Schwed Racconta

SCUSA HAI CENTINAIA DI PALLOTTOLE NELLA SCHIENA


Rapine sulla playSi è detto tante volte che il cinema sta per essere superato dalla Playstation. Ora esce un colossale gioco che è riduttivo non riconoscere come un  nuovo tipo di film di animazione, un’avventura dove siamo presenti anche noi, eccome. Firmato da Rockstar Games, è poco dire che arriva, dunque scoppia Gran Theft Auto 5 (Gran rapine in auto). Sono tre i protagonisti, agiti dal quarto che siete voi. Per decine e decine di ore, interpretate: un cinquantenne ancora segretamente in forza all’Fbi (qui si chiama Fib) e dedito alle rapine, un giovane criminale di colore che rivestite facendolo diventare un elegantone, e un freak fuori di testa, eccessivo, pazzamente brutale e assassino, il comico della situazione. Fosse per l’azione dionisiacamente spettacolare, sarebbe un altro colossale action movie del dopo Matrix, con sparatorie, proiettili-grandinata-di-morte e la scia dei bossoli che solcano l’aria. I corpi zampillano come in Tarantino, ormai implicitamente un classico come Dante. E’ l’avventura, ante e post Tarantinum natum. Gli inseguimenti inanellano la megalopoli di Los Angeles che qui si chiama Los Santos, con corse madornali tra highways a sei corsie, scorci urbani, semafori rossi e violati, viadotti, supermercati, fabbriche, hangar, strip club e grattacieli. Più America di così, si muore, e infatti la morte abbonda anche se con gli sberleffi del gioco. Alle calcagna degli inseguiti che sono anche inseguitori, le sirene della polizia, gli spari di mafia, esercito, adescamenti di  prostitute, i tossici agli angoli, l’aviazione coi missili intelligenti, i politici che incassano mazzette, e tamponamenti in fila come ciliegie, uno tira l’altro. Le macchine rubate senza sosta sbarbano i guardrail e balzano su improvvisi fondi terrosi, collinari, lunari, tra rotaie della metro e le profondità dell’oceano, finendo in un batiscafo rubato per poi rubare duecento milioni di dollari. Si cappotta in condotti fognari, fiumiciattoli, paludi, e stupisce che nessuno gridi yipyahee-yipyahoo e agiti il lazo come a un rodeo. L’avventura è un cavallo selvaggio, i camion si ribaltano e si ribaltano le auto sui camion. Da un elicottero sfugge al suolo il cassone con il gas nervino che dovrebbe essere posizionato, poi ci si riesce  e non è la fine della California. Ma esplosioni a catena, sparatorie con pezzi deviati dell’Fbi e centinaia di malviventi e poliziotti ammazzati come per una guerra civile non ufficiale, durante la quale la gente va al bar, a lavorare, fa sesso e i taxi arrivano in un attimo anche sopra una mulattiera. C’è una sorta di fondo morale: mentre sono inseguiti o corrono o sparano, i protagonisti criminali parlano e viene fuori che vendicano l’ingiustizia subita dall’America. Appunto, Tarantino docet: è uno splatter eccessivo per essere degno di turbamento: il sangue che esce dai corpi si posiziona immobile su giacche e camice, come se fosse unto. Basta entrare in un bar, prendere un caffèino e si torna sani. Se il vostro protagonista muore, molto meglio: nella Playstation morire conviene: c’è tutta la nuova vita da spendere! Si resetta dall’ultimo punto utile, ammaestrati dall’errore commesso (ad esempio, essere inconsapevoli di un’imboscata) e il successo arriva: riescono le rapine in banca, il furto in una grande gioielleria con il gas soporifero immesso nei condotti d’aerazione, l’omicidio tramite cecchino dalla gru di un cantiere, la pistola con silenziatore fredda il capo di una gang mentre entra nella suite del suo albergo tra le guardie del corpo. Stranisce continuamente che non sia un film, ma solo un videogioco. Che succederà tra pochi mesi, quando uscirà la PS4 e definizione e memoria saranno molto maggiori? GTA V è costato a Rockstar Games 250 milioni di dollari. Felicitatevi con loro: il gioco era attesissimo e il primo giorno ha incassato 850 (ottocentocinquanta) milioni. Niente sarà più come prima: il cinema di puro intrattenimento è arcaico,  defunto, non ha scuse per esistere. Se c’è da  intrattenersi senza pensare, meglio la playstation. Per molti giocatori tra i dieci e i quarantanni, Blade Runner sembra la casa delle bambole. Inutile girare kolossal d’azione,  o sedere in platea come nel XIX secolo, lo spettatore è giocatore e il giocatore è spettatore. Un piede è ormai in un nuovo tipo di narrazione, il racconto mobile. Il giocatore-avatar manipola il destino o ne è manipolato,  perde e vince, muore e rinasce. Il racconto è morto, oppure è nato un altro racconto tra fiction e reality.  Ci sono i dialoghi, uno tsumami di parole, e una cronaca mobile fitta di porte che si aprono, i destini, finché la storia mobile esaurisce le varianti e il gioco è finito. Si ride anche. Non a caso gli americani chiamano i fumetti comics: il videogame presenta legami profondi col vecchio comic magazine di ultravventura. Legami per l’appunto di sangue.