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Un blog creato da sara_1971 il 13/07/2007

S_CAROGNE

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Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...

 

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Come eravamo

Post n°95 pubblicato il 17 Ottobre 2007 da sara_1971

 

Il racconto che segue è stato scritto per gioco. Sì, per un gioco letterario cui siamo state invitate a partecipare qualche giorno fa. Tranquillizziamo gli assidui frequentatori del blog: siamo sempre noi, e torneremo a trattare importanti temi quali lo shampoo e la carta igienica nei cessi pubblici. Ci siamo concesse il lusso di fingere di avere un qualche spessore. Sono affiorati pensieri e sensazioni che forse altri hanno vissuto, con non poco dolore, e che probabilmente sono allegati zippati, in courtesy copy, a tutti, alla nascita. Molti attribuiscono a Einstein, che deve trovarsi nel nostro stesso spazio-tempo, il pensiero Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è ancora dolore.


Mani d’oro. Troppo dure ma preziose. Mani istintive, rapaci e gloriose di un uomo difficile, tanto prepotente fuori quanto sprovveduto e indifeso dentro. Oggi si celebra la messa funebre di una vita geniale vissuta in amara solitudine prima e in feroce abbandono poi.

Il parroco legge la sua prece, in equilibrio tra ipocrisia e bon ton, sostenuto dalla ferrea volontà di servire il Signore al di là del bene e del male.

Della sua infanzia non so quasi nulla, della mia ricordo soprattutto il terrore di assomigliargli, partorito da mia madre e lasciatomi in eredità. Un artista magnifico ed eccessivo, mio padre. Una donna volitiva dalla logica poco ferrea, mia madre. Mi chiedo spesso quale cupido stolto e incapace abbia fatto inciampare i miei genitori l’uno nell’altra.

Nel frattempo il prete va dritto al nocciolo della questione, leccandosi il labbro con la lingua rugosa: un geco con la tonaca. “Accogli, Signore, quest’anima smarrita”.

Abbasso lo sguardo sull’orologio: quanto ci vuole per far tornare questa pecorella sperduta all’ovile? Dista molto di qui l’inferno?

A tratti mi arriva la voce querula della cristiana assoluzione. “Cercò soddisfazione nelle piccole cose così come nelle grandi”.

Sciocchezze. Avrebbe dovuto dire, piuttosto, che portò avanti le sue idee in maniera infantile e dissennata, buttando via tutti i suoi soldi e le sue speranze.

Cosa eravamo? Una famiglia di sconosciuti assediati in un fragile fortino. Poi, per fortuna, era arrivato il divorzio. Un trauma? Non diciamo boiate: fu una liberazione. Per noi. Per gli altri un indice puntato come una freccia.

Quando ti capita di pensare al passato con lucida rabbia può anche capitare che ti venga voglia di recitare un mea culpa e di metterti in croce, ma bastano due o tre ricordi di quelli giusti per riesumare la memoria: un salotto foderato di cocci di piatti rotti, l’alternarsi fracassoso di accordi rabbiosi e di sinfoniche gasteme, i conti da regolare con gli infami creditori, le trasfusioni di denaro dei parenti… bastano infatti, sono sufficienti e quindi non ne vai cercando altri.

E allora ti domandi perchè oggi la messa sia così declamata, così corale quando invece all’epoca ci fosse un’aria talmente sepolcrale nel salmodiare l’epitaffio del matrimonio da farti pensare più allora che adesso ad una ecatombe religiosa.

I diversi dell’epoca? Eccoci qua: mio fratello ed io, il piacere è nostro.

Come eravamo? Stufi.

Stanchi di sentirci sussurrare alle spalle il fatto, peraltro verissimo, che i nostri genitori fossero due sbandati moltiplicati per quattro, saliti alla ribalta di questa onorabile città puritana solo per essere stati la prima coppia a separarsi alla luce di un sole splendente di riprovazione sociale.

E noi, la loro colposa gemmazione, additati come due profughi bisognosi, vivevamo in una mattanza di poverini biascicati a mezza voce, tra il ciarpame di giudizi accatastati sulla nostra serenità mancata, contornati da un tripudio di emicranie di nostra madre, colorate di rosa Optalidon in occasione delle feste comandate.

Si discettava con saggezza del cosa fosse meglio per noi bambini, senza sapere invece quanto io e lui, intimamente, avessimo benedetto il meno peggio per tutti.

Gli uomini la chiamano disparità di vedute, i giovani, viceversa, preferiscono definirla arroganza degli adulti.

Poi, tra una brocca sbeccata ed una tovaglia a righe, era stata finalmente tirata una riga nera su quelle unioni sconsacrate e delegittimate e dopo qualche anno fortunatamente non se ne era parlato più.

Mio fratello ed io, pertanto, avevamo festeggiato la quiete dopo la tempesta uscendo come lebbrosi dai nostri tristi lazzaretti per diventare lumache allegre dopo la pioggia, lieti di aver sepolto in un anfratto della storia l’onta di essere stati fauna da serraglio.

Ci era sfuggito il sapore delle disfide sociali ma avevamo usato un altro senso, il tatto, per provare quelle stesse battaglie sulla nostra pelle.

Per ritrovarci oggi placidi, all’ombra di un effimero albero genealogico, allo scoccare dell’ora fatale, sparando in cielo con un colpo di cannone le ceneri delle parole utili a descrivere l’inciviltà della coscienza sociale di ieri.

Di oggi.

E di domani.

Chiedendoci se qualcosa sia cambiato tra le messe di allora, bisbigliate, e quelle di oggi, urlate a piena voce, con cui abbiamo finalmente sepolto i nostri guai, insieme forse alla speranza di non riesumarli il giorno dopo.

Testimoniate Cristo con la vostra vita, e andate in pace (se potete).





 
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