Schwed Racconta

Meditazioni con il cane sul fatto della sedia alla fermata dell'autobus


 A zonzo con Hicks(28 luglio 2016, Huffington Post)Due volte al giorno io e il cane Hicks ce ne andiamo a camminare per Montalcino dove vivo da molti anni. Si va lungo il muretto ombreggiato di un viale che costeggia la Valdarbia e la Valdorcia. Uno cammina e vede il mondo come durante un volo a bassa quota. Piccolissime case, i fili sono vie che traversano i campi e le righe sui poggi vigne. Se poi la giornata è tersa, si vede Siena tremolare. Il fatto di camminare, l'ho appreso a Firenze dove sono nato. Me lo insegnò mia madre che mi portava a camminare a Piazzale Michelangelo, alle Cure Alte o al mercato di Sant'Ambrogio tra il meraviglioso odore delle patate e delle cipolle. Ora poi camminare mi sottrae alle immagini cupe che escono dal televisore, entrano in noi e rimangono.Infine, camminare rende allegro Hicks e così sono allegro io. Come tutti i cani uniti alla vita del diciamo così padrone, Xicks sa di me ogni cosa. Se ho una malinconia, anche se lui fosse in un'altra stanza, arriva di corsa e mi bacia. Sa tutto di chi vive in casa, delle abitudini, e poco prima di uscire, inizia ad accucciarsi, alzarsi, andare avanti e indietro. Presagisce. Il fatto è che noi due abbiamo un accordo non scritto in base al quale andiamo a passeggio due volte al giorno - dove dico io, non in fondo ai calanchi come vorrebbe lui. Sa il significato di frasi come ora esco e di domande assurde come "vuoi un osso"? Certo che lo vuole. Sa cosa significhi che appoggio gli occhiali sul tavolo e poi mi alzo: significa che sta entrando in vigore l'accordo e usciamo. Ma non voglio idealizzare Hicks. Se una volta usciti lui rispetta l'accordo, è solamente perché sta al al guinzaglio, altrimenti lo sa Iddio cosa succederebbe. Poi lui rispetta l'accordo in quel suo modo implicito che significa "sì va bene", ora però muoviamoci.La meta è il viale Roma, detto viale della Madonna, o con familiarità la Madonna per via del santuario a metà del viale. La passeggiata non è affatto facile solo perché Hicks ha le dimensioni di una valigetta. Il mio socio è buono e gentile, ma quando si mette per strada e va, getta la maschera e rivela chi è davvero: un rimorchiatore che mi porta in giro come un piroscafo ingolfato. Uno sconosciuto che ci vide da lontano sul viale della Madonna, quando fu giunto alla nostra altezza, si fermò e disse: "Vi osservo da duecento metri e non si capisce chi porta chi". In effetti, durante il tragitto d'andata le forze di Hicks sono dirompenti. Mi trascina, si pianta, riparte di scatto. Che devo fare, lo assecondo. È il suo momento. Annusa con estrema attenzione certi tronchi, ispeziona ciuffi di erba. Si strofina mugolando contro certi alberi suoi amici e di recente controlla sempre un paletto di ferro. Intanto, io mi godo un colpo di vento e se no sono raggiunto dalla faccia di quel ragazzo di Monaco che si è messo ad ammazzare la gente che faceva la spesa.Vorrei che mio figlio vedesse un tempo diverso e non questo, avesse una giovinezza rock come la mia. Nel frattempo non è così, succede sempre qualcosa, e mi domando quando finirà la guerra anche se per fortuna la guerra non c'è, ma purtroppo neanche la pace. Il cane riparte con uno strattone, nonostante io sibili: "Chi comanda?". Neanche mi guarda. È chiaro chi comanda, io no. È inutile sgridarlo, sta osservando un tordo, annusando un punto dell'aria e in certi momenti per stare tranquillo fa come me: finge di occuparsi d'altro. Inizia a guardare da un'altra parte. Dopo un po' gira la testa e mi guarda arrendevole: ha negli occhi lo struggimento di quando siamo nel bosco ed è proprio nella natura. Poi il tragitto d'andata giunge al giro di boa, la fermata dell'autobus in fondo al viale. Hicks decelera. È sfinito. Ha offerto tutti i suoi doni alla madre terra, è oggettivamente svuotato. A un tratto, è il fratello buono del cane d'andata. Va al passo, srotola la lingua sorprendentemente lunga e rosa e mi lancia rapide occhiate per sapere se io stia apprezzando il suo nuovo comportamento. Cosa mi stia dicendo, è chiaro: che comando io e che mi seguirà a questo ritmo blando da debosciato a costo di affrontare in piena notte il mastino nero dell'orologiaio.Comunque, adesso che è quieto, posso divagarmi. Osservo fin dove si allunghi l'ombra degli alberi, sento il colpo di una racchetta su una palla da tennis e la voce del maestro dire "bravo". Le auto sono rade, passa qualcuno con un altro cane e ci sorridiamo. Ed è una piccola pace. E così, giorni fa ero al giro di boa, la fermata d'autobus, e spirava un piccolo vento fresco. Mi giro per iniziare il ritorno e mi accorgo che sotto la pensilina c'è una sedia di formica marrone, parte organica della mobilia da cucina dei primi anni '60: una sedia integra, le gambe di metallo ancora lucenti. Del tempo in cui le credenze di legno furono sostituite da cucine con i ripiani nel nuovo materiale che cambiava il mondo, la formica. Non saprei da quanto, ma ormai le sedie di formica stazionano nei ripostigli, dietro gli sci; o riemergono alle tavole apparecchiate, quando ci sono tanti ospiti e le sedie non bastano. A riconsiderare gli anni della formica insorgente, oggi quella mobilia così lavabile non mi sembra granché, per quanto io ammetta di avere avuto un debole per la formica celestina e ancora oggi per quella verdolina. Sì, la verdolina mi piace. Ma a prescindere, che cosa ci fa alla fermata del bus quella sedia? Non è stata buttata via, è sotto alla pensilina dove mancano i sedili. È un tacito invito a sottrarsi alla fatica di aspettare in piedi, e chiunque sia stato a portare la sedia è stato gentile. Anche se poi è inutile e in giornata la porteranno via, la sedia. Perché è così che va: si pulisce, si separa, si mette ordine.Si butta quello che non combacia. Invece il giorno dopo la sedia è lì, e anche i successivi: immobile, sotto la pensilina. Come ce l'avessero disegnata. Sta lì, tacitamente accettata da tutti. Ci incontriamo alla fine del tragitto d'andata, io la guardo, lei non so cosa faccia, e devo dire che la pensilina le dona, anzi, che è lei a donare alla pensilina. È la sedia di Montalcino. Prima non c'era da sedersi e ora sì. E da oggettivamente bruttina che era, la sedia di formica marrone comincia a essere discreta. La stimo. Mi commuove. Emana una gran vita di provincia, emana pace. Perché scusa, mi chiedo mentre torniamo e Xicks va quieto sotto gli alberi della Madonna, cos'è la pace se non piccole cose che tutte insieme formano un quid che non sappiamo, ma c'è, ed è positivo. E faccio il volo pindarico baggiano di un tale che se ne va a zonzo col cane, ne imita l'istinto e sente l'odore di un mondo dove alla fermata del bus hanno messo una sedia per non stare in piedi, e magari da qualche parte sotto a una grondaia c'è un ombrello nel caso piovesse. Questo tale scrive che l'ha visto, una sedia alla fermata del bus, e un ombrello sotto a una grondaia, e la notizia gira.Forse è un'idea, forse una parola d'ordine. Allora altri fanno la stessa cosa, lasciano una sedia alle fermate degli autobus, un ombrello alle grondaie. Sedie e ombrelli per tutti. Comunque oggi quando sono passato dalla pensilina, lo schienale della sedia era messo tutto di sghimbescio, si era rotto. Speriamo che regga ancora. E poi senti, se non reggesse mettiamo un'altra sedia: anche non fosse di formica. E questa è la scuola sentimentale della pace.