S_CAROGNE

Cappuccetti al sugo


Era la seconda di sette figli. La primogenita continuava a studiare e collezionava onori e meriti nella famiglia. Cecilia, invece, perdeva il suo tempo ad arrampicarsi sugli alberi per poi restare penzoloni, imprigionata tra i rami con le sue mutande di lana, in attesa che qualcuno andasse a salvarla munito di scala e rimbrotti.Il Barone aveva una predilezione per lei, conquistato dalla sua furbizia e dal suo sguardo allegro.Bisognava recarsi spesso a salutarlo e talvolta lui veniva a casa per ricambiare la visita. La famiglia di Cecilia era una delle più conosciute in paese e la figura del Barone era di certo molto importante. Era un onore riservato a pochi averlo come ospite.Cecilia conserva ancora un libricino di fiabe con una dedica personale. Sarebbe un oggetto di grande valore per i collezionisti.Erano altri tempi; di carri trainati da cavalli e zoccoli rimbombanti sul selciato nelle assolate ore del pomeriggio. Erano altri profumi; di campagna bruciata dopo la raccolta e di aria seccata dall'afa. Erano altre chiacchiere, sul marciapiede ad ingannare le sere.La dimora di gatta Tina è chiusa da tempo ed il limone ha rotto il muro di cinta con un lento ed imperterrito lavorio di radici.Suo padre produceva vino e chissà che in cantina non sia rimasta, tra le tante, almeno una bottiglia salvata all'aceto. Aveva anche un cinema. Si narra, negli aneddoti di casa, delle prime sorprendenti proiezioni, delle grandi bobine, dei film muti... Pareva che "il grande mondo" fosse approdato persino lì, in quel piccolo paesino della provincia.Il castello del Barone, così familiare ai piedi in corsa di Cecilia, ora è diventato una lussuosa e solitaria biblioteca comunale.Nel nuovo ristorante, quello che hanno aperto da poco, lì davanti, fanno la ricetta della nonna Vita, i cappuccetti. L'hanno chiamata con un nome diverso: "cappelletti del brigante", ma lei ha riconosciuto la mano familiare e così ha chiesto chi fosse la cuoca. Dal retro è uscita una donna: massiccia la corporatura, seno generoso ed occhi piccoli, mani piene di minuscoli tagliuzzetti. Aria mansueta e servizievole: "Io la riconosco, Signora; riconosco i suoi occhi.... Mia madre serviva sua nonna sin da bambina e sua nonna ha insegnato a mia madre a cucinare.  Questa ricetta è vostra.". E nel dirlo la voce tradiva gratitudine mista a pudore. Cecilia ha riso, mentre le rughe del viso raccontavano con lieve malinconia di una fanciullezza terribilmente lontana."Il castello del brigante", questo il nome del ristorante. Non si può dire che abbiano molta fantasia. Oggi sono andata lì. Tavolo per due. Ho immaginato di averti mia ospite. Avevo voglia di chiederti in che condizione fosse il gelsomino e se avessi ancora gallinelle Bantam, oppure ti fossi arresa alla comodità del mercatino del martedì.Seduta, mi sono ritrovata a parlarti come avendoti davanti. Mi hai spiazzato con il tuo fare insolente e perspicace ed inaspettatamente mi hai chiesto: "Ma tu, come stai?".Cecilia, sto come chi veste colori non suoi ed è redarguita quando ride in luoghi pubblici, perché non è serio in quell'ambiente, per le regole del sistema; così, rimango rispettosa e compunta all'angolo che mi è stato assegnato. Sto come la mosca che sbatte contro il vetro e non si capisce se lo faccia per speranza o per disperazione; come la tartaruga in compiacente cattività, altalenante, io. Sconfitta? Non ancora. Sto come colei che si domanda perché, talvolta, annulliamo la nostra identità in funzione di connubi impossibili.Ho ordinato un piatto di cappuccetti. Ho sempre rifiutato i racconti della tua famiglia e non mi sono mai interessata alla tradizione culinaria di nonna Vita.Tu hai guardato il castello e sospirando hai detto: chissà quando si deciderà a venire l'estate.