Schwed Racconta

Firenze 4 novembre 1966 / La mia alluvione


 Ai miei amici fiorentini  di Alessandro SchwedAvevo quasi quindici anni. C'era da giorni una pioggia fine, non che fosse allarmante, perché avrebbe dovuto, ma non smetteva. Quella mattina ho l'impressione che fosse festa, ma tutti riportano che era venerdì, insomma eravamo a casa e la mia impressione è che fosse una festa. Sul presto ci telefonò un amico di mio padre,  si raccomandava di stare attenti ed essere pronti a lasciare subito casa perché si era rotta la diga di Levane e sul Ponte Vecchio i gioiellieri avevano sgombrato tutte le botteghe.  Mio padre era assonnato, e ridacchiò. Guardò fuori dalla porta del giardino e disse: "Grazie, ma qui da noi va tutto bene". Dopo avere riattaccato però gli venne lo scrupolo, parlò con mia madre e mi mandarono in via Gioberti in drogheria a comprare due bottiglie di acqua minerale. Via Gioberti era vicina, andai. Nel tempo di sette, otto minuti mi trovai a tornare con l'acqua alle caviglie. Era gelida. Mi parve strana, tutta quella rapidità. Non sapevamo quello che si preparava, cosa fare, se salvare qualcosa oppure non c'era bisogno. Mia madre si mise a fare la carne macinata, dopo che l'ebbe cucinata, la mise in una pentola da portare via, ma via dove? pensai. Guardavamo fuori dalla finestra. L'acqua saliva. Cominciammo a pensare a salvare un po' di cose. Io salvai i libri di Salgari, i vocabolari di italiano, quello di latino e poi quello di greco. Vale a dire che li spostai sul pianerottolo del primo piano. A un certo punto l'acqua saliva ancora più in fretta e fu deciso di lasciare la casa, di  andare al terzo piano, dai vicini, e rifugiarci da loro. Venne fuori che loro, non so per quale motivo, avevano la chiave del secondo piano dove per qualche motivo i Bandini non c'erano. Entrammo e si stette lì. Passai tutto il giorno alla finestra, all'incrocio si era formata una barricata di macchine contro la quale cozzava qualche nuova auto in arrivo. Sul viale, passavano barche dei pompieri col motore fuoribordo e camion che rotolavano su se stessi come scatole di fiammiferi. Era divertente e allo stesso tempo pazzesco. Nel pomeriggio mi affacciai sullo stradino che portava al nostro garage e vidi il servizio delle nostre tazzine da caffè uscire dalle inferriate della cucina e poi andarsene in in giro come fossero delle barchette graziose. E se tutto era grazioso, non capivo come potesse essere tremendo.  La notte dormimmo sopra dei materassi sistemati sul pavimento di quella casa estranea ma potentemente salvifica. Eravamo nel buio e non avevamo pensato a prendere le candele. Sentivo mia madre piangere, il babbo la consolava. Mammai aveva paura che la casa crollasse e saremmo tutti morti. Da fuori veniva uno strano risciacquo, come se abitassimo in un piccolo porto. A me veniva da ridere, ma avevo paura e la cosa migliore era che venisse giorno e quella fiaba nera finisse. Il mattino dopo alle otto, si guardò fuori: l'acqua si era ritirata. Le strade erano coperte di nafta e mota. Agli angoli c'erano auto ammonticchiate a gruppi di sette, otto. Per qualche mese fu come un dopoguerra senza guerra, l'acqua razionata, le candele, il freddo e i cappotti regalati a chi non aveva più niente, ed eravamo in tanti. Due o tre giorni dopo che l'Arno si era ritirato, ero  passato con la mamma per Borgo la Croce. Su una saracinesca divelta la mano del proprietario aveva scritto a caratteri cubitali "CHIUSO PER NERVOSO".