Schwed Racconta

Teche teche te, scene in bianco e neuro


 Un fantasma si aggira per viale Mazzini  (L’Unità, domenica 23 agosto 2015) di Alessandro SchwedSono molte estati che alle venti e trenta, appena sfuma la sigla di coda del Tg 1, nelle case sferraglia per decine di minuti il fantasma dei magazzini Rai. Trascina lunghe catene di scenette arrugginite,  un vampiro digitale che gozzoviglia coi resti dei comici del secondo dopoguerra e le corde vocali dei cantanti sanremesi in fila. Prima, il mostro della sera si faceva chiamare Da da da, poi venne la grande non-idea della Rai: riciclare.  Nacque, per così dire,  Supervarietà, che assieme a Da da da è una coppia di titoli shakespeariani, se messi a confronto con quello attuale, Teche teche te. Tre programmi identici in un decennio. Più che una trasmissione sul passato, un programma in bianco e neuro.  Uno stalker quotidiano,e mentre è buio, che i telespettatori stremati non hanno la forza di denunciare al numero arancione dei telespettatori perseguitati.  Basta. Sì, basta con la comicità di prima o poco prima,  basta con le  canzoni che furono. Il canone per Sordi e Villa lo hanno pagato i nostri avi, è assurdo pagarlo anche noi. Ma siamo lì in poltrona, affranti dalla fine del mondo che non arriva, il freddo e il caldo che si alternano ogni venti minuti. Siamo qui su Teche teche te perché il cane ha addentato il telecomando. Sono le venti e trentuno e la tivvù mi spappola in faccia cinquanta minuti di passato (di tivvù), con rade pause pubblicitarie. Ah quanto manca la pubblicità, quando c’è Teche teche te. Del resto, sono pochi i dentifrici e sciampo disposti a comprare uno spazio dove si vedono solo artisti defunti. Ormai i telespettatori dovrebbero sapere di questo scempio serale, ma ci ricascano ogni sera: per forza, chi se ne ricorda della sbobba. Non è che tutte le sere un poveretto può ricordarsi il palinsesto e alle venti e trenta invece di guardare la Rai si affaccia alla finestra perché se vede un gatto azzoppato è già più allegro di Teche teche te. E così ogni sera ricorre il due novembre.  Dovrebbero esorcizzare gli autori. O tentare lo scongiuro pubblico e chiamare la trasmissione teche tiè. Basta con questo continuo varietà e con le canzoni di mezzo secolo fa: se Little Tony e Walter Chari sembrano stanchi morti, il motivo c’è.  Bramieri appare dimagritissimo in bianco e nero, con il corpo di un’acciuga limata. Quando racconta una barzelletta, ripensi che fu costretto a lasciare il suo incarnato florido e dimagrire, non ridi. E c’è la Pavone col Geghegè: tutte le sere “abbiamo un riff che fa così”; il Tuca Tuca con la Carrà in pantaloni a campana e Sordi che ridice: spaghetti mi avete provocato e io ve magno. Raimondo Vianello fa un allampanato ballerino spagnolo. Monica Vitti ricanta “Dove vai se la banana non ce l’hai” e non la rivediamo mai nella Notte di Antonioni. Innumerevoli i Walter Chiari e gli Aldo Fabrizi, la Bertè giovanissima, il trio Marchesini, Solenghi e Lopez nei loro Promessi Sposi. Tutti così timbrati dentro di noi che non serve ritrasmetterli. Lasciateci la libertà di ricordarli quando capitano nel nostro petto. La parte allegra è la prima interruzione pubblicitaria. Sono passati tre minuti dall’inizio è il pubblico è sfinito. Quando finisce il castigo, si domandano  a casa. Bisogna capirli: hanno appena visto Claudio Villa che imita i Rokes con un casco da motociclista e la gente teme l’arrivo di una razza di alieni che si nutre di segatura. A proposito di segatura, pare che il titolo Teche teche te sia nato durante un brain storming tra dirigenti Rai ubriachi di gazzosa. Ma come direbbe il dottor Freud, la scena madre di teche teche te si annida nella profondità, nel cuore delle cantine di viale Mazzini. Qui, fino dalla fondazione dell’azienda, vive un funzionario senza giorno né notte che dorme con la testa sopra un cuscino imbottito delle barzellette di Carlo Dapporto. La sua vita si accende quando gli uscieri aprono la finestrella del seminterrato e finalmente ha un sentore di tubi di scappamento. La verità dolce è che teche teche te è venuto fuori perché è uno di quei gridolini che fanno sorridere i neonati; la verità feroce è che teche teche te è il suono di chi batte i denti dalla paura; la verità tiranna è che teche teche te è un gioco di parole nato dalla parola “teche”, i magazzini dove la Rai conserva tutto quello che ha mandato in onda dal 1954: telegiornali, varietà, sceneggiati. Non vi inganni il suono gentile del titolo, quel teche teche te. Dietro non c’è un mondo mite, ma centinaia di artisti trasmessi e ritrasmessi perché sono morti e non possono protestare. Prima di quella che potremmo chiamare trasmissione se non fosse un potage di sonnambulismo, la cosa positiva. La vista di Giorgino, lo speakerino azzimato del Tg1. Quando finisce il notiziario, dopo avere detto per mezzora Merkel e presidente di regione, mormora come una ninna nanna: “E ora vi lascio al teche teche te”. Come vezzeggiasse milioni di neonati: "E ora vi saluto col mimmi mimmi".