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Un blog creato da Jiga0 il 21/11/2010

Schwed Racconta

Su e giù per la tastiera

 
 

ICONA RIVISTA IL MALE

 

JIGA MELIK E IL SIG. SCHWED

 

Jiga Melik è l'alter ego intermittente dello scrittore Alessandro Schwed. Il signor Melik nasce nel 1978 nella prima e provvisoria redazione del Male, un ex odoroso caseificio in via dei Magazzini Generali a Roma. Essendo un falso sembiante di Alessandro Schwed, Jiga Melik si specializza con grande naturalezza nella produzione di falsi e scritti di fatti verosimili. A ciò vanno aggiunti happening con Donato Sannini, come la consegna dei 16 Comandamenti sul Monte dei Cocci; la fondazione dell'Spa, Socialista partito aristocratico o Società per azioni, e la formidabile trombatura dello Spa, felicemente non ammesso alle regionali Lazio 1981; alcuni spettacoli nel teatro Off romano, tra cui "Chi ha paura di Jiga Melik?", con Donato Sannini e "Cinque piccoli musical" con le musiche di Arturo Annecchino; la partecipazione autoriale a programmi radio e Tv, tra cui la serie satirica "Teste di Gomma" a Tmc. Dopo vari anni di collaborazione coi Quotidiani Locali del Gruppo Espresso, Jiga Melik finalmente torna a casa, al Male di Vauro e Vincino. Il signor Schwed non si ritiene in alcun modo responsabile delle particolari iniziative del signor Melik.

 

 

 

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IL CORPO STANCO DEL ROCKER

 

 

Allora la vita era questa

Vasco smette. Dice che ha sessantanni, dice che non ce la fa più: non ha l'età per una vita da rocker - quella spericolata. Cantare, viaggiare, fare giorno,  il rombo del furgone, gli alberghi. Il corpo  del rocker è stanco. Il suo congedo è stato da rocker: ruvido, reale. Era stanco, l'ha fatto sapere. Non mi posso immaginare un cantante italiano famoso e amato come lui, che riempie gli stadi come lui, che fa come lui e spara dritto in faccia alla stampa di essersi stancato del tran tran. A lui invece è  venuto di dirlo, lo ha fatto all'improvviso: questa burrasca non la regge, ed è chiaro che non se l'aspettava. Vasco è frastornato. Lo capisco. In effetti, per noi, per la generazione della giovinezza al potere e il potere alla giovinezza, non era previsto che la giovinezza se ne andasse. Dovevamo scintillare e basta, al massimo uno poteva spezzarsi in due, ma non provare seccature come il fatto di non reggere il ritmo, lo stress, la ripetizione. E in particolare, quanto alla scomparsa della giovinezza, quarantanni fa non era prevedibile perché da giovani nessuno si mette a pensare che poi la giovinezza ti pianta in asso. A sedici anni, e anche a trenta c'è il presente,  così grande che non si vede la fine. E tutte le altre cose, il futuro, le tradizioni, le responsabilità, i doveri, la previdenza, la pazienza e la coerenza sono il recinto degli adulti - e la giovinezza è brada. Chi avesse detto tra i miei amici rocker, ribelli, militanti, beatnik, "ma poi che faremo da vecchi", sarebbe stato classificato come un caso disperato di umore nero. Il fatto che la giovinezza passi e un giorno si è vecchi così come a un tratto certi giorni comincia a piovere, era una litania che apparteneva alle prediche materne così come l'incombere della  vecchiaia e la vecchiaia appartenevano agli anziani sconosciuti per strada e a quelli noti a casa, ai genitori e ai loro amici funebri che per le feste regalavano un servizio da té, alle foto nell'album di famiglia con una zia che aveva vissuto lucida fino a novantasette anni, ma gli ultimi venti era stata costretta a letto e sarebbe stato molto meglio che se ne fosse andata a settantanni. In questa nostra generazione nessuno progettava di vivere con prudenza e nessuno guardava il padre o la madre per fare un ragionevole calcolo su quando avrebbe iniziato a invecchiare e con quale malattia ereditaria addosso. Quando abbiamo iniziato a essere rocker e beatnik, avevamo negli occhi Hendrix che bruciava la sua chitarra al festival di Montreaux e la giovinezza appariva un presente sconfinato e inattaccabile dalle forze nemiche. L'età adulta era fascista, la vecchiaia reazionaria e meno male che c'eravamo noi.  Nel rock poi uno è contagiato dal virus micidiale della giovinezza: il corpo è una molla il cui fine è tendersi e scoprire quando si spezza, le esagerazioni sono la norma e la norma un'esagerazione. Il rocker non pensa al dopo: il rocker è cicala, non formica. Dice Gregory Corso: "...beat è qualunque uomo che rompa il sentiero stabilito per seguire il sentiero destinato", e i rocker seguono il sentiero destinato: suonano. Seconda cosa, i rocker non pensano, la loro attività è catturare brividi. Terza cosa, se uno nella vita suona il rock, non è un professionista, ma un rocker. E non è finita: per un rocker non è immaginabile diventare come gli altri, e poi non è immaginabile diventare: un rocker è un rocker; inoltre, i rocker non hanno scelta: devono suonare. Se non hanno successo, pazienza, i rocker non vivono in funzione del successo, loro possono sopravvivere anche tutta la vita, ma la via è segnata, ed è che la notte il rocker  canta, tira  allo spasimo le corde della chitarra e poi fa un rapido inchino. L'inverno, se non è famoso, il rocker resta in silenzio; se è famoso, gira i teatri. D'estate, a seconda della fama, canta su palco grande o medio, oppure su uno piccolo nell'angolo di una piazza, e mentre canta la gente al bar beve il caffè, parla al telefonino e qui e lì scappa un applauso. Perché se no, nella vita, che avrebbe dovuto fare Vasco: l'urbanista, il bidello, il chirurgo? Vasco ha seguito il suo univoco destino beat e adesso il corpo del rocker è stanco. Magari non si aspettava che a un tratto la maggior parte del  tempo gli si sarebbe presentato alle spalle; e noi non ci aspettavamo di arrivare al paradosso di essere non dico dei vecchi, e neanche gente malridotta, ma sostanzialmente delle persone non giovani con la necessità di dormire mezz'ora dopo pranzo - e questa è una cosa che alla nostra generazione non doveva essere fatta. Non che noi ci credessimo giovani divinità del canto roco, venute in Terra a rockblues mostrare. A far vedere come è bella una canzone svogliata e sguaiata, oppure come fosse "Spoonfull", versione 1967, quando a Londra scrivevano sui muri "Clapton is God".  Ma la nostra generazione non si aspettava, e ancora non si aspetta di invecchiare:  non perché qualcuno si ritenga immune dalla mortalità, dalle ordinarie malattie e da questa cosa dei reumatismi. Ma tale è stato il nostro culto del presente, da non vedere che il tempo stesse passando - e la nostra è  stata una vita estremamente distratta: non guardando che succedesse al nostro involucro, il cosiddetto corpo. E a forza di dare del tu a degli sconosciuti incontrati a un concerto di Frank Zappa e The Mothers of Invention, come se questa affinità estetica potesse riempire il cosmo; a forza di prendere le cose così come vengono, a non interessarsi al rinnovo della patente, alla visita di leva, al ritiro  del diploma di maturità, a cambiare città e a un tratto cambiare di nuovo città, e di città in città svegliarsi senza sapere dove abitiamo - abbiamo dimenticato di segnare i numeri di telefono dei vecchi amici e di guardare il calendario. I vecchi amici e il calendario hanno una funzione quotidiana: ricordano bene l'anno di nascita, le medie, le ripetizioni di matematica, il concerto dei Rollino Stones a Roma nel 1969 - e il corpo del rocker è stanco. Porterà via dalla scena quel modo di Vasco di tenere le mani davanti al corpo, il modo di uno che brancola nel buio ed è proprio lì che trova idee e versi, nel buio - come il minatore il diamante nella tenebra della miniera. Il rocker-minatore vive nel buio, mica di giorno: di luce c'è la luce del palco, artificiale e  sparata, l'energia viene dalle chitarre, dai microfoni, il distorsore, e il concerto è una vibrante centrale umano-elettrica. Il rocker vive sul palco, non a casa. Nella vetrina spalancata degli stadi, nel gigantesco morso del pubblico. Il rocker abita allo stadio.  Vasco, il cappellino in testa, arriva allo stadio e comincia a vivere la sua vita rocker, e gli stadi si somigliano tutti e sono la stessa casa, e alla fine un uomo non ne può più. I cancelli di ferro sbattono, il camion dell'amplificazione entra, dietro il furgone con la band. Vasco, il cappellino in testa, scende dal furgone, scende di macchina, forse da una moto e avrà gli occhiali da sole, si sarà alzato da poco: io queste cose me le immagino, sono quelle dei Led Zeppelin ai ventitre anni o giù di lì di Jimmy Page alla Royal Albert Hall, dei Rolling vecchi bucanieri incartapecoriti a Parigi, nel film di Scorzese, dei Blind Faith a Hide Park nel 1968, e poi dei Queen a Wembley, di Hendrix all'isola di White - tutti con sgargianti  pantaloni a campana. E così Vasco Rossi entra allo stadio e avrà l'andatura da rocker: i rocker si riconoscono perché camminano come cowboy, ti aspetteresti che abbiano un lazo, lo lancino tra la gente e peschino qualcuno. Vasco lancia i versi delle canzoni e afferra la gente per la punta del cuore. Clac. Però, dopo quarantanni negli stadi, alla fine il corpo del rocker è stanco: nel pomeriggio il sound-check, la sera torni allo stadio, suoni e sei spremuto. Prima di un concerto davanti a quarantamila persone, dal corpo del rocker vanno via  cinque anni. Non c'è una dissipazione simile. A un'ora dall'inizio del concerto, entri allo stadio e la paura ti tiene le zampe sul collo. La paura è una carogna meravigliosa. Chi non ha paura, non può essere un rocker. Il rocker deve suonare col ventre pieno di paura. Ti immagino, Vasco, prima del concerto. Arrivi  allo stadio, cammini nei corridoi con gli altri della band, e nei corridoi tutti sorridono a Vasco - l'artista da vicino. Aspettano qualcosa da te, un miracolo.  Sei Babbo Natale rock'n'roll, sezione Italia. Aspettano un miracolo quelli del botteghino, gli inservienti che vanno sulle gradinate a vendere gelati, i raccattapalle, gli uscieri, i magazzinieri e tutti i loro amici entrati di straforo. Sei nel corridoio che cammini e cammini, fuori la folla urla: Vasco,  Vasco. Punti il camerino, secondo me sai già dove ti hanno messo. Poi dico che ti siedi e che pensi alla scaletta. Il chitarrista accorderà la Gipson, uno della band riderà più forte degli altri, è quello che ha paura, il più giovane. Mi immagino un tale che non c'entra con lo staff, un saputello con le mani in tasca, racconta una barzelletta a voce altissima - come si fa a raccontare una barzelletta a voce altissima? - il saputello ride a voce altissima come se si facesse un male cane e ora dovessero portarlo all'ospedale. Poi penso che vengono a chiamarti: Vasco, cominciamo, sei pronto? Tutto a posto, ragazzi. Prima di uscire e cantare, farai un pensierino alla donna, a Dio, a mamma, alla tua famiglia, alle tue famiglie, a tutti i tuoi amici o a un amico che non c'è più, al posto dove sei nato, e a bere un sorso buono. Ok, cominciamo. Apri la porta e sei di nuovo in corridoio. Cammini rapido verso l'uscita sul campo di calcio; quelli della band camminano rapidi con te. Nessuno parla, sorrisi tirati. Il clamore del pubblico aumenta, sali le scale che portano al campo, d'estate l'erba è sciupata. Odore di quest'erba, e anche di un'altra erba, una folata. Lo stadio è nel buio, fa parte dello show. Vicino all'uscita degli spogliatoi c'è una folla di fotografi, di gente che non capisci chi sia, uno ti stringe la mano e dice sono il sindaco, i poliziotti hanno il cane lupo che tira forte e ci sono i flash dei fotografi: Vasco sorridi, Vasco guarda qui. Vasco, Vasco. Una pioggia di pacche sulle spalle: sei anestetizzato, ridi. Qualcuno ti ricorda di entrare sul palco dalla scaletta dietro. Nel buio, le luci sono a posto, quando arrivi al microfono, lo sai, si accende l'inferno e si comincia. Ok? Ok. Le assi del palco, le torri degli amplificatori. Ci siamo: il cuore rulla. Sulle gradinate una ragazzina urla: eccolo!...E gli altri: Vasco, Vasco. I flash dei telefonini, i flash dei fotografi, un flash di quando eri bambino. Sei all'asta del microfono, prendi un respiro, vai.  Il pedale della batteria batte sulla cassa, e uno, e due, sul palco si accendono milioni di luci, e ci sei solo tu: Vasco, Vasco.  Il rock era bellissimo, ma ora non ce la faccio più. Basta. Basta sound-check, basta spogliatoi, basta corridoi, basta neon, basta camion, basta pacche sulle spalle e gente che ride urlando: il corpo del rocker è stanco. La giovinezza che non c'è più, è una prigione. Una vita in alberghi, autogrill, cercando fra stadi e autostrade un angolo a misura, un posto dove dire in confidenza a sé stesso: "Vasco, allora, come va?". Ci sono sessanta stagioni, il corpo del rocker è stanco. E' difficile che ci sia di nuovo un mondo come quello del rock: per carità, la notorietà è la stessa infezione in tutti gli show: i corridoi e le pacche sulle spalle, ma il mondo del rock è diverso. Nomade. Esoterico. Trasandato alla gran perfezione. Si trattava di concentrarsi, andare sul palco e coprire la folla di brividi. Stabilire un contatto con la gente come se la gente là sotto fosse la tua famiglia, e lo sa fare uno ogni cento milioni di persone. E se c'è modo di vedere che cosa sia la giovinezza, a che punto sia, quanto duri, è il rock. Il rock chiede il tuo coraggio, non basta essere bravi. Il rock è un brivido, il resto sono canzoni. Ma la vita prima e dopo il palco, logora. I ristoranti dove sogni un uovo al tegamino, e sono le tre di notte, la cucina è chiusa e c'è solo salsa tartara. Stancano le promiscuità e quel fatto che la gente ti dia del tu, e il cellulare che squilla, le interviste, gli impresari, gli agenti, il segretario, i ristoratori che corrono al tuo tavolo stropicciando il grembiale, i cuochi, un altro cameriere che porge un foglietto per l'autografo a suo figlio, e tutti che fanno l'occhiolino. Resisti a questo, resisti a tutto, ma non si può fiammeggiare tutta la vita, e il corpo del rocker è stanco. Hendrix riposa in pace nei suoi dvd, lo stesso fanno Janis e Jim Morrison. Steve Ray è caduto giovane come Patroclo, aveva fretta di andare a casa, era salito da solo sull'elicottero di Clapton. Gli altri, quelli che non sono morti, suonano e sono famosi, ma alla fine devono passare al blues, diventano meditativi  - il corpo del rocker è stanco. Gli artisti morti giovani hanno avuto fortuna, si sente dire, e la loro fortuna sarebbe che morendo sono rimasti giovani. Chi ha continuato a essere vivo, a cantare, è solo uno normale: infatti è rimasto vivo. Hendrix e Mozart sono morti giovani e poveri e ancora ne parlano, dice qualcuno. Nel rock, se non sei  morto da giovane in una vasca da bagno, da giovane in una piscina o sopra un water la siringa nel braccio, o fatto a pezzi e messo in una valigia come Alan Wilson dei Canned Hit (quelli di "On the road again"), se non capitano tali cupe vicende, ci vuole qualcosa in più per diventare un mito. Per esempio è successo a Beethoven. Beethoven era Beethoven, che discorsi, ma aveva toccato il cuore a tutti, e quando alla fine della vita diresse la Nona in un teatro di Vienna, ormai non sentiva più niente. Era sordo. La diresse  aiutandosi con un sistema di cornetti acustici, pare che percepisse un ronzio ritmato e che un'assistente gli girasse le pagine dello spartito. Quando la musica finì, a Beethoven fu fatto cenno di girarsi verso il pubblico - si girò.  Dai palchi e dalla platea fu sventolato un muro di fazzoletti bianchi. Nel teatro si sentiva il rumore che fanno le vele quando ci sono i colpi di vento. Questo è da leggenda rock. Ma per sopravvivere senza preoccuparsi dei colleghi leggendari morti, si deve essere giovani, incoscienti: suonare e cantare perché non c'è niente di meglio. Invece, anche se non l'avresti mai detto, a un certo punto il corpo del rocker si è fatto stanco. Mentre la gioventù è spensieratezza, parità con con qualsiasi cantante sconosciuto e con qualsiasi star. La giovinezza è l'unico comunismo realizzato senza danni. Per questo le canzoni di Vasco venivano bene, la voce non si curava di quello che la voce lasciava dietro - o così pareva a tutti. Un giorno deve essere successo qualcosa, forse a un certo punto conta cosa lasci in una giornata, e così è arrivato l'annuncio: il mio corpo di rocker è stanco. Proprio così, Vasco, non si può esser giovani per sempre come credevamo. O meglio: si può, solo che mentre dentro senti la giovinezza di sempre, la sensibilità di sempre, e il modo di dire le cose è quello di quando dicevi "allora ragazzi, che si fa stasera, andiamo al cine?", poi non è affatto così. Mentre ti continui a sentire  il solito te stesso di sempre, parli agli altri e hai ventanni come loro, la verità è che quelli non ne hanno sessanta come te, non sono i tuoi coetanei, loro sono nuovi di zecca. Tutti quei ragazzi potrebbero essere tuoi figli, tuoi nipoti, e a volte si rivolgono a te con deferenza, e la deferenza non va bene - sarebbero mai arrivati alla deferenza con Hendrix? Non lo sapremo mai. C'è un film dove si vede Hendrix che suona tenendo la chitarra dietro la schiena, poi la fa girare intorno al corpo, la porta alle labbra e la suona con i denti. Davanti a lui, sotto il palco, un ragazzo lo guarda con la bocca spalancata, immobile come fosse di gesso.  Vasco dice che non se la sente di continuare. Penso che succeda lo stesso ai comici: si può essere comedians per tutta la vita, Jerry Lewis per cinquantanni di seguito? "Ooooh, ragaaaaaazzi...che beeeeeeeello". Non si può essere clown per sempre. Anche a Chaplin è successo. Da vecchio faceva un film, bello, bellissimo, struggente, e ogni volta sembrava dicesse educatamente addio. Il comico da vecchio diventa una maschera tragica. Il rocker è come il comedian, chiuso nella prigione dello show - il rocker deve guizzare, o dare l'impressione di farlo. Di sicuro, ora che Vasco smette, non ci sarà più una parte del primo rock. Nel rock c'era una libertà potente, vera e falsa, quella vera molto vera e quella falsa molto falsa - erano belle tutte e due. La libertà del rock è appariscente e tagliente, e chi non l'ha vista, chi non  ci si è tagliato, non può sapere quanto mancherà. Gli amplificatori friggevano sempre, domani Vasco li spenge. Curioso che si invecchi, allora la vita era questa. 

 

Alessandro Schwed   

 

Il Foglio 5 Luglio 2011

 

 

 
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