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Un blog creato da albarossa62 il 31/03/2009

senzabigliettoe

si trovò dentro il suo sguardo malvagio. Sorrideva mettendo in mostra i denti striati di sangue, ma i suoi occhi erano seri. No, erano... famelici. Lo vide alzarsi con calma e dirigersi verso la porta a passi misurati. Quando allungò la mano Francesca si sentì mancare il respiro e le gambe cedere. Involontariamente serrò gli occhi. (Tratto da Senza biglietto e ritorno, Robin Edizioni)

 
 

LA MIA NATURA

Quando mi sono installata qui, otto mesi fa, non ero dell’umore giusto per appendere graziose tendine di pizzo alle due aperture che chiamo finestre. Anzi, ero proprio depressa. Diciamo pure disperata. I primi giorni non sapevo nemmeno in che paese, o in che città, mi trovassi. Non che mi importasse, ma il tempo faceva schifo e l’ultima panchina su cui avevo dormito era così scomoda che al mattino avevo dovuto ricompormi le vertebre come mattoncini del Lego. Bighellonando a casaccio in cerca di un albero a cui impiccarmi mi ero trovata davanti un invitante cartello arancio fosforescente: monolocale arredato affittasi. soluzione particolare. economico.
Si capiva benissimo che non era appetibile. Se aggiungiamo i mobili Aiazzone reparto occasioni e le pareti scrostate ne risulta un ambiente un po’ squallido. Non possiedo neppure una natura ordinata e ho la capacità di colonizzare ogni superficie orizzontale in tempi estremamente brevi. Il risultato è, volendo essere magnanimi, stravagante. Io lo trovo accogliente e protettivo come una cuccia, riesco a trovare ciò che mi serve in tempi di ricerca ragionevoli e quanto alle pulizie, be’, anche gli acari hanno diritto di vivere!

(Tratto da Senza biglietto e ritorno, Robin editore)

 

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« Latika vive ancora in un...Mai piu'? »

Ho vinto!!!

Post n°15 pubblicato il 04 Maggio 2009 da albarossa62

 

Ho vinto il primo premio del concorso letterario sezione narrativa Città di Treviglio!!!

 

Candele



Quando vinsi il terzo premio della lotteria per poco non mi prese un colpo.
Due milioni di euro. Duemilionidieuro! DUEMILIONIDIEURO!!!
Allora vivevo in un monolocale poco più grande di una gabbia per criceti, per cui la prima cosa che feci appena incassai quella montagna di soldi fu comprare un attico in un palazzo d’epoca con parco/piscina/videocitofono/guardiano notturno/scale di marmo/pareti in stucco veneziano.
Il giorno in cui firmai il rogito indossavo un abito griffato, e una stola leggera mi copriva spalle e braccia. Mi sentivo una principessa, ma le mie origini sono irrimediabilmente plebee.


Nel condominio abitano una sacco di riccazzi che viaggiano con il mento troppo alzato; l’espressione schifata stampata su facce perennemente abbronzate mi urla un muto messaggio: Tu non fai e mai farai parte del nostro mondo.
Li incrocio nell’atrio e guardano oltre, mi circumnavigano quel tanto che basta per scartare di lato come si farebbe con una pianta ornamentale. Nel caso si trovino costretti a condividere con me l’ascensore, si mettono di tre quarti, aristocraticamente impazienti; se nella cabina siamo in tre, conversano sostenuti anche se l’argomento è la prostata del nonno, escludendomi ostentatamente. Mi viene da toccarmi per verificare se sono incorporea, ma lo specchio riflette la mia immagine nitida e concreta e questo mi rassicura.
Oddio, qualcuno si salva: per esempio la tipa del quarto piano che, complici antidepressivi e un lifting estremo, sorride sempre. Si veste come una che è appena tornata del Nepal, una silfide magra come una vacca sacra avvolta in veli impalpabili o maglioni di alpaca finto-peruviani che vogliono sembrare casual ma si vede benissimo che costano un rene. Si porta in giro una cagna orrenda e sproporzionata, con una testa piccola piccola e un tronco a mortadella, a nome Shiva.
Quando una sera tardi, diciamo pure notte, trilla il campanello e, aprendo la porta superblindata, me le trovo davanti, non mi sorprendo più di tanto.
«Ciao, cara, disturbiamo?» e scivola nel salotto planando languidamente sul divano seguita dal fumo di uno spinello che tiene in bilico fra la punta delle dita. Sembra Greta Garbo in versione hippy. Shiva si dedica a una scupolosa perlustrazione di pertugi e anfratti dell’appartamento. Selvaggia (non ci credo che è il suo vero nome nemmeno se mi mostra la carta d’identità) mi fa un lungo e sconclusionato giro di parole, dal quale deduco che mi sta invitando da lei per una cena macrobiotica con successiva meditazione. Sarebbe più allettante perfino un incontro su Nietzsche e agnosticismo, ma mi sembra brutto rifiutare, così fingo un moderato entusiasmo e rispondo: «Non vedo l’ora».


Per essere in tono con la padrona di casa acquisto una specie di sari dai colori vivaci e delle candele al sandalo, che vanno sempre bene.
Uomini dai capelli raccolti in spelacchiati codini mi abbracciano un po’ troppo stretta e donne botulinate-siliconate-liposuzionate zavorrate di bigiotteria firmata approfittano delle presentazioni per scannerizzarmi con una certa diffidenza. C’è anche Anna la gattara, una vecchia che abita in una catapecchia che sembra teletrasportata da Kabul; fa così alternativo e umanitario averla ospite... La sera la vedo dalle finestre che chiama a raccolta almeno una trentina di felini: compaiono dal nulla e lei li sfama e accarezza chiamandoli per nome a uno a uno.
A chiudere l’accozzaglia, un paio di persone «normali», di cui una mooolto interessante.
All’altro capo del tavolo, sereno e rilassato, colui che mi è stato presentato come Massimiliano spilucca senza troppa convinzione una cosa dall’aspetto poco commestibile. Penso di avere molte chance, se non altro perché a occhio e croce ho minimo quindici anni meno dell’invitata più giovane (ebbene sì, non ho una grande ego).
Infatti, terminata la cena, ci si spalma su cuscini e stuoie, e lui si fa sotto con un sorriso a sessantaquattro denti. Le cosce tendono eroticamente i jeans e il suo profumo di muschio maschio, molto arrapante e per niente new age, mi sale per il naso e una pallina da tennis mi si ficca in gola.
Complici gli incensi non proprio omologati, ci ritroviamo a fare meditazione nel mio letto fino al mattino, e da lì inizia un rapporto conflittuale che mi regala poche soddisfazioni e molte incazzature.
Tra un litigio e un bidone passo sempre più tempo con Anna, che mi racconta la sua storia, così scioccante, pazzesca e terribile che non può che essere vera. Vive in un altro mondo, eppure è la persona più equilibrata e in pace con se stessa che conosco. Beviamo tè scadente e distribuiamo croccantini tra micieschi cori di gratitudine, sfregamenti e fusa. Lei non è gelosa del loro affetto, dice che l’amore non è come i beni materiali, che più alto è il numero delle persone che se li devono spartire, più la fetta è piccola. L’amore, al contrario, si moltiplica.


Stiamo insieme (ma stiamo insieme?) da quattro mesi e la primavera sboccia, gli uccellini cinguettano, le colombe tubano, i prati verdeggiano, insomma quello che succede tutti gli anni. Abbiamo appena finito di fare sesso in maniera un po’ distratta e cerco i miei abiti nel caos primordiale della sua stanza. Dalla sera precedente voglio dirglielo, ma qualcosa sotto sotto mi fa stare in ansia, un vago presentimento di sventura che cerco di ignorare ma mi sta attaccato alle caviglie come una zecca. Finalmente le parole mi scivolano fuori di bocca, il tono troppo allegro e disinvolto suona falso.
«Per il ponte del 25 aprile Selvaggia ci ha invitati a casa sua in montagna. Farà freddo? Che dici, porto un pile?»
Massimiliano è impegnato a scrivere un lungo sms e mi fa un gesto vago con la mano, uno svolazzo dal significato universale: «Non vedi che sono occupato, riprova più tardi».
«Guarda che se non le rispondo oggi ci rimpiazza con qualcun altro», lo sollecito, ma gli angoli della bocca stanno già arrendendosi alla forza di gravità.
Lui finisce di spedire senza fretta, poi si volta verso di me con aria spazientita. «Dimmi.»
Rifaccio la domanda, quasi sperando che dica di no. La sua arroganza comincia a darmi davvero sui nervi.
«Per il ponte del 25 aprile Selvaggia ci ha invitati...»
«No, non posso. Il 24 mi sposo.»
«Scusa?»
«Il 24 mi sposo.»
«Stai scherzando!»
«No. Volevo dirtelo. Te l’avrei detto. Stavo cercando le parole.»
Io ho una momentanea catatonia. Seguita da completa afasia. Seguita da mani sulla faccia. Seguita da uno scuotimento di testa, le mani fra i capelli. Seguita da blocco respiratorio e conseguente boccheggiamento.
Lui, che è sensibile, esce dalla stanza per non vedermi soffrire.
Dopo pochi minuti rimetto a fuoco il mondo e lo raggiungo. Le sue spalle nude e abbronzate mi colpiscono come un pugno. Lui guarda fuori dalla finestra, apparentemente calmo e senza pensieri. Probabilmente, calmo e senza pensieri. Sicuramente, calmo e senza pensieri.
«Allora?» chiedo.
«Allora cosa?»
«Cosa hai intenzione di fare?»
«Te l’ho appena detto. Mi sposo», scandisce, come se fossi una bambina ritardata.
«Davvero?»
«Sì.»
«Tutto qui? Una spiegazione, chi è la troia, dove l’hai conosciuta, da quanto tempo state insieme?»
«Eddai, quante menate. Ne stai facendo un dramma. Non hai ancora trent’anni e sei già una rompicoglioni peggio di una cinquantenne in menopausa. Comunque ci saranno altre occasioni; non ti sto mica lasciando. Solo... mi sposo. Non è la fine della nostra storia. Sarai mica gelosa?»
Dovrei ricoprirlo di insulti da qui a sette generazioni, ma è tutto così, così, così...
«Grandioso», mi esce di bocca. «Fantastico, cazzo.»
Esco vaffanculando a denti stretti e mi incammino verso casa mentre una pioggerellina leggera disseta embrioni di fiori. Il cappuccio della giacca mi separa dal cielo grigio, perfettamente intonato con la mia aria cupa.


Selvaggia si è addormentata tra volute di incenso. Le sottili tende rosse di seta indiana danzano con un alito di vento fino a sfiorare una candela e vengono abbracciate dalla fiamma. In pochi secondi il fuoco aggedisce i mobili di legno pregiato, i tappeti pagati il triplo del loro valore, e si affaccia baldanzoso e vitale alla finestra attirando l’attenzione dei passanti.
Quando l’autopompa dei vigili del fuoco inchioda in mezzo alla strada gli appartamenti degli ultimi piani si sono trasformati in un gigantesco barbecue su cui griglia ogni mia proprietà.
Il fumo lo vedo da lontano. Origami neri in balia della brezza serale. Poi arriva anche l’odore: acre, pungente, minaccioso. Infine lo spettacolo dell’edificio decapitato, macerie incenerite che si staccano svogliatamente e cadono su altre macerie. Plof. Polvere.
Il vento rinforza e le fiamme sembrano raddoppiare di intensità, come se gli stessero lanciando una sfida.
Sbatto le palpebre senza riuscire a bloccare le lacrime. Non so se per l’aria satura o la disperazione. Resto immobile a fissare l’apocalisse e mi sento tutta dura e fredda, mi fanno male la pelle, le ossa, ed è come se il sangue si fosse solidificato nelle vene.
Dietro la cortina nera il tramonto è rosso, ma io non lo vedo. C’è una gran baraonda e tutto mi scorre accanto senza sfiorarmi fino a quando, lentamente, percepisco che qualcosa mi si strofina sulle gambe.
Abbasso gli occhi su due palle di pelo bianco e grigio. Sono arrivati con Anna, che mi rivolge un sorriso sincero e sdentato: «Se vuoi, puoi dormire da me qu
alche notte».
Guardo verso la sua casa, ma è stata nascosta da un grande cartello: nuovo complesso residenziale - ufficio vendite. Data di inizio lavori: la prossima settimana. I gatti miagolano, inconsapevoli.
Sono così stanca... Senza dire una parola mi incammino accanto a lei; è piccola e minuta, una bambina. Ho la tentazione di prenderla per mano, e prima che abbia il tempo di pensare che è una cosa ridicola, imbarazzante, sento dita rugose incunearsi fra le mie.

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