S_CAROGNE

Colazione da Tiffany


Siamo quello che mangiamo. Questo fino al momento in cui lasciamo la famiglia di origine. Poi siamo quello che cuciniamo. Lo ammetto, così evitate di dirlo, con parole più o meno carine nei commenti: mangiare bene non rientra nei miei bisogni primari. Mi accontento di poco, anche perché solitamente mangio  spinta dal bisogno, direi mai per noia, e a quel punto non faccio troppe cerimonie. Il fatto che poi la mia fame si sazi con poco (ad esempio un'arancia) dipende dalle mie ridotte dimensioni fisiche. Dicevo: siamo quello che cuciniamo, ma se dobbiamo cucinare è necessario anche fare la spesa. Le due azioni generalmente non possono coesistere nella mia giornata, dato il ridotto tempo che posso dedicare agli svaghi da quando la serpe mi incalza con  pressanti richieste. Ed ecco che il  sabato redigo la lista, mio marito ha la concessione di fare la spesa, poi la domenica cucino il più possibile in modo da poter surgelare e sfamare i fortunati componenti del mio nucleo familiare fino al sabato successivo. A volte è necessario qualche rabbocco e così telefono a mio marito quando è al lavoro “stai per tornare, vero? Allora evitami per cortesia di uscire e pensa tu al latte”. Per esperienza sa che se ho notato l'assenza del latte nel frigorifero questo dipende dal fatto che è quasi vuoto, per cui prende i dovuti provvedimenti. Bene, ora che abbiamo gli ingredienti, passiamo alla scelta del menu. Sono mamma, per cui devo sapientemente bilanciare i seguenti fattori: apporto nutritivo, genuinità, alternanza, gradimento (non mi accanisco: se qualcuno odia le zucchine, non sarà da me perseguitato), presentazione (forma, colore), rapidità di preparazione. Diciamolo, non è proprio il momento più rilassante della mia giornata. Anche perché solitamente mentre sono ai fornelli i bimbi sono nei paraggi, quindi occhio al forno, occhio ai coltelli, occhio ai loro sguardi furtivi nella dispensa e alle conseguenti richieste e/o proposte. Ovviamente nove volte su dieci, inopportuno come gli interventi di Ruini arriva uno squillo di Sara. La richiamo prontamente, sperando in una buona notizia, ma anche in un miracolo: lei che dica “mi sposo e lui mi ha fatto giurare che non accenderò mai più un pc”. Invece niente: la ascolto berciare finché  mi rendo conto che la frittata ha bisogno di due mani e le sbatto il telefono in faccia.  Con il caratterino che mi ritrovo, se per caso qualche consanguineo osasse dopo tutto questo criticare, sbatterei la porta immaginaria del mio open space dicendo “ho di meglio da fare, cosa credete, non sono mica la vostra cameriera”.  E il pensiero tornerebbe ai tempi felici, quando abitavo in terra straniera, in un monolocale ordinato e pulito in modo spontaneo, e cucinare per gli amici, ma anche per me sola, era un piacere. Uscivo senza lista, gli odori e i colori mi guidavano nella scelta degli ortaggi, tornavo a casa, lavavo e tagliavo, ora a rondelle, ora a quadratini, peperoni e cipolle, sorseggiavo un bicchiere di vino, ascoltavo musica, non avevo il cellulare, osservavo con calma il soffritto, parlavo con il cibo pensando alle poesie di Neruda. E la Cipolla, il Carciofo, la Patata, il Vino, il Pomodoro erano miei graditi ospiti. Altri tempi.