Blog
Un blog creato da Jiga0 il 21/11/2010

Schwed Racconta

Su e giù per la tastiera

 
 

ICONA RIVISTA IL MALE

 

JIGA MELIK E IL SIG. SCHWED

 

Jiga Melik è l'alter ego intermittente dello scrittore Alessandro Schwed. Il signor Melik nasce nel 1978 nella prima e provvisoria redazione del Male, un ex odoroso caseificio in via dei Magazzini Generali a Roma. Essendo un falso sembiante di Alessandro Schwed, Jiga Melik si specializza con grande naturalezza nella produzione di falsi e scritti di fatti verosimili. A ciò vanno aggiunti happening con Donato Sannini, come la consegna dei 16 Comandamenti sul Monte dei Cocci; la fondazione dell'Spa, Socialista partito aristocratico o Società per azioni, e la formidabile trombatura dello Spa, felicemente non ammesso alle regionali Lazio 1981; alcuni spettacoli nel teatro Off romano, tra cui "Chi ha paura di Jiga Melik?", con Donato Sannini e "Cinque piccoli musical" con le musiche di Arturo Annecchino; la partecipazione autoriale a programmi radio e Tv, tra cui la serie satirica "Teste di Gomma" a Tmc. Dopo vari anni di collaborazione coi Quotidiani Locali del Gruppo Espresso, Jiga Melik finalmente torna a casa, al Male di Vauro e Vincino. Il signor Schwed non si ritiene in alcun modo responsabile delle particolari iniziative del signor Melik.

 

 

 

MIO FIGLIO MI HA AGGIUNTO SU FACEBOOK - ROMANZO

libro

 

  locandina

 

LA SCOMPARSA DI ISRAELE - ROMANZO

LA SCOMPARSA DI ISRAELE -  ROMANZO

 

AREA PERSONALE

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 

FACEBOOK

 
 

 

« Un tesoro nel mezzo d'agosto

Ti saluto paura

Post n°121 pubblicato il 05 Giugno 2017 da Jiga0
 

 

Io bene, ho girato, sì, Roma, poi in campagna. Mi sono sposato, un figlio. Uno. Tredici anni. Diciamo editoria. Tu?  Ah, ah, interessante. Guarda, è un caso che sono a Firenze, sì, non ci volevo più venire, poi a febbraio sono tornato, e oggi di nuovo. Ma per parecchio pensavo di non tornare più, mi era successa, beh, una cosa. Tre anni fa. No, non è una cosa razionale, è che,  no niente… - vorrei dire che ci sono zone sottili, al di fuori del normale controllo, e che a questo punto devo stare in guardia - Sembra fatto apposta, vero, esserci incontrati proprio alla stazione di Firenze? che siamo tutti e due di questa città, e tutti e due ormai lontani da qui. Ricordi che trentanni fa la mia famiglia poi è partita, e anche io me ne sono andato?…come? no, morti. Grazie. I tuoi?… ah…Non lo so, è un guscio vuoto.  E’ rimasta come una sospensione. Passo per le strade,  e quello che…no, no, vai! ci mancherebbe - ecco, sei andato a comprare il giornale, sono nella  libertà a metà di essere soli, e penso che il tuo volto è sparito e che quando ti ho visto, volevo dirti: come, ma sei tu? Prima, se non avessi smesso di parlare, ti avrei detto che qui, per le strade, ho timore. Quello che era, si risveglia, e devo stare in guardia. Il tempo di una volta si avventa. Nel perimetro delle porte e dei ponti viene il passato, ha proprio la voce, e ha proprio una lama. E io ho il buon senso di avere paura. Sei dal giornalaio, ti guardo essiccato comprare i cruciverba. Il tempo è onnipotente: siede, e regna con sprezzo - Allora, c’erano i cruciverba? Lo sai che ti trovo benissimo? Sì, ti stavo dicendo che a Firenze sto in guardia. Vado a San Niccolò e controllo che la porta della città sia lì - ti guardo, ma penso a quella porta di legno che stupisce, inverosimile in una casa e piccola per una città, porta reale davanti alla torre, che girerebbe sui cardini, col chiavistello, e a sera, ci fossero sentinelle, chiuderebbero a chiave la città. Alla stazione le voci rimbombano, e penso a questa città della misura di una casa, per salotto il centro, e divani le colline. Controllo se ancora si vada a pranzare ai capannoni di ferro dei mercati, nella pioggia dei ganzo. E che ai ponti sulla ferrovia giunga il boato dello stadio. Vedo che tutto sia in ordine, dentro di me e fuori di me. Le mura dell’Erta Canina sono pur sempre quelle, ma la campagna forse è in disordine. E penso che dopo va bene che ci salutiamo con una stretta di mano, e la promessa di sentirsi presto. Non so se ti parlerò per davvero,  mi devo pure difendere. Ti dovrei raccontare che tre anni fa, un mattino, mi sono preso paura sotto al disegno bianco e nero del Battistero. Ero stato imprudente, ero solo. In piazza San Giovanni, accanto al portone dello studio di mio padre, a un tratto, come un proiettile,  in un impulso crudo, mi infilai per quel portone come fossi stato risucchiato da una corrente - da un potere. Da trentanni, non varcavo quella soglia. Da quando mio padre era partito e aveva lasciato il secondo piano - dalla piazza guardo ancora la finestra. Mi trovai a quei primi gradini bianchi, appena filati di rosso, come capillari sotto la pelle delicata del marmo. Salivo, prima del mezzanino, e assaggiavo il ricordo. A un tratto sento un odore acre, miscela di materia e sentimenti, trattenuta nell’aria, e vengo a sapere. Qualcuno, per generazioni, ha continuato a lavare le scale con la segatura, l’ha mescolata allo stesso  sapone, una marca che passa da un millennio all’altro, e a momenti finivo con le narici ricolme dentro al tempo di prima, un cosmo inerte. Brusca partenza, da astronauti.  Vacillai sino al muro,  mi appoggiai alla ringhiera. Le pareti oscillavano. Pensai: muoio solo, in questo purgatorio di candeggina. Al mezzanino, c’era l’ascensore di legno scuro, e fui in cabina, al riparo. C’era la scatola per le monete con scritto Lire 10, e l’avviso ai fornitori di fare uso delle scale. Lunga la vecchia corda, l’ascensore si issava. Mi trovai sul pianerottolo di mio padre, sfocato dallo stesso neon, a quei tempi si saliva in penombra. Invece di studio dentistico, c’era scritto società di assicurazioni. Meglio perché stavo per bussare alla porta e vedere se mio padre fosse lì, non morto, ma vivo di nascosto. Occultato da decenni nel centro di Firenze. Scesi di corsa, passando dall’ombra al guizzo,  e nel folto della piazza pensai di non tornare più. Che non avrei fatto ritorno sui passi di prima, e avrei vissuto come tutti nel semplice dopo. Che se davvero mio padre fosse venuto alla porta, cosa gli avrei detto? ah, eri qui. E’ questo il regno dei morti? - Sicchè ti dicevo che a fine di febbraio ci ho ripensato e sono tornato a Firenze. E una mattina ero in centro, hai visto, che ho quell’andatura a testa china: che hai da ridere? lo so come cammino, mi sono visto in un filmino - potrei dirti che sembro uno che mentre cammina, cerca qualcosa per terra. Ma sto zitto. Non dico che quella mattina per la strada stavo pensando a voce alta, e muovevo un po’ le labbra. Che se mi accorgo che mi vedono mentre parlo da solo, faccio finta di stare al cellulare, e che parlo con qualcuno. Non mi va che credano che sono uno solo. E come ci cascano. Invece, quando non c’erano i cellulari, mi mettevo a  fischiettare. E ti direi che quando penso è come se stessi a casa. Penso per queste strade di prima e sono in una casa dentro alla mia casa. Penso e sono in pace, parlo e sono in pericolo - e sicché, a febbraio arrivo in piazza San Giovanni, sai, alla farmacia, accanto al portone dello…studio di mio padre, sì…come fai a saperlo? ah i tuoi erano clienti, e ci andavi da studente, non lo sapevo, e che ti diceva mio padre? Era gentile, ti sorrideva, bene, sono contento, sì mio padre era così, era gentile. Ma ora ascoltami, perché io…niente…Quando ce l’hai il treno? Allora va bene,  ascoltami: ce la facciamo. Ero lì sotto il portone di mio padre, no, e sento questa voce lontana: “Biondooo!”. Smetto di andare, e guardo in giro per vedere se vogliono proprio me, perché d’accordo, io prima ero biondo, ma ora si vede molto meno, e non si capisce se sono biondo oppure ho una certa età e basta. Non sono uno da chiamare biondo. E allora guardo se cercano me, e non vedo nessuno. A parte che con tanti biondi che camminano in giro perché devono gridare biondo proprio a me? Ti confesso: ho pensato che era un equivoco - ma non è vero, non confesso nulla. Se no direi che avevo paura perché ero sotto al portone di mio padre e mi stava di nuovo succedendo  qualcosa. A te dico quello che fa comodo,  per lasciarsi senza essersi toccati. Tu non vieni da quel meraviglioso prima, sei arrivato poi. Hai studiato, sei emerso, fai avanti e indietro con Londra, e quando parli, non capisco. Perciò mi sono fatto furbo, limito i miei discorsi. Prima sì, dicevo tutto. Ora penso tutto, e quando parlo, dico la metà della metà. E non ti dico che quando ho sentito biondo, oltre alla paura di un’altra imboscata, un’imboscata ancora, nella città sospesa, in me si era formato un soldo di speranza. No, non te lo posso dire – E così, no, attraversavo via de’ Cerretani. A parte, scusa, che una volta mi chiamavano spesso biondo, ma prima: capisci, prima. Ora però chi poteva essere, ora? E dai, che risento quella voce: “Biondooo!”. Mi fermo. Guardo a destra, guardo a sinistra. Niente. Poi, non so perché, guardo l’orologio - invece lo so: lo guardo sempre perché ho paura che succeda qualcosa di importante e io non so che ora sia. Nei libri di Storia ci sono le date delle battaglie, nella vita delle persone ci sono le ore. L’ho scoperto a un certo punto, prima non era così, prima un giorno alzavo la testa e avevo finito di leggere un romanzo. O c’era l’odore del caffè, e mia madre si era alzata. Poi mi sono accorto che le cose succedevano non di mercoledì o lunedì, ma alle cinque, alle sette, e quando è nato mio figlio, ho guardato l’orologio. Non era proprio il 1994, erano le quattordici e ventisette - Guarda, te lo giuro su quello che vuoi:  non so affatto perché ho guardato l’orologio. Certo, era  mezzogiorno meno quattro. La gente faceva la fila per camminare, e al semaforo c’era una siepe di teste. Aspettavano di attraversare in punta al marciapiede. E al chioschetto dei giornali, c’era la fila. E mi pareva che in quella piazza universale fossi l’unico fermo perché l’aveva scelto. Ero fermo e guardavo chi avesse detto biondo proprio a me, e anche nelle macchine che passavano, guardavo, però c’era il rumore del traffico, e pensavo a come avrei fatto a sentire se uno avesse di nuovo detto biondo. Ma di nuovo: “Biondooo!” -  e qui c’è un’altra cosa mia, che il rumore del traffico sembrava un ultrasuono, e sembrava che la terra si stesse per aprire sotto alle scarpe, e mi veniva la nausea come sulle scale di mio  padre tre anni fa, e pensavo sono accanto al portone, quel potere sconosciuto sta su di me, e non posso farci niente - e insomma niente, avevo attraversato via de’ Cerretani.  Ma appena sento la voce, “Biondooo!”, torno indietro, riattraverso, e mi fermo all’angolo, sai, davanti a mio padre - e lì, un’altra oscillazione, le porte del Battistero sembravano occhi, e il Battistero sembrava la testa di mio padre, e per calmarmi ho dovuto guardare la gente che entrava e usciva dal tabaccaio - E di nuovo: “Biondooo!”. Ero lì, la borsa piantata tra le gambe, che dentro c’era il portatile, e ho aspettato. Non arrivava nessuno. E questa voce mi è arrivata addosso, in faccia, e ha detto biondo da un metro - Non era una cosa reale, era più interiore che esteriore. Me lo ha detto come da dietro un vetro blindato, come dal fondo di una valle, ma come faccio a spiegare, ridi, non puoi sapere che ho guardato in alto, in cima al Duomo, dove c’è la palla d’oro, che io guardavo brillare nella primissima luce - prima - quando alla fine della notti tornavo a casa a piedi, e all’alba si sentiva il respiro delle pietre, e amavo questa città come una fidanzata - …e questa persona, sputata dalla folla, mi abbraccia…aveva una forza tremenda, e non sapevo chi fosse. E  senza smettere di abbracciarmi, sento che mi dice: “Biondo!...Non mi riconosci eh?”, io facevo di no con la testa, a questo uomo sbucato dal nulla e che gridava biondo. Che in effetti io lo ero stato, il biondo, e poteva essere che ci conoscessimo: prima però. Ma se non era così, se era un equivoco, io mi dovevo tutelare. Lasciare una porta aperta, mostrare contegno. La voce la conoscevo. Ma lui, questo tale che mi stringeva, chi era? Uno con il mongomeri blu, gli occhiali quadrati, e l’alito sapeva di menta. Poi mi guarda bene, come se ci pensasse, e a un dato momento si mette a cantare: “…Alè alè Fiorentina, quando senti negli stadi una canzone… - lo guardavo, questo qui cantava fortissimo, questo qui era emozionato, chissà se questo qui era pazzo - …alé alé, Fiorentina”. Poi ha smesso di cantare. Mi guarda serio, e fa: “Pirimpallino! O quanto tempo, ma che siamo scemi davvero? - aveva il fiato grosso, come se avesse corso - …s’aveva quindici anni…Eh, ma ti ricordi qualcosa, in quella scatolona? - mi scuoteva la testa, come se volesse farmi uscire i ricordi dalla fronte - che si andò a Torino a vedere la Fiore che vinceva lo scudetto…Ricordi o no? il viaggio in treno, la gente alle stazioni che faceva ciao, a Bologna applaudirono, sembrava che fosse finita la guerra e l’avesse vinta Firenze - qui gli si incrinò la voce - … migliaia di ragazzi ai finestrini con le bandiere, ma quanto era bello questo viola? Biondo, ma te lo ricordi porca miseria, quello sepolto sotto la bandiera col giglio, una bandiera enorme, che la stoffa usciva dallo scompartimento,  e non smise ma di cantare. La notte, stavamo tornando a Firenze, si era zittito, era venti ore che urlava: vi-o-la, vi-o-la.  Invece si alzò in piedi, rinvispito, e cominciò a grattare con la voce: “E la portai dal Vivoli, a prendere iggelato, la mi disse gliè marmato, la mi fece scomparir”, e noi a rispondere in coro: ‘Teresina un ti ci porto più, un ti ci porto più, quanto è ver che c’è Gesù’. Biondo, ma te lo ricordi, chi sono sì?” – E adesso, caro conoscente incontrato oggi alla stazione, è tardi: non mi sento di dire che mentre lui, quello che gridava biondo, era sul marciapiede, e mi raccontava di quel treno, e del giglio che usciva dallo scompartimento, anche io ero sul marciapiede e giravo tutti gli scompartimenti di quel treno, per ritrovare il ragazzo di prima - Lo so, è buffa forte la canzone, ah non la conosci?...sentimi bene però, senti…questo si passa una mano sugli occhi, rapida:  “Ora però - mi fa - devo andare. Stai bene, sai - mi fa - biondo”. E va. Aveva anche lui una cartella, però di pelle, di quelle modeste, parecchio di una volta, con tutte le grinze. Uno che avevo conosciuto benissimo, e adesso chissà chi era. E si è allontanato per il marciapiede, e quando quasi è arrivato all’angolo, si è girato e mi ha fatto di nuovo: “O biondo”. Con la testa ho fatto cenno, come dire: sì?  E lui ha detto, non gridato, ha detto, e l’ho sentito benissimo in mezzo a tutta quella gente, ha detto: “E un t’ho più visto in curva”.  Era lì fermo, che aveva parlato, e non se ne andava, non si decideva. E io ho detto piano: Osso. E più forte: Osso! E poi ho gridato: ”Osso!!”.

Si chiamava Osso?

Sì. Era il nome da stadio. Osso. Perché era magrissimo, e poi alla partita recitava una parte che lo aveva reso popolare. Faceva uno laconico, che diceva l’essenziale dell’essenziale. La Fiorentina passava in vantaggio, si alzava e diceva: “Uno”. Giocavamo bene: “Inaudito”. Giocavamo male: “Turpi”. E adesso era lì sull’angolo e mi ha fatto un gran sorriso. Ha alzato un braccio, e dopo l’altro, come quando finiva bene una partita, prima un braccio, e poi l’altro. Stava in mezzo al marciapiede, con le braccia alzate: non si muoveva. E’ stato lì parecchio. Il proprietario della farmacia è uscito in strada, il camice bianco gli sventolava. Osso ha indicato il farmacista tutto bianco, e ha detto: “Gli astronauti”.

E poi?

Poi niente, se n’è andato. Ecco, guarda, giusto in tempo, c’è il treno. Vieni, diamoci una stretta di mano. Ci sentiamo, auguri. Ti vedo andare - per te il racconto è finito.

Ma io e Osso no. Ci siamo  raggiunti. Ci siamo messi a correre e ci siamo abbracciati. Anche io. Ma forte. E lui ha detto: “Madonna come sei lento”. E io ho detto che parlava molto più di prima. Si piangeva e si rideva, la palla del Duomo brillava, respirava tutto, e ho smesso di pensare. Osso delle mie ossa.   

  

 

 

 

 

 

 

La URL per il Trackback di questo messaggio è:
https://blog.libero.it/schwedracconta/trackback.php?msg=13533870

I blog che hanno inviato un Trackback a questo messaggio:
Nessun trackback

 
Commenti al Post:
Nessun commento
 
 

Jiga Melik

 

CAN EXPRESS - VOLUME SCANDALISTICO PER CANI

CAN EXPRESS

 
 

JIGA MELIK

 

JIGA MELIK

 

VIGNETTA

 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

IL FRIGO GIA' PIENO

 

CHI PUŅ SCRIVERE SUL BLOG

Tutti gli utenti registrati possono pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
I messaggi e i commenti sono moderati dall'autore del blog, verranno verificati e pubblicati a sua discrezione.
 

I FUNERALI DOPO LUCIO DALLA

 

BUCCIA D' ARANCIA AL SENO

 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 

ULTIME VISITE AL BLOG

CherryslJiga0boratannymaoltreleparole_2010lacky.procinoSky_EagleGothMakeUplafarmaciadepocaarte1245oscardellestellefamiglia_di_fantcile54Stolen_wordsr1ck1
 

JONNY SCHWED-VOODOO CHILE BLUES-GUITAR SOLO

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963