S_CAROGNE

Il debutto


La sala gremita di gente. Molta di più di quanta se ne aspettasse. La pubblicità dell’evento è stata efficace.L’ho seguita in tutte le sue prove, negli affanni, nelle inguaribili paure. Nel tremito del suono, negli inevitabili errori delle prime volte.Siamo andate a comprare il vestito. Decisione ardua. Doveva essere “asessuato”. Queste le esigenze “sceniche” . La scelta è caduta su uno scamiciato di lino blu petrolio. Largo, vezzoso, lineare nella forma.Le luci scendono. I pochi rimasti in piedi prendono posto. Lo spettacolo sta per avere inizio. Entra. In punta di piedi, scalzi. Si acquatta, insieme alla violinista, al centro della scena. Dietro le loro sagome, proiettato sul muro bianco, giganteggia l’immagine di una statua di Mueck. La cornice è quella di una chiesa delle clarisse, ovviamente sconsacrata. Come si conviene ad una come lei. E’ lo spettacolo del diverso. Silenzio. Musica. Si va in scena. Terzo accordo.Leggo la sua paura negli occhi; l’orgoglio è grande. Ce la farà. Comincia. La voce non trema.Primo pezzo e crescendo di ritmo. Il violino accompagna e abbraccia la sua voce, il suo amoreggiare con i testi, con il microfono. La performance è dedicata a lui: Gregor Samsa. E’ incalzare di emozioni. Gliele leggo nel tremito delle mani mentre gira i fogli sul leggio, negli sguardi in cerca di consenso, in cerca di me, nel pubblico. E poi, eccola ricomparire lì, la sua fierezza, mentre guarda la platea, mentre sembra sfidare tutti ed il suo sguardo dice “ci sono. Colpite se avete ancora forza per farlo. Guardate. Nonostante voi, nonostante tutto, sono ancora qui, in piedi e la mia voce non cede, grida alla vostra coscienza”.Gronda sudore, ma rimane immobile. I tempi ci sono, le pause anche. Lo spettacolo procede e la vita va inesorabilmente avanti, segnando distanze.E’ presente a sé. Questo le basta in quei 45minuti così lavorati per settimane. Così cercati dentro le vene nel tentativo di recuperare dignità, ricordi, pulizia.Nella sala il caldo è soffocante, tuttavia nessuno si lamenta, nessuno di muove. Rimangono inchiodati. Guardano, ascoltano, si perdono, si cercano.L’ultimo pezzo. E’ quasi fatta.Applausi. Tanti. Come si entra, si esce. Veloci, in punta di piedi, impalpabili meduse. Sfuggenti alle luci, ai complimenti.La ritrovo. Dietro. Stanca, nuda. I suoi occhi, la sua felicità. Eppure, mi sussurra all’orecchio “sai, ho un po’ d’amaro in gola”. “Capita - le rispondo – è appena finito tutto”. “No, non si tratta di questo. E’ solo che a volte le emozioni ci passano sulla pelle e non le sentiamo. O, peggio, le lasciamo agli altri. Come le belle persone...”. Oggi, stesa su quel letto bianco. Accartocciata intorno a me, alla mia gola lacerata dal dolore di un veleno conficcato troppo brutalmente, ho capito cosa volevi dire.Aspetto la tua replica.Grazie di averci provato. E' andata alla grande. Ce l’hai fatta.