Schwed Racconta

Giornata della Memoria - Intervista del Messaggero Veneto ad Alessandro Schwed


     
NARRANDO DIVENTEREMO LE CANDELE DELLA MEMORIAAlessandro Schwed, fiorentino, famiglia ebraica di origine ungherese, negli anni Settanta fondatore di radio e circoli underground, è Jiga Melik come storica firma della satira, da Il Male in avanti. Scrittore di romanzi, collabora con Il Foglio e con il Secolo XIX. La sua storia personale s'intreccia alla Shoah: tredici i famigliari perduti nei campi di sterminio. Dal suo romanzo del 2005, "Lo zio coso", è tratto lo spettacolo, regia del triestino Alessandro Marinuzzi, ospitato da Akropolis, stagione del teatro Club di Udine, domani alle 21 al Palamostre, per "La Shoah e oltre". Titolo, "Alla ricerca dello zio coso". Coso..., qualcuno in quel romanzo è rimasto senza parole. Dice Schwed: "Alla morte di mio padre ho temuto che scomparisse con lui il legame di tenerezza che mi univa alla generazione precedente, mentre mi narrava della sua vita. Così ho smesso di resistere ai ricordi e ho cominciato a scrivere, attingendo ai miei elementi personali: ho parlato della discesa verso l'abisso della Shoah, sperimentata dalla mia famiglia. Mio padre scampò con la sorella al lager, ma molti nostri famigliari morirono. Il risultato è il racconto di un viaggio in Ungheria che si articola attraverso incontri e reminiscenze confuse, compiuto da tre ambigui personaggi maschili. Il 'coso' narrante incontra il 'coso' negazionista in treno, durante la ricerca di un parente sopravvissuto allo sterminio della sua famiglia. In bilico fra Ungheria, Italia e Israele, decide di scrivere la sua storia e quella dello zio coso, quello vero. Ne verrà fuori una atroce e paradossale caduta nell'oblio, in cui l'io narrante perde addirittura le caratteristiche individuali, perfino le parole, e finisce per confondersi con l'ambiente circostante". Una satira antinegazionista che fa riflettere sui fantasmi del passato, la tentazione di credere che niente di quanto raccontato dai sopravvissuti sia mai esistito e che rivela gli incubi del presente. Ma com'è la Giornata della Memoria per Schwed, quali sono le sue paure? "Temo che il passato scompaia. Che non rimangano strumenti per le generazioni future. La memoria non si commemora, si evoca. Per farlo, occorrono degli sciamani che recuperino la storia. Gli artisti sono spesso i più adatti a farlo, per questo ho amato questo progetto teatrale. Quello del popolo ebraico è un dramma che riguarda l'intera umanità, perciò può, deve essere ricordato attraverso le persone. In Israele c'è un modo per identificare i figli dei Salvati. Gli uomini e le donne che consumano la propria esistenza raccontando cosa è accaduto si chiamano "candele della memoria". Il 'mestiere' delle vittime poi è spaventoso, è un contagio che scivola spesso in patologia, in malattie che passano da una persona all'altra, perché evocare il male continuamente, è terribile. Anche il mio giorno della memoria è doloroso e mi sconvolge, ma nonostante questo credo profondamente che raccontare sia mio dovere". La necessità di raccontare, di fare gli altri partecipi dell'indicibile, da Primo levi a Boris Pahor... "La memoria umana - sottolinea Schwed - è uno strumento meraviglioso e fallace. Negare l'esistenza dei lager è una follia inventata per allontanare quell'orrore. Lasciandoci attraversare da quello che è successo, anche attraverso le parole del teatro e della letteratura, diventeremo noi stessi memoria vivente".Fabiana Dallavalle Il Messaggero Veneto, 26 gennaio 2011