Schwed Racconta

QUALCUNO HA FATTO OUTING


Antropofagi al collinarea / Il teatro di Schwed e KaemmerleRecensione  di "Insalata con dita"     Ve la ricordate quella canzone dei Baustelle dove la voce di Bianconi scandiva: «Amiamo l’Uomo e il suo sapore / I signori e le signore / Il loro eterno roteare/ Come agnello nel kebab»? Ecco, se parliamo dell’ultima brillante pièce nata dalla penna molto caustica di Alessandro Schwed, alias Jiga Melik di Il male e L’eco della carogna, il testo di Antropophagus c’entra tantissimo. In uno spazio per noi completamente sconosciuto, una sorta di Getsemani privato vicino alla chiesetta della piccola frazione di Camugliano, in un’atmosfera bucolica quasi da rappresentazione sacra, abbiamo assistito a uno degli spettacoli più dissacranti in rassegna. Ma il Collinarea è anche questo: scompaginare le aspettative.  Insalata con-dita è portata sulla scena da Andrea Kaemmerle (attualmente in forza al Guascone Teatro), unico attore e regista dell’opera. Non sarà inutile anticiparvi sin d’ora che Schwed ha scritto quest’opera pensando proprio alla presenza scenica e alla verve comica di Kaemmerle.          Il risultato è che il tipico umorismo ebraico a cui ci aveva abituato Jiga Melik – spesso ai limiti del cinico – viene “addolcito” da Kaemmerle, che dialoga ampiamente con il pubblico, improvvisa, ricorre a espressioni del vernacolo fiorentino. A farne le spese è il fotografo Vincenzo, fotografo in prima fila, oggetto degli strali di Kaemmerle dall’inizio alla fine. All’inizio dello spettacolo siamo pochi e le zanzare ci divorano; siamo così pochi che Kaemmerle – appena entrato in scena – ci chiama “dodici apostoli con sessanta macchine fotografiche”. Dice che ci ha scelto dopo mesi e mesi di selezioni. Tutto è all’insegna dell’informalità, il pubblico risponde senza timori alle punzecchiature di Kaemmerle. Secondo le intenzioni iniziali del protagonista ci dovrebbe essere una confessione “za za”, diretta, «così ci si leva subito di culo». E invece una serie di fluide digressioni, parentesi su parentesi, scuse non richieste, travestimenti malriusciti, che fanno prender tempo prima dell’outing, un piccolo difettuccio che potrebbe risultare sconvolgente dal punto di vista morale.  n questa “macchina della giustificazione” l’inglese è un meccanismo fantastico, perché la parola “outing” in sé allenta la presa drammatica che potrebbe avere la confessione. Un po’ come accade per il “bird-watching”, per il “trekking” e tante altre attività che risultano essere più distinte nella dizione inglese. Provateci voi ad andare in un negozio e dire al commesso: «Scusi, io guardo gli uccelli, che abbigliamento mi consiglia?». Ma il vero grande motore nella macchina della giustificazione è “la ricerca della felicità”. Ebbene, tutti abbiamo diritto a essere felici, e ognuno può esserlo nel modo e nei tempi che gli sono più opportuni. La pièce di Jiga Melik è molto drastica nei confronti dei quarantenni infelici che si aggirano nella società. Insomma per essere felici si può portare un cane a cacare tutte le sere, oppure decidere di sottrarre una fetta di culo a un cadavere all’obitorio. Ed è questa la scelta del protagonista, concedersi quattro o cinque volte all’anno un po’ di sana antropofagia. Insomma, che male c’è? Tanto i cadaveri se li mangerebbero comunque i vermi. A questo punto, come recita Kaemmerle, non sarebbe meglio mangiarli noi, con il vino giusto e il pane giusto?Le risate sono tante, Kaemmerle è fantastico nella scelta dei tempi comici, ma il ragionamento che lo conduce dalla divagazione all’outing è serratissimo. Anche il tabù più tabù, attraverso un tritacarne di scuse, giustificazioni, argomentazioni, può essere infranto. Lo sanno bene gli ebrei, che conobbero Adolf Eichmann – gerarca nazista accusato di genocidio –, il quale si discolpò con la semplice scusa del dovere burocratico, che solo accidentalmente corrispondeva ad un crimine. “Non c’è niente di male”. E invece il male c’è, perché l’antropofagia di cui parla lo spettacolo non è il cannibalismo che si pratica ritualmente presso tribù selvagge, ma è la scelta quotidiana di mangiarci e lasciarci mangiare dagli altri. “Che male c’è?”, e intanto mandi all’aria un matrimonio per inseguire la carriera. “Ma non c’è niente di male”, e intanto ti lasci sfruttare con contratti a provvigione che ti divorano anima e coscienza. Cannibalismo come lotta sociale, come guerra tra poveri. Facciamo le peggiori azioni e le motiviamo sotto il nome di “ricerca della felicità”. Credere di poter mangiare la coscia dell’amica qui vicino non è assurdo. È normale. È giustificabile. È ciò che siamo diventati. È ciò che ci hanno fatti diventare. Ed esser diventati vegani non ci assolve da tutto questo.     Dal punto di vista del sottotesto le potenzialità di Insalata con-dita sono veramente tante. Non abbiamo fatto l’errore di scambiare l’ironia per facile cabaret. No. Perché abbiamo riso tanto, ma abbiamo riso con molte note d’amaro. La degustazione finale con carne bollita (buonissima) e vino ci ha permesso una vicinanza imprevista con Kaemmerle e con il resto del pubblico. Forse per una sera abbiamo mangiato qualcosa che non fosse il fegato d’un collega. Giuseppe F. Pagano