Quando mi morì Jimi Hendrix ero a
novantuno giorni da diciannove anni.Stavo al mondo coi capelli più che
lunghi, i pantaloni più che rotti e l'aria
più che fiera.Penso che fosse mattina,
ero nel bagno con le piastrelle gialle dei
miei genitori, avevo fatto la doccia e stavo
ascoltando la radio. Poteva succedere
che durante la giornata, tra i programmi
per i gentili ascoltatori e gli avvallamenti
melodici delle canzoni italiane,
frangenti asfittici in cui dovevo
ascoltare "lei mi darà un bambino", venisse
su una chitarra rabbiosa - segnali
di esistenza. Perciò, niente di insolito
che il diciotto settembre millenovecentosettanta
stessi ascoltando la radio.
Ero sempre a caccia di rock. Dicevo
che mi sarei laureato sul blues, andavo
dal professore di musicologia, un esangue
esperto di Palestrina che intendevo
rivitalizzare ai colpi di armonica di un
musicista nero che si chiamava Howlin
Wolf, gli sciorinavo sul tavolo la bibliografia
intorno a Leroi Jones, quello de
"il Popolo del blues", e lui faceva segno
di sì. Com'è ovvio, in facoltà ci andavo
per occuparla, se no stavo sul prato del
chiostro di piazza Brunelleschi. C'era
una giovinetta molto bella coi capelli alla
Angela Davis che mi metteva le margherite
tra i capelli, e nessuno di noi
due aveva il coraggio di dire che era innamorato.
All'alba tornavo a casa dopo
avere ascoltato i miei amici dei gruppi
rock fiorentini che suonavano allo Space
Elettronic, un ex garage sotto la cupola
di un paracadute, dove per dire
suonarono i Canned Heat.
A un tratto, nel bagno giallo dei miei
genitori, una voce femminile dentro la
radio disse schietta che era morto Jimi
Hendrix. L'avevano trovato morto nel
letto (se no la vasca da bagno, ma la vasca
da bagno era di Jim Morrison. La
gente del rock è morta in bagno molte
volte e questo mio appannamento dipende
dalla mitologia, però anche dalle
condizioni della mia memoria). Non poteva
essere vero, ma quella continuava
a dire che Jimi Hendrix era morto a
Londra e poi che le autorità, il medico
legale, che il corpo del musicista, che le
cause, e che all'improvviso. L'unica cosa
che alla radio non dicevano era che
non poteva essere vero. Ero davanti allo
specchio, ero io, ero tagliato in due.
Che sarebbe successo da questo momento
in poi? All'improvviso mi trovavo
a un confine sconosciuto. Qualcuno mi
stava scacciando dalla mia terra.
Poi la radio deve essere passata ad
altro; fatuità; un varietà radiofonico; parole
dette da estranei che amavano le
canzoni di quel Dino. Stavo immobile,
senza fiato, come se mi avessero infilato
in un ascensore di ghiaccio e adesso
scendessi come un proiettile al centro
della terra. Ero lì davanti allo specchio
del bagno giallo, poi a un certo punto
devo avere lasciato un lamento, come
nelle tragedie; come quando un messaggero
porta la notizia che è morto Teseo,
è morto Achille, e dopo inizia il lamento
per il lutto, e gli uomini e le donne
camminano avanti e indietro, e le
braccia sono rivolte al cielo, e il cielo
non risponde, c'è solo la morte. Mi pare
che mia madre sia venuta di corsa alla
porta del bagno, che io urlavo "no". Ero
lì nel bagno giallo dei miei genitori che
credevo di essere a posto, uno già adulto,
e invece a un tratto dovevo imparare
a camminare. La mamma avrà chiesto
diverse volte che stesse succedendo
("Tutto bene?... Allora?..."), e io appoggiato
alla porta del bagno, dall'altra parte,
devo averle risposto che mi era morto
Jimi Hendrix. "...Ora come faremo?...
che schifo...". Non c'è niente di
più puro del melodramma dell'adolescenza
che finisce, una tenera parte invisibile
si stacca dal corpo e se ne va.
Ero lì allo specchio del bagno giallo,
stavo per divenire un giovane uomo, e
sarò stato sicuro in modo assiomatico
che non mi avrebbe potuto capire nessuno;
che noi saremmo stati soli per
sempre, tutta la generazione e io, ma ovvio,
più io che tutta la mia generazione.
Con la mamma avevo confidenza, nonostante
lo scarto tra i nostri interesssi
estetici. Lei: Cronin, Natalino Otto e
Giuseppe Verdi. Io la chitarra col distorsore,
PG Woodehouse, e il buon soldato
Schweyk. Lei avrà cercato di essere
complice, avrà fatto una di quelle domande
da mamma: "Ma come è successo,
quel povero ragazzo!". Solo che stavolta
non volevo sapere subito come fosse
successo - ma subito perché.
Lui era la centrale elettrica della musica
mondiale, ed eravamo rimasti al
buio. Senza Jimi Hendrix, senza la fender
bianca, con le corde rovesciate, da
mancino. Avrei pianto e nessuno mi
avrebbe capito, soprattutto gli amici di
incerta amicizia. Quelli che a un certo
punto si fermavano. Loro non amavano
Hendrix sul serio e io sarei stato un imbecille
solitario. Il giorno che al cinema
Ariston di Firenze avevano cominciato
a dare "Woodstock", alle tre ero già lì, e
degli amici nemmeno l'ombra. Avevano
da fare, sì, ma da fare che? Si può dire
che poi questi miei amici fossero divisi
in due gruppi, a parte la ragazza bella
che mi metteva i fiori in testa. C'erano i
finti vispi e i dormienti puri. I finti vispi
con i libri di Marx, le foto in bianco e
nero sviluppate nello sgabuzzino, Quaderni
Piacentini; i dormienti puri: e allora
gli esami dati con regolarità funesta,
tornare a casa e subito il telefono e
la fidanzata - come stai carotino? Se no,
in giardino a controllare le candele della
moto, o in cantina a rifare la parte del
basso in Penny Lane.
Io ero con Hendrix. Hendrix era l'esistenza.
Era "Sulla strada" di Kerouak
alla fine dei Sessanta; era andare alle
prove dei gruppi rock e infilare la testa
negli amplificatori Marshall per non
perdere il distorsore, e riconoscere alla
prima svisata se la chitarra era una
gibson o una fender. E quel giorno, al
cinema Ariston, i miei amici non c'erano.
Al primo spettacolo, c'erano seicentomila
persone sulla spianata, io e un
altro paio di capelloni. Dopo che ebbi
visto i Ten Years After, pervenni all'assolo
dell'inno americano, e sullo schermo
c'era solo la mano di Jimi che andava
sulla leva del distorsore e faceva
arrivare a Woodstock le bombe del
Vietnam, e dopo iniziava una musica
gentile e la spianata di Woodstock rimaneva
da sola, cullata dalla fender
bianca, e il film finiva sfiorato dalle
mani di Jimi Hendrix. Rimasi in platea
per tutte le proiezioni di quel giorno e
di quella notte.
Mi sono trovato nel mondo del rock
intorno ai sedici anni. C'era questo mio
amico, che si chiamava Guglielmo, aveva
la barbetta a punta e ascoltava solo
John Coltrane e Archie Shep. Insomma
il jazz più dolce e rabbioso che ci fosse.
Io ero interessato, ma sino a un certo
punto, non sentivo il segnale. Andavo in
cerca di qualcosa d'altro, e se avessi potuto
confessarlo, la scossa musicale l'avevo
ricevuta da Celentano. A Sanremo.
Si era presentato di spalle, si era girato,
e più che cantare come gli altri, aveva
quasi detto nel microfono: "Con ventiquattromila
baci". Avevo intercettato l'idea
e l'avevo messa da parte. Sicché
passano gli anni, e un giorno arriva a casa
questo mio amico Guglielmo, lo
strambo che ascoltava i barriti dei sassofoni
dalla mattina alla sera. Era venuto
a dire una cosa. A Guglielmo brillavano
gli occhi, i suoi erano di Milano,
aveva la erre blesa e a ripensarci era il
prototipo dell'appassionato di jazz.
Mancava solo che fumasse la pipa, ma
eravamo sui quindici anni e avevamo
appena smesso i pantaloni corti. La pipa
l'avrà fumata dopo. Mi fa Guglielmo,
mezzo ridendo come sempre: "Ho
ascoltato una cosa pazzesca. Ti farà impazzire.
E' tritolo". Era un trentatré
doppio dal vivo di un gruppo rock inglese.
I Cream. Andai da Alberti e lo
comprai a scatola chiusa, sulla parola di
Guglielmo. Tornai a casa e lo misi sul
Lesa. Dalle casse venne fuori lo sparo di
una musica finalmente elettrica: cioè
con un rapporto tra il suono e l'energia
che lo liberava. Ricordo di avere pensato:
"Ma allora questa cosa esiste!". La
chitarra di Eric Clapton cominciò a ringhiare
dentro a un impasto di libertà e
potenza lenta, e mi sentivo vivi i capelli,
le braccia, vive anche le scarpe. Poi
c'era un rombo, era Jack Bruce al basso,
dentro a delle sequenze discendenti
e ascendenti che avevo sentito solo nelle
fughe di Bach. E questo tormento della
foresta urbana, la batteria di Ginger
Baker. Era come ascoltare una intera
fabbrica che si era messa a fare il rock
col suono del cortocircuito. Una musica
vivente. Non ci potevo credere. Buon
Dio, esclamai con le mani sul volto, Guglielmo
è un santo. Sarà stata la fine del
1967, e avevo scoperto che la mia generazione
aveva una musica come nessuna
generazione ne aveva mai avuta.
Jimi Hendrix lo dovetti scoprire. Vidi
la copertina, comprai "Are you experienced?"
e me lo portaia casa. Non c'era
niente di più potente e forsennato,
ormonale e malinconico, umano e marziano.
Quello lì faceva parlare ogni angolo
delle emozioni della giornata, solo
che erano con le iniziali maiuscole: se
era tristezza, era la Tristezza, se era una
festa era la Festa. Non si poteva dire
che lui arrivasse sul palco e si mettesse
a fare dei pezzi sincopati, quello lo facevano
gli altri. No, Hendrix suonava, e
ti chiedevi cosa avessero fatto gli altri
per anni e tu con loro. Semmai era illogico
che a un certo punto la musica finisse
e lui se ne andasse, e noi rimanessimo
in mezzo alla casuale vita. Non
era accettabile che la corrente si attenuasse
su "off", lui eseguisse un inchino
e sparisse nel buio. E questa è stata
la mia prima giovinezza.
Casa nostra era a pianterreno. Aprivo
le finestre, mettevo il volume a livelli,
diciamo così, imponenti, poi partiva
"Foxy lady". Jimi alla fine del testo, diceva:
"Come on the Gipson", forza con la
Gibson, che poi era lui, e sotto forma di
chitarra, toglieva la museruola allo spirito.
Allora, dalle finestre aperte di casa
la sua chitarra se ne andava per la
via, e io speravo non solo per quella via,
ma che andasse in giro per tutte le vie
della città, poi in aria, verso le finestre
dei secondi e terzi piani, fino ai tetti. Volevo
che la gente sul marciapiede, quelli
sulle macchine che andavano a lavorare,
gli adulti dormienti, i vicini di casa,
tutti quelli che passavano, sapessero
che al mondo c'era il rock e che esisteva
Jimi Hendrix. Lo ascoltavo in piedi,
non ero così pusillanime da stare in poltrona
come se in tivù ci fosse stato il tenente
Sheridan, mentre sul pedale dello
wha wha era in corso "Vodoo Chile".
Stavo in piedi, se no camminavo per il
salotto. Con le mani mimavo la corsa
sulle corde della chitarra, prendevo un
scopa della mamma, la imbracciavo e
svisavo per tutto il bastone, e alla prima
lancinante svisata mi piegavo su me
stesso, mi rialzavo, scuotevo i capelli,
singhiozzavo, ridevo: era un'ascesi elettrica.
Non mi importava di essere ridicolo,
o inadeguato, o goffo e neanche ci
pensavo; anzi, non pensavo e basta. E
poi ascoltare Jimi e tenere la mani in
tasca sarebbe stato contronatura. Avevo
una chitarra acustica su cui a volte facevo
due note e un pomeriggio, ascoltando
"Wild thing", la spaccai sul pavimento.
Poi uscivo dal trance e andavo
alla finestra a vedere se qualcuno si stava
fermando ad ascoltare - non c'era
mai nessuno. Il traffico continuava a
scorrere; la città a farsi gli affari suoi.
All'epoca di Jimi Hendrix con i miei
amici partivamo e andavamo ai concerti
per tutta Italia. Io registravo con un
mangiacassette che spesso mi masticava
il nastro. Se il nastro si salvava, dalla
musica asfissiata dal fruscio, emergevano
i miei commenti. C'era la registrazione
di un assolo al flauto traverso di
Jan Anderson, quello dei Jethro Tull
che suonava su una gamba sola, come
un trampoliere. Anderson aveva questo
modo che ansimava nel flauto, e nel
mezzo dei singulti si sentiva la mia voce
nasale: "Mio Dio, è meraviglioso". Era
la mia protratta adolescenza. Una mescolanza
viscerale tra comico e tragico
e finì con la morte di Jimi Hendrix.
Ma in quel tempo che era vivo, ce ne
andavamo in giro io e un mio amico di
immensa mole, Riccardo. Aveva i capelli
nerissimi fino a metà della schiena, io
biondi e anch'io a metà della schiena.
Riccardo suonava il blues e il rock sull'organo
Hammond, e lo faceva molto
bene, io andavo a trovarlo e gli dicevo:
"Suona". La notte andavamo intorno,
nei locali e poi a cominciare il giorno
alla stazione. Ora, dato che ero parecchio
biondo, facevamo questo scherzo
di dire che io ero Johnny Winter, quel
chitarrista texano coi capelli bianchi, in
visita a Firenze. Ci credevano tutti e facevo
anche gli autografi. Aprimmo un
locale underground. Più che altro fu
merito di un ragazzo, era alto due metri,
un chitarrista fenomenale. Si chiamava
Aldo, detto Aldù, ma era Frank Zappa
che abitava in piazza Indipendenza, a
pochi metri dalla sede del Movimento
sociale, e la sera a riaccompagnarlo
avevo paura. Aveva la fender, suonava
con gli Zero e mescolava Giuseppe Verdi
al rock-blues. Il locale fondato da
Aldù si chiamava la Buccia, ma non esisteva.
Era la sala di una casa del popolo
dalle parti della fabbrica del Nuovo
Pignone. Durante la settimana c'erano
quelli del Pci a giocare a carte, ma la
domenica si passava dal tressette al distorsore.
Durò un mezzo inverno. Aprivamo
anche alle quattordici, e c'erano
trecento persone in fila. Suonavano due
gruppi, gli Zero e gli Elettric Mud, Letame
Elettrico. Io stavo davanti a un tavolo
che era messo sopra una spianata di
tavoli e mandavo le mie registrazioni di
rock. C'era la pasta al sugo e il biglietto
costava quattrocento lire.
Ma stavo raccontando di quel giorno
che mi morì Jimi Hendrix, che in televisione
e alla radio dicevano poco, e che
c'era un'arietta di scandalo. Mentre era
la fine dell'idea che la musica fosse tutto,
la sola polis, la sola politica, e la musica
stava per ricominciare a essere una
materia da affrontare seduti. Il giorno
dopo che era morto Hendrix, presto al
mattino, corsi dal giornalaio. Presi la
Nazione. Trovai la pagina. Leggevo in
mezzo alla strada, camminando, fermandomi.
Avevano pigiato la notizia
nelle pagine degli esteri, come se Jimi
fosse stato un semplice capo di stato, un
reucolo del belgetto. C'era un pezzo su
tre colonne e una stinta foto in bianco e
nero. Il titolo recitava: "E' morto Jimi
Hendrix, il famoso cantante di rock'nroll".
Era il secondo giorno che non c'era,
e già lo stavano riammazzando. Non
si rendevano conto che era passato Caravaggio
col plettro, e chissà quando sarebbe
successo di nuovo. La distanza tra
la Nazione e quello che io chiamavo
"noi" era incolmabile. Per l'appunto loro
erano una nazione e noi un'altra.
Noi la gioventù di Woodstock e loro una
tipografia!
Presi l'Olivetti di mio padre, misi
Band of Gipsies sul piatto Thorenz a
cinghia, Jimi alla fender, Buddy Miles
alla batteria, Billy Cox al basso, e c'era
"Machine Gun" e faceva tidatta tidatta
diridà, tidatta tidatta diridà. Mi misi a
scrivere il necrologio. Scrivevo, correggevo,
piangevo, riscrivevo. Quel giorno
non mangiai. A tarda notte il pezzo era
pronto. Il motivo per cui contavo sulla
pronta pubblicazione era che secondo
me era commovente e che casa mia si
trovava a duecento metri dalla redazione.
Era tutto veramente semplice. Bastava
attraversare il viale, costeggiare il
cinema-teatro Cristallo, ignorare le foto
in bianco e nero delle ballerine in bikini
con gli enormi glutei delle donne italiane
del 1970, attraversare un altro viale,
e impattare la portineria della Nazione.
La mattina dopo pressai in una
busta le tre cartelle sulla morte di Hendrix,
attraversai i due viali e arrivai alla
redazione. Mi avvicinai al vetro della
portineria e dissi al signore che stava
dall'altra parte: "Per favore, consegni
con urgenza questo alla redazione. E'
sulla morte di Jimi Hendrix", e feci passare
la busta dentro a un buco. Lui fece
un cenno col capo. Molto bene, pensai,
è fatta.
Il mio necrologio su Jimi Hendrix
non fu mai pubblicato. Può darsi che
questa sia la volta Buona.Alessandro SchwedIl Foglio,16 settembre 2006