Schwed Racconta

IL PRESIDENTE SANNINI


    
La prima volta che vidi Donato fu a Roma, in una sorta di grotta o pozzo, allestito sotto il teatro Alberico. Era il 1978, il pozzo era  l'Alberichino, piantato nelle profonde cavità di Roma, dove non potevano fare la guardia né Castel Sant'Angelo né la cupola paziente di San Pietro. Donato recitava in questo antro dostojewskiano, tra un forte odore di terra smossa e calce viva. Era un luogo indeterminato ed esterno a tutto. Il mio futuro grande amico declamava il suo umorismo in fondo a questo pozzo buio, la dogana teatrale tramite la quale si entrava nel regno che di giorno e di sopra non è percepito. Lì  era riuscita ad atterrare, ovvero, sotto-atterrare, l'eccentrica macchina dei nuovi monologhi, al plausibile confine fra catacombe e resti di ville patrizie. Dunque, se il teatro Alberico era in superficie e off, l'Alberichino era ancora più off, era off off. Si trovava così sepolto nel tufo che dalla superficie non giungevano neanche gli applausi del sovrastante Alberico.    Insomma, andai a vedere Sannini di cui si parlava in giro. Entrai. Presi posto. La luce vacua sulla piccola platea svanì. Niente era consono al luogo come quel momentaneo arcibuio, e prima infatti era stato come nei sogni sedersi in fondo a un pozzo, tra delle sedie vuote.  Il pubblico tossì perché quello rimaneva pur sempre un teatro, e si tossiva. Dal buio si passò alla luce: e c'era un uomo. Non alto; la barba folta e i capelli erano neri come il circostante pozzo. Capelli un poco lunghi, ravviati all'antica, col pettine e una passata d'acqua. Sotto il riflettore, il volto era latteo. Dal pullover blu, paricollo, spuntavano le punte aguzze di un colletto bianco. Indossava comuni jeans, fra le mani teneva un quaderno arrotolato. Sembrava un bardo irlandese. Recitò il monologo "Io e Majakovskij". Appariva serio, appariva austero; ma iniziò a parlare di vicende personali che intersecavano in  modo a dir poco minimale l'esistenza epica del poeta russo: era il tappeto volante di Donato e il pubblica sbottava in colpi di riso gioioso. Tornai più volte a vedere il teatro del volto di Sannini, e diventammo amici. Veniva a trovarmi al Male. Avanzava timido nello stanzino dove scrivevo: "Sandro...disturbo?". Scrutava con discrezione quello che stavo mettendo sul foglio della gigantesca macchina da scrivere. Osservato di sbieco il mio foglio, lanciata un'oziosa occhiata alla finestra, si concentrava: "Ceniamo insieme stasera?". Mi guardava, e aggiungeva: "Sandro". Per Donato, cenare con gli amici era la cosa importante e il simbolo del suo teatro avrebbe potuto essere la tavola imbandita con tutti gli amici intorno, immagine dell'agapé cristiana cui Donato in modo svagato ma perdurante e certo sembrava appartenere.   Ci trovavamo a cena  su un marciapiede storto di Roma. C'erano Carlo Monni, Daniele Costantini, e sulla tovaglia un amico vitreo: il fiasco del rosso. Più tardi, ce ne andavamo con il passo che talvolta esitava, e giunti alla macchina, mentre stava infilando la chiave nello sportello della 127 blu, Donato diceva: "Stasera, ho davvero esagerato". Non era preoccupazione, era il distico della sera. A tavola, non parlava molto. Stava rintanato in un assorto silenzio e affettava assennato la carne;  versava il vino ai commensali e a sé, e mentre la cena aveva corso, guardava la tovaglia, irreversibilmente pensoso. Osservava gli altri di sottecchi. Fingeva educato interesse  alle parole di qualcuno che la sparava grossa e che non faceva che parlare; più tardi, a casa, quando quello se n'era andato, ne difendeva le opinioni proprio perché erano indifendibili. Non che Donato fosse bastian contrario, aborriva i linciaggi.    Ma prima, a tavola,  iniziava la cena con un sorriso, che passando dal primo, al secondo, alla frutta da sbucciare paziente, declinava nella smorfia della catastrofe quando tutti si alzavano e la cena era finita: perché ecco, una volta che si era stati a tavola con amici, con nemici, con gli sconosciuti e i conosciuti, osti gentili e osti carogna, serviti da camerieri delle molteplici periferie romane, uomini col ciuffo appassito e il corsetto, quando tutto questo era concluso e la notte era fonda, cosa altro rimaneva se non rotolare a casa?  Ma nel mentre della cena, e della quotidiana comparsa di Sannini a Roma, aggrondato o lieve che fosse, Donato ascoltava il prossimo come non ho visto fare se non da certi frati. Per il resto, lui non apparteneva al mondo degli adulti che a tavola raccontano le prodezze sessuali, o se no le barzellette. Donato non diceva di sé. Di sé, diceva sul palco, dove c'erano poesie su ragazze come ninfe, spiate sotto una luce che poi era l'insegna di un bar. Ciò detto, era generoso, onesto e acuto. Nonostante l'apparente, e teatrale lentezza, era alacre: a patto che il lavoro si svolgesse nelle ore in cui saliva il suo tono, ma questo è degli artisti. Aveva un'idea, e l'avanzava con delicato entusiasmo, poi si faceva serio e guardava in giro: valutava se l'idea venisse amata. In ogni caso, avuta l'idea, diventava triste e taceva come se a un tratto si fosse ricordato di essere in lutto; come se pensasse di avere sparato senza uno scopo e oltretutto non fosse rimasto altro da fare.       Dopo il ristorante, andavamo a casa di Donato, dove abitava anche Monni. Ci sedevamo su delle poltrone-sacco che mi pare fossero azzurre e parlavamo di idee. Molti progetti non sarebbero stati attuati, salivano come bolle verso il soffitto e dopo qualche istante erano dissolti, ma qualcosa resisteva e avrebbe tentato di diventare teatro.     Qui non si tratta di rievocare quelle occasioni pubbliche note a tutti, gli spettacoli di Donato furono visti da tanti e con successo. Semmai, potrei dire della prima volta di Donato a un happening del Male, quando inscenammo di consegnare ad Andreotti il primo premio planetario per lo humor nero. Eravamo al Pincio. Come fosse un funzionario preposto esclusivamente ad amministrare la cerimonia, Donato fece un discorso di benvenuto preannunciando l'arrivo imminente della  delegazione spagnola, preannunciata a sua volta da numerosi squilli di tromba e schioccar di nacchere. La delegazione era continuamente sul punto di arrivare, ma non arrivava, e gli squilli di tromba si ripetevano. Poi parlò un generale della Nato con gli occhiali a specchio, era Charles Monnier (Monni) e voleva comprare immediatamente il Lazio. Poi parlò Benigni, poi venne la polizia. A proposito degli ultimi due, la polizia e Benigni, a notte fonda Benigni arrivava a via Bonghi come per un'imboscata, e faceva uno scherzo in cui Donato fingeva di cadere. Verso le due del mattino, suonava il campanello. Donato andava al citofono e si sentiva una voce gracchiare per la casa: "Sannini! Polizia!!... Apri!!!...Lo sappiamo che sei lì!..Apri senza tante storie, o veniamo noi e sono cazzi!!". Donato era al citofono e sbarrava gli occhi. Gridava: "Ragazzi, la polizia!!", Poi entrava Benigni e anche quella notte Donato lo accoglieva con le braccia conserte. Modulava un saluto al limite del bisbiglio: "Robertino...che piacere...mi ero davvero spaventato". Il piccolo pubblico presente rideva di Donato che prendeva per i fondelli Benigni della mancata beffa, e faceva come lo zio che si prenda bonariamente gioco dell'inesperienza del nipotino.    Donato era il Presidente. Prima che esistesse l'organizzazione non operativa denominata Socialista partito aristocratico, o Società per azioni, di cui divenne presidente, era già il Presidente. E questo perché primeggiava nel rispettare gli altri; non dava peso a chi scambiava il candore quasi mistico per dabbenaggine; apprezzava sorridendo, o dando l'impressione di sorridere, chi lo criticava. Poi magari esprimeva le sue riserve in esilaranti spettegolate che erano dei taglia e cuci teatrali, fatti più che altro per divertire gli amici. Il Presidente non umiliava beceri, asini e prepotenti; non sgomitava per andare a finire sotto i riflettori televisivi. Non urlava, se non in rari, incomprensibili frangenti, ad esempio se nella credenza era finito il tonno e Monni si era dimenticato di andare a comprarlo. Che allora, si sentiva la voce di Donato attraversare il corridoio, e cupa: "Carlo!...Il tonno!!", come se Monni avesse dimenticato di andare al funerale di un cugino. Donato era il Presidente perché dava come se non stesse dando, ma invece dava: idee, ascolto, pazienza, tempo, il tetto e la tavola, la lettura privata delle poesie di Gottfried Benn e di Cardarelli. C'era sempre qualcosa di prezioso in uscita da lui, come se la sua testa fosse il rubinetto di un costante, stillante dare. Era un giovane uomo educato in profondità, inadattabile a questo evo come un garibaldino senza più guerra di liberazione. Inoltre, il Presidente Sannini aveva la voce gentile; era gentiluomo in mezzo ai cannibali, ai ladri di idee, agli avvelenatori che finirono per ucciderlo. Perché Donato soffriva di spaesamento nello stare al mondo, ma casa sua era il porto dei diseredati, volti sconosciuti che facevano la loro comparsa in cucina, o apparivano dormienti in salotto, sfilavano in corridoio con degli occhi scavati e poi non si vedevano più. Donato si infilava discretamente la mano in tasca e con un gesto che non era ravvisabile, l'abitudine a dare in fretta, una porzione di denaro cambiava tasca. Il prossimo era il testo teatrale che Donato studiava. Ma vorrei prendere le mosse dall'Spa, da questa sua invenzione non teatrale in senso classico, ma assai teatrale, perché Donato ebbe la capacità di capire dove potesse arrivare il teatro mettendo una buccia di banana tra i piedi dell'ideologia. Non era satira politica, ma uno specchio dell'immensa sconfitta umana. Donato capì lo happening del Male e lo elevò. Se ne impossessò subito, dato che era una maschera naturale. Dovette solo fare l'altro sé stesso che veniva fuori appena c'era un'occasione per andare in scena. Donato era entusiasta di operare all'aperto, tra la cronaca. Colse come era importante fare un balzo ed essere subito dove aveva senso essere, e lì, in quel momento, accendere le luci e fare il commediante, con la sua forza di decomporre comicamente la realtà  e far brillare la miccia del riso. Nel 1981, l'anno che venni via dal settimanale satirico Il Male, ebbi la fortuna di essere con lui e lavorare con lui nel segno dell'amicizia e mi ritrovai a fare l'Spa, il nostro partito. Una forza politica appositamente esangue e fallimentare, concepita da noi due per noi due, esclusivamente per subire disfatte rovinose e mostrare la noncuranza  socialista e aristocratica. Una volta che il partito fu partito (uno dei nostri slogan), Donato si fece vedere molto poco, se non in qualche preambolo elettorale delle regionali-Lazio, in vista delle quali ci eravamo costituiti. A Teleroma 56, il Presidente parlò con allegria della nostra imminente disfatta. Sembrava un mistico precipitato nel corpo di un commediante. Il Presidente dell'Spa si vide in modo nitido solamente all'inizio delle regionali, quando ci recammo al congresso socialista all'Eur, con la Fiat 127 del Presidente, che era un po' come la 313 di Paolino Paperino. Una volta arrivati al Palazzo dei Congressi, distribuimmo i volantini scissionisti della federazione giovanile di Milano, che invitava ad unirsi immediatamente all'Spa. Donato si sdraiò per terra come un non violento gandhiano con la maglietta Lacoste, e si mise a fare il cadavere. Ogni tanto il suo braccio destro si alzava di scatto e porgeva un volantino a chi stava passando. Fece così anche Monni, ma la sua presenza era più corporea e  squisitamente ineducata. Il Presidente non compariva mai: semmai scompariva a settimane. "Ma si vedrà il presidente?", chiedevano alle Tv libere romane. "Chissà", dicevo con un sorriso svagato. A Donato non interessavano tanto le elezioni regionali, quanto immergere la punta di un piede nello stagno chiamato Regionali-Lazio, ritirare inorridito il piede e protestare perché l'acqua era troppo fredda.      Non era semplice, tutto questo nostro non fare. Dovevamo avere riunioni di lavoro. Donato estraeva un quadernuccio a quadretti, spiegazzato, e si dava a scribacchiare con la bic, blu e sfinita. Buttava giù righe distratte, come se fosse stato un barone che faceva occasionalmente il conto al banco della verdura. Scriveva,  e gettava un'occhiata di sottecchi per vedere se avessi notato la perfezione ieratica della disgrazia di fare il conto. Perché quando c'era da lavorare, recitava anche in privato: era sempre in parte. E non era l'uomo del grande teatro, ma il grande teatro tutto in un uomo. Ecco come avvenne la sua nomina a Presidente dello Spa, che è quanto si deve fare per ricostruire una stagione artistica come quella: raccontare i dettagli, le ombre, non i massimi sistemi. Perché, se avete notato, i massimi sistemi sono sempre quelli, e le persone cambiano, diverse come sono tra loro. E Donato era unico. La sera dell'acclamazione a Presidente, a casa sua c'eravamo noi due.  Donato mi disse: "Che ne diresti, Melik - quando c'era da lavorare mi apostrofava col nome d'arte, se no mi chiamava Sandro - che ne diresti, Melik, se fondassimo il Socialista partito aristocratico, o Spa, Società per azioni?".  L'idea era bellissima. "Va bene -  dissi - tu potresti fare il presidente per acclamazione dell'assemblea dei soci".  "Ma non ci sono ancora i soci", fece notare Donato che quando voleva, aveva i piedi per terra. A tale obiezione, feci contro-notare che se per questo ancora non c'era neanche il partito. "Ma che deve fare il presidente del Socialista partito aristocratico?" - mi chiese con un'ombra di incipiente preoccupazione. Gli dissi che il Presidente non doveva fare niente, ci mancava anche questa; se un Presidente fosse stato costretto a lavorare, sarebbe stato un pessimo esempio per tutti. E Donato fu  Presidente del Socialista partito aristocratico.   Dopo la nomina, mangiò una scatoletta di simmental.   Avevo letto della vita ribaldamente bislacca di Jarry nei bar di Parigi, e Donato mi pareva Jarry senza la pistola per sparacchiare, paracadutato a Roma: umorista e umorale, creatore di un personale re Ubu e una realtà parallela intrinsecamente non violenta, capitale umana di una dolce nazione di marmellata di bosco. E a questo proposito, l'inoffensività di Donato, ecco che accadde al secondo festival internazionale dei poeti, a Roma. Era un periodo più che successivo allo Spa. Donato era stracolmo di un'invincibile tristezza. Aveva inaugurato un suo continuo soliloquio di cui si capiva poco, perché era pronunciato più dentro di sé che fuori da sé, e quel che si sentiva a malapena, era a fior di labbra. Il mio grande amico ormai era sempre più ingovernabile e avulso. Una sera, doveva recitare poesie con l'attore e poeta Victor Cavallo, un protagonista di quegli anni, artista dalla vita eccessiva. Come un cospiratore, Donato mi disse in un canto che quella sera finalmente avrebbe fatto qualcosa contro qualcuno. Non capivo contro chi avrebbe potuto fare e poi non mi pareva possibile. Ma temetti, e mi posi vicino a lui. A un certo momento delle letture, quando fu il momento di declamare, Donato estrasse un minuscolo temperino, con una lama talmente infinitesimale che non era possibile vederla. Chissà dove se l'era procurato.  Alzò il temperino come fosse stato il coltello luccicante di un film di Brian De Palma, dove, nella notte, un'ombra aggredisce qualcuno in un parco, ma l'aggressione implode perché la lama è troppo piccola e l'omicida rimane sorpreso di non sapere come aggredire la vittima. L'effetto era esilarante e tragico. Il Presidente stava male e proprio in quel momento fece qualcosa di bellissimo.   Nel 1981, il Male aveva indetto una pubblica manifestazione di tre giorni al Testaccio, "Miseria '81". Si trattava di allestire al Mattatoio rappresentazioni che avessero come tema la noia mortale a Roma. Con Donato decidemmo di andare in cima al Monte dei Cocci, la collinetta del Mattatoio fatta di un cumulo di cocci  rotti e vetri, accumulati in decenni di vita testaccina; una volta giunti "lassù", cioè sessanta metri dal livello del mare, ci saremmo rivolti al popolo e avremmo elargito i sedici comandamenti. Donato ne scrisse dieci. A me ne vennero sei.  Per questo i comandamenti furono sedici.       Su un modesto mangianastri fu registrata la voce di Monni che faceva Dio e diceva sedici comandi. Non vi era niente di blasfemo, era una rappresentazione della modestia della condizione umana, posta di fronte alle stelle così lontane e a qualsiasi pensiero su ciò che si dovrebbe fare. Dei comandamenti di Donato, ricordo questo: "Non desiderare la roba d'altri...scusa, ma che devo desiderare la mia di roba, che ce l'ho già??!".  La cosa si presentava semplice. Si sarebbe svolta di notte,  noi due saremmo stati in cima al Monte dei Cocci, illuminati da un fascio di luce, lontani e mitologicamente insignificanti. Il pubblico/popolo sarebbe stato sotto, nell'arena, ad accogliere la legge, e la voce preregistrata di Monni avrebbe scandito i sedici comandamenti.  Quando venne il momento, ci mettemmo addosso un lenzuolo per dare una patina storica all'avvenimento.  Si offrì di accompagnarci un artista non ben definito del teatro off romano, che poi nella vita faceva il ladro di appartamenti.  Disse che ci avrebbe accompagnato dato che l'erta che conduceva in cima al Monte dei Cocci era impervia, soprattutto al buio, e con tutti i cocci che c'erano se uno ci fosse cascato sopra si sarebbe fatto un gran male. A sentire questo, Donato cominciò a innervosirsi: la tentazione di lasciar perdere si fece forte; credo che in realtà lo mettesse di cattivo umore l'umore greve della folla: quell'aria presuntuosa e di scherno totale e a prescindere, lo contrariava. Ma evidentemente volevamo andare, perché poi andammo. Scortati dal ladro di appartamenti, che aveva una torcia elettrica e la spianò nel buio, prendemmo per l'erta e ci avviammo come per un safari, vestiti tutti e due da Mosè. In effetti, la via era sia accidentata che scoscesa. Procedere non era uno scherzo, ma una piccola scalata da compiere andando gattoni, appoggiandosi in modo casuale sul terreno dato che il ladro puntava la torcia nei punti sbagliati. In ogni caso,  dove era possibile mettere le mani, non solo c'erano dei cocci, ma si presentavano ortiche. Quanto alla salita, noi due non eravamo certo sportivi. Donato procedeva davanti a me, un po' appesantito, e ansimava brontolando senza sosta per le ortiche, i sassi, i cocci, il caldo, il sudore, l'arsura, il fastidio del lenzuolo che faceva inciampare e la mancanza di luce, commentando che era una cosa del tutto inutile, quella che stavamo facendo, una vera follia, un suicidio, l'estinzione del teatro e di due poveracci venuti dalla Toscana. Mentre salivamo, a breve distanza del mio busto piegato in due che procedeva, c'era Donato, di cui sentivo la voce costantemente  maldisposta all'impresa.  Il suo corpaccione a un certo punto  prese a sdrucciolare e tornare indietro, e dopo alcuni infruttuosi tentativi di procedere la sua voce passò dal brontolio precedente a una serie di imprecazioni che si andò allungando a un punto tale da sembrare che invece di respirare come fanno tutti, lui dicesse parolacce. Eravamo bloccati e Donato non smetteva di dire parolacce. Il ladro di appartamenti che ci doveva accompagnare, invece di dedicarsi al suo compito, che era illuminare la via, iniziò a ridere dello sproloquio infinito di Donato. La torcia elettrica prese a tremare per via delle sue risate, a un certo punto cadde e rotolò dabbasso, tra i cespugli, verso il punto da cui eravamo partiti. Rimanemmo al buio, su quella china, e il buio era denso. Chiedemmo al ladro se mancava tanto alla cima. Non rispose nessuno. Lo chiamammo ancora, urlammo il suo nome: niente. Se n'era andato. Si prospettava la possibilità, se non volevamo rischiare di cadere rovinosamente di sotto e morire, di fermarci a mezza costa, o dove ci trovavamo, e aspettare  il giorno. Mentre stavo cominciando a chiedere scusa a Donato per averlo coinvolto in qualcosa del tutto  priva di controllo, gli feci d'altra parte notare che c'era qualcosa di magnifico in tutta la situazione, e che poco prima, mentre salivamo e lui sacramentava, avevo pensato che un giorno avremmo raccontato la nostra avventura, quella tarasconata senza pari, ai figli e ai nipoti, e sarebbe stato magnifico. E infatti, è magnifico."Sandro...Sandro", disse Donato. Credevo che stesse rimproverandomi, invece mi faceva notare che si vedeva l'arena illuminata ed eravamo arrivati. In cima alla collina poi, davanti ai nostri occhi, si ergeva una gran croce di legno, fatta alla buona, che dominava il Mattatoio senza che nessuno lo sapesse. Il Presidente era avvolto in un lenzuolo bianco e ora me l'indicava. La registrazione della voce di Monni cominciò a scandire i sedici comandamenti, la folla rideva lontana e quello che avrebbe dovuto apparire magnifico, pieno e realizzato, era vuoto e miserabile. Donato si era messo contro la croce e più la piccola folla lontana rideva, più il suo distacco diveniva totale. Mentre le risate bucavano il buio e giungevano sino a noi con un'eco rallentata, come se il mondo fosse lontano migliaia di anni, Donato cominciò a fare il saluto romano alla folla che rideva ai comandamenti, rideva a Donato in croce, rideva di tutto senza un vero perché, e il mio amico e io ci mettemmo a gridare a perdifiato alla folla: fascisti, fascisti. Il mondo stava precipitando su di noi. Sembrava che non esistesse più alcun rapporto tra le risate lontanissime che avevamo generato noi stessi, e l'effettiva vita.   A scendere, si fece alla svelta. La gente faceva complimenti e i nostri lenzuoli erano coperti di fango.  Al Verano, ad aspettare Donato Sannini all'uscita della camera ardente, eravamo in quattro: Ulisse Benedetti, direttore artistico del Beat 72, Carlo Monni, Daniele Costantini, e io.  Gridammo "Viva il presidente", perché il Presidente continuasse a vivere.   ALESSANDRO SCHWED ( dal libro "CHI DIO? LA POESIA? MISTERIOSAMENTE " Titivillus editore)