioni di indiani, cosa dovrebbero fare questi per raggiungere lo stesso livello degli inglesi? Distruggerebbero il pianeta, si rispose il mahatma; oggi gli inglesi sono 60 milioni, gli indiani più di un miliardo!); così come le parole  di Lanza del Vasto e di tanti altri: noi stessi facemmo un convegno-seminario nel lontano 1990 dal titolo significativo: “Sviluppo? Basta! A tutto c’è un limite.”Sbaglieremmo però a crogiolarci in questo patetico ed inutile “l’avevamo detto”; bisogna capire cosa  è possibile fare e che contributo possiamo dare noi.Innanzitutto una osservazione: continuando ad usare la metafora di Gandhi, alla sua domanda si potrebbe anche rispondere: ma agli indiani non deve essere permesso di raggiungere i nostri stessi livelli di vita. Ossia, se c’è un problema di accesso alle risorse, lo si impedisce ad altri: questo ovviamente vuol dire forza; dominio su tutte le fonti strategiche di energia, imperialismo planetario, e di conseguenza guerre, o terrorismo, che è semplicemente una tecnica di condurre la guerra da parte di chi non può competere in campo aperto con l’avversario. E questa è la ragione di fondo della “guerra globale per le risorse” vero nome di quella che invece viene denominata, ora “contro il terrorismo”, ora “di civiltà” ecc.Dunque esiste un nesso molto stretto tra guerre, giustizia sociale e ambiente (pace giustizia salvaguardia del creato, ma guarda un po’!)Ma qui sorge un grosso problema: questo nesso è I) poco sentito II) anche chi ne parla non sembra trarne le dovute conseguenze, III) sono convinto che chi ce l’ha più chiaro davanti agli occhi sono proprio i gruppi dominanti l’attuale sistema.E ora veniamo a noi: al punto I : non mi pare ci sia chiara coscienza di questo nesso, soprattutto non esiste una concezione del mondo, una teoria e una prassi che sappia legare i fenomeni di cui sopra, ricavarne delle soluzioni da proporre, individuare i soggetti politici, culturali ma soprattutto sociali in grado di battersi per esse.Non mi piace autocitarmi, ma se andate a prendere le mie stesse relazioni del 2005 e 2006, vedrete come questo, della costruzione di un’alternativa “globale” al capitalismo “globale” fosse uno dei principali problemi che individuavo. A distanza di 2 anni non mi sembra siano stati fatti grossi passi avanti.Intendiamoci, esistono, sparsi per l’Italia e per il mondo, diversi gruppi di ecologisti, nonviolenti, gruppi popolari di “resistenza” allo sviluppo, tentativi di proporre alternative anche di vita, reti di economia solidale, commercio equo, ecc. Ma tutto ciò, oltre ad essere estremamente eterogeneo, è più al livello di testimonianza che di alternativa; soprattutto non si riesce a superare il muro di ostracismo decretato dai mass media. L’esperienza dei social forum è anch’essa estremamente eterogenea: una ricchezza da una parte, ma che diventa una debolezza se si vuol veramente opporre e superare l’attuale sistema politico economico sociale.A questo proposito vorrei sottolineare due errori che a mio parere vengono fatti a questo proposito: uno è la tendenza da parte nostra a considerare l’alternativa come somma di tutti quelli che dicono “no” per i motivi più svariati, non ultimo una forte dose di egoismo “particolare”, non sempre frutto di quell’analisi approfondita e neutra (nel senso che non si esaminano solo le cose che ci tornano comode) che ogni campagna o lotta nonviolenta dovrebbe prevedere; ma soprattutto, quand’anche fossero tutte condivisibili, rischiano comunque di essere settoriali, esempi magari di resistenza a quella distruzione industrialista, ma che non vanno mai oltre il proprio ambito locale; facendo un paragone ardito potrei dire che come l’insieme delle lotte salariali di inizio novecento non erano di per sé lotta al capitalismo se non si inserivano in un più generale quadro politico sociale, così oggi la somma dei vari no abbisognerebbero di un quadro politico e sociale e soprattutto di una coscienza politica per essere lotta per una nuova società.L’altro errore lo definirei “fatalismo apocalittico”. Da diverse parti vedo ecologisti e nonviolenti che preconizzano una accelerazione della crisi ambientale e politica odierna,  perché una volta che le risorse si esauriranno, che l’industrialismo avrà sbattuto contro i suoi limiti, questa società si dissolverà per lasciare il posto a semplicità volontaria ed economia solidale; e compito nostro sarebbe quello di rifugiarci nell’arca in attesa che il diluvio passi.Innanzitutto la storia insegna che questi cambiamenti epocali “naturali”, primo, sono estremamente violenti e sanguinosi, secondo, proprio per la mancanza di alternative portano al caos, all’aumento della violenza, della brutalità e dell’intolleranza, con generale indietreggiamento di tutta la società. Ma nel nostro caso abbiamo un occidente, guidato dalla superpotenza americana, in grado di difendere ancora a lungo il proprio stile di vita, e ben lontano dal punto di crollo. Dunque non aspettiamoci nulla di buono dal “naturale corso degli eventi”; siamo noi, inteso come uomini, a poterlo e doverlo determinare e modificare, affinché questo momento di crisi possa sfociare in un nuovo e meno violento assetto sociale.Quale a questo proposito il nostro compito come nonviolenti e specificamente come mir? Non saremo certo noi a poter creare la grande coalizione sociale che si proponga quanto sopra detto, né possiamo avere la pretesa di essere i teorici di una nuova ideologia: a questo proposito sarebbe bene che anzi ci rivestissimo di un po’ più di umiltà e riconoscessimo i nostri errori di semplicismo e autoreferenzialità. Ma qualcosa potremmo fare, che non sia il semplice rifugiarsi nell’arca di Noè, che oltretutto mi sembrerebbe un po’ egoista.Innanzitutto un rendersi coscienti e aiutare il popolo a rendersi cosciente di ciò che sta succedendo. Poi un contributo di studio e di proposte, anche parziali ma che possono essere utili, poi la valorizzazione proprio di quelle esperienze alternative citate sopra. Infine proporre l’aggiunta nonviolenta, ossia la motivazione di fondo, la ricerca della verità, anche quando potrebbe essere scomoda.Una tematica importante da seguire sono quelle reti di economia solidale che sono qualcosa di più che un G.A.S. (gruppo di acquisto solidali) o insieme di questi; se c’è una possibilità di economia alternativa è da lì che potrà venir fuori; l’altro tema è quello dello studio, della solidarietà, ma soprattutto della condivisione con chi già oggi sperimenta diversi stili di vita; è l’attività che viene fatta attraverso i campi estivi, geniale intuizione di Beppe Marasso di 20 anni fa, che è secondo me un elemento prezioso dell’attività del mir italiano, che a volte abbiamo lasciato un po’ troppo a se stesso, ma che deve assolutamente essere seguito e rafforzato dall’insieme del movimento.(segue)