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Giorno del Ricordo a S. Canzian d'Isonzo (GO)

Post n°8 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da senzaconfini2015
 

Il Circolo Istria a S. Canzian d'Isonzo (GO)

per celebrare il Giorno del Ricordo 2015, venerdì 13 febbraio.

L'incontro si è svolto nella sala del Consiglio Comunale alla presenza di diversi assessori e consiglieri e del Sindaco, Silvia Caruso, che ha coordinato l'incontro.  La serata è cominciata con la presentazione dei due  relatori: Livio Dorigo, presidente del Circolo Istria e Biagio Mannino, politologo e collaboratore del Circolo, che hanno tenuto la medesima celebrazione qui anche l'anno scorso. Era presente pure Paolo Padovan, presidente dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia (ANPI), a cui il sindaco ha dato la parola per primo per un saluto. Egli non si è però limitato soltanto a salutare ma ha fatto una sintetica e corretta esposizione  - quasi una lezione, come ha più tardi commentato Dorigo - sull'esodo e gli eventi che l'hanno provocato.

Il saluto di Paolo Padovan

Il tema “Il Giorno del Ricordo ed il superamento dei confini psicologici” è oltremodo suggestivo. Lascia a tante possibilità interpretative. Ascolterò con attenzione gli illustri relatori. Certo è che sulla legge – e parlo di questa e non sulla giusta e doverosa opportunità di ricordare gli eccidi delle foibe e poi, credo distintamente, l’esodo dei tanti “esuli per l’Italia” una considerazione di principio vada fatta.

La prima cosa sono le cosiddette “foibe”;

la seconda è l’esodo di circa 250.000 abitanti dell’Istria, Pola, Fiume, Zara e della Dalmazia dalla loro terra di origine nella neocostituita Repubblica italiana.

Voglio dire, per chiarezza, e su questo l’ANPI si è pronunciato ripetutamente, che, secondo noi, la legge n. 92 del 30 marzo 2004 è stata creata per riconoscere il dramma dell’esodo del popolo istriano, unendolo fittiziamente a quello che fu il “dramma” dell’eliminazione e seppellimento nelle cosiddette “foibe” di nemici e criminali di guerra nazisti, fascisti, collaborazionisti (italiani, sloveni, croati) fra i quali anche civili innocenti, avvenuta nel 1943 e negli anni successivi, in particolare nei 45 giorni della permanenza delle truppe di Tito a Trieste e nella provincia e città limitrofe.

Questa è una pagina tragica, dolorosa, complicata per i vari intrecci internazionali, nazionalistici ed etnici che coinvolsero queste nostre terre, dove da secoli convivevano pacificamente popolazioni multiculturali, multireligiose e multietniche.

Non voglio – non è compito mio – entrare nel merito particolare del perché quelle cose drammatiche ed esecrabili sono successe.

Io sono convinto che il dramma degli esuli istriani, al pari di quelli di altri popoli europei, vada riconosciuto come tale. Nei loro confronti abbiamo avuto un deficit di comprensione e solidarietà se non un giudizio superficiale, emotivo e molte volte egoistico.

Lo Stato italiano, che tanto ha promesso e poco mantenuto, ha una grande responsabilità sia nell’incentivare che nel dimenticare il dramma di chi ha lasciato le proprie amate terre per andare in una Patria molte volte indifferente se non ostile.

La Jugoslavia ha avuto il grande torto di incentivare l’esodo, di fare una pulizia nazionale, del resto praticata anche in realtà europee di gran lunga numericamente più consistenti.

Un problema che deve ancora essere approfondito, e questa utile iniziativa va in tal senso, è se la politica jugoslava verso le terre d’Istria e della Dalmazia fu di pulizia etnica, oppure se vi siano stati tanti altri intrecci, compreso l’obiettivo italiano di usare politicamente la perdita di quelle terre per un rinnovato revanscismo nazionalistico per una forte e internazionalista classe operaia, che aveva visto e vedeva nella Resistenza e nell’antifascismo la conquista della democrazia ma anche di uno stato democratico e socialista sulla spinta della Rivoluzione d’ottobre, che tanta speranza creò nelle classi subalterne e in particolare in quella operaia.

È giusto ricordare il dramma patito dagli esuli. Esso va collocato nel tempo non nascondendo le responsabilità del fascismo e del nazismo, che mostrò in queste terre di confine la faccia più feroce e repressiva con le leggi razziali e la persecuzione del popolo sloveno.

Quindi vanno bene tutte le iniziative che ricordano quel dramma senza però cadere nell’uso politico e spregiudicato che la destra e il fascismo, principale colpevole delle conseguenze di una guerra d’aggressione perduta, ha fatto e tenta ancora di fare speculando sui morti e sull’esodo.

Oggi viviamo in un mondo più aperto. Molte barriere, anche mentali, sono cadute. Popoli che allora erano nemici oggi stanno sotto alla stessa bandiera europea, che ha garantito fino ad oggi 70 anni di pace. È questo un patrimonio che va salvato e rafforzato anche attraverso al drammatico insegnamento dei torti e dei patimenti subiti, che siano di monito affinché - e venti di guerra soffiano anche vicino a noi – le cose non si debbano più ripetere.

 La parola è stata poi data a Livio Dorigo, che ha descritto la sua infanzia e prima giovinezza a Pola. Nella città, alla fine della guerra, sotto una neutrale amministrazione inglese mentre tutto il territorio all’intorno era in mano jugoslava, l’atmosfera era di grande insofferenza. Pola era una città operaia, di sinistra, come si direbbe oggi, contrariamente alla fama di fascisti tuttora attribuita agli esuli istriani. Lo sviluppo demografico della città avvenne infatti quando l’impero austro-ungarico ne fece la base della sua flotta navale, cosa che portò all’insediamento e sviluppo sul posto di cantieri navali e all’afflusso di maestranza operaie specializzate da tutto l’impero, che non erano certamente di destra. Poi, in una caldissima domenica d’agosto, sulla spiaggia di Vergarolla, affollata in particolare di donne e bambini anche perché alla Società “Pietas Julia” che vi aveva la sede si doveva disputare la gara per la coppa Scarioni, le mine marine che vi erano state accatastate e private del detonatore dopo la bonifica del porto improvvisamente scoppiarono provocando una settantina di morti, e moltissimi feriti. È il culmine del disagio! In città si parlò subito di attentato. Di chi? Ancor oggi non c’è un’assoluta chiarezza sull’argomento nonostante il grande impegno del Circolo Istria nella scoperta della verità, fino al punto di finanziare una ricerca condotta dal dott. Gaetano Dato, che ne ha tratto un volume, recentemente pubblicato e presentato per la prima volta in Parlamento. Il giorno dopo la strage Guido Miglia, direttore de “L’arena di Pola”, lo storico quotidiano della città, tuttora pubblicato dagli esuli polesi, scrisse: “La colpa è della guerra!” Sono le guerre le cause di tutte le stragi.

 Dopo quest’episodio la città si svuotò.

 Anche Livio prese la strada dell'esodo in Italia con la famiglia nel 1947 e visse come gli altri l'accoglienza, gli studi, la carriera professionale. Un iter che lo portò in diverse parti d’Italia, cosa che gli consentì di conoscere meglio il nostro paese e i suoi abitanti e di constatare purtroppo la disinformazione, il disinteresse a volte anche l’ostilità della gente nei confronti degli esuli giuliano-dalmati. Una cosa da un certo punto di vista comprensibile negli anni ‘40/’50 quando l’Italia era ancora dolorante per le ferite della guerra  e non era in grado di affrontare decorosamente un problema come quello dell’esodo giuliano-dalmata.

Questa la sua memoria personale che non può essere condivisa perché ognuno ha la sua memoria, che non è storia.

 E poi, lentamente e faticosamente, avvenne il suo recupero delle radici e dell’identità istriana. Ha così avuto inizio il suo impegno nella ricerca della verità storica sulla strada indicata dai padri fondatori del Circolo Istria, come Guido Miglia, Depangher Giorgio, Vocci Marino, Fragiacomo Mario, Tomizza Fulvio e altri e sulla strada dell’unione fra i popoli, indicata già nell’800 da Giuseppe Mazzini nelle sue “Lettere slave”. Impegno indirizzato al benessere attuale e futuro, in una prospettiva europea, del territorio che va ''da Cherso al Carso'' senza dimenticare la sua storia passata, che è romano-veneta e non è soltanto quella delle persecuzioni, delle foibe e dell'esodo.

Prende poi la parola il politologo Biagio Mannino, che inizia il suo intervento definendo il ruolo del politologo, che è quello di studioso della politica. L’espressione più evidente di questa scienza sono gli stati e i loro confini. Il confine segna un limite, una divisione del territorio, separa da qualcosa/qualcuno che generalmente si teme e si ritiene nemico. Esso è infatti dovuto di solito alla paura ed è molto ben espresso da un muro. Di muri come confini nella storia ce ne sono infatti parecchi a partire dalla muraglia cinese e, per andare a tempi più vicini a noi, al muro di Berlino o, ancora più vicino, alla divisione in due parti di Gorizia dopo l'occupazione jugoslava di parte della città, per cui una parte di essa, proprio come accadde per la città di Berlino, fu assegnata all'ex Jugoslavia e una parte rimase all'Italia.

Il confine non è però soltanto evidente e fisico, c’è anche quello psicologico. Gli esuli giuliano-dalmati hanno vissuto sulla propria pelle l’uno e l’altro: c’è chi s’è trasferito da Ancarano a Muggia, distanti pochi chilometri l’una dall’altra ma la prima nell’ex Jugoslavia, la seconda in Italia. Ora che i confini fisici tra Italia Slovenia e Croazia sono stati abbattuti la distinzione fra andati e rimasti dovrebbe aver perso significato, ma non è così per tutti in quanto non basta eliminare i confini fisici per diventare un unico stato perché esistono anche i confini psicologici, non esteriormente percepibili ma anche più persistenti e difficili da abbattere dei limiti concreti. Questo generalmente non riguarda le nuove generazioni, anche grazie al mondo internet, che non ha confini.

“A tutto questo, che fa parte della politica, si intrecciano le storie personali come la mia – dice Mannino - che sono nato a Trieste con ascendenti istriani e siciliani, cosa in un territorio come quello di Trieste frequentissima, eppure, dallo studio statistico da me effettuato fra i giovani delle scuole superiori di Trieste, dove hanno stabilito la loro residenza ben 63.000 esuli, risulta che il 30 % è di origini istriane ma ben l’80 % di essi non si sente istriano. 

Cosa significa questo? 

Si tratta di persone di terza generazione, che non hanno vissuto l’esperienza dell’esodo e quindi il loro modo di vederlo non può che dipendere dall’informazione ricevuta o meno sull’argomento, specie in famiglia, e dal modo in cui gli è stata comunicata. Gli esuli infatti a volte non hanno narrato la loro esperienza di esodo altre volte hanno trasmesso ai loro discendenti assieme ai fatti vissuti anche gli stati d’animo, le emozioni che li hanno accompagnati, che spesso persistono nel tempo rinnovandosi ad ogni occasione di ricordo. Accade quindi che i discendenti di queste persone si ritengano gli eredi anche dei loro sentimenti e dei comportamenti che ne derivano, che fanno propri  e non intendono cambiare perché sarebbe come tradire i genitori e i nonni che glieli hanno consegnati”. 

È il conservatorismo estremo, l’immobilismo! 

Ma, passando al significato del Giorno del Ricordo, esso deve essere un’occasione per ricordare l'evento Esodo e quanto ad esso attine, riflettere su di esso ed elaborare. Tutti i popoli hanno un Giorno del Ricordo.

Conclusi gli interventi dei due relatori, il Sindaco offre la parola al pubblico. La chiede l’assessore Del Bello che fa un lungo intervento centrato sul tema della pulizia etnica. Ciò che è avvenuto in Istria, a Fiume, a Zara e in Dalmazia dopo l’occupazione jugoslava non fu a suo avviso tale ma la conseguenza dell’ordinamento socio-politico della Jugoslavia del tempo, che tendeva all’eliminazione anche fisica degli oppositori.

Nessuno obietta anche se certamente più d'uno, me compresa, non è d'accordo perché, oltrettutto, "l'eliminazione anche fisica degli oppositori"  se non fu pulizia etnica, che cos'è? 

Molto diplomaticamente interviene il sindaco, la sig.ra Caruso, esponendo un’esperienza della sua famiglia italo/slovena, tipica del territorio.

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