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genocidio degli armeni

Post n°19 pubblicato il 26 Aprile 2015 da senzaconfini2015
 

IL GENOCIDIO DEGLI ARMENI

Anche chi non ha mai sentito parlare del genocidio degli armeni non può ignorarlo dopo le parole di papa Francesco e l’eco che hanno suscitato nella stampa e da parte del governo turco, che si rifiuta di riconoscere, più che i fatti,  il termine “genocidio”, perché i fatti sono difficilmente contestabili in quanto su di essi esiste una vasta documentazione, costituita da numerose testimonianze e addirittura fotografie. Secondo i turchi si trattò della risposta dell’impero ottomano all’insurrezione degli armeni e alla necessità di difendere le proprie frontiere, e sottolineano che anche migliaia di turchi morirono nel conflitto. Comunque, dopo le parole del Papa la Turchia ha subito ritirato il suo ambasciatore presso la Santa Sede. Ma non tutto il mondo è d’accordo con la Turchia tanto è vero che 22 paesi, tra cui l’Italia, riconoscono ufficialmente il genocidio armeno. Molti altri paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, continuano a non usare il termine genocidio per timore di una crisi nei rapporti con la Turchia. Subito dopo le parole del Papa il Parlamento europeo ha votato un testo che sprona Ankara a “venire a patti con il suo passato”. Sul termine genocidio non sono d’accordo neppure alcuni storici, che lo ritengono piuttosto uno sterminio. Genocidio o sterminio che sia, la realtà è che fra il 1915 e il 1916 un milione cinquecentomila, secondo altri un milione duecentomila armeni cristiani persero la vita a causa della loro etnia e religione in un programma di eliminazione voluto dal governo dei “Giovani Turchi” ad impronta nazionalistica e tendente quindi a creare uno stato turco linguisticamente e culturalmente omogeneo, dunque uno stato di cui non avrebbero potuto far parte i molti armeni, prevalentemente di religione cristiana, allora presenti nei territori dell’Impero ottomano. 

Ma ecco le parole di papa Francesco, il 12 aprile, in San Pietro, durante la celebrazione della Santa Messa per commemorare nel mondo il “Metz Yeghérn”, il Grande Male, come viene denominato dagli armeni, – che si ricorda il 24 aprile - alla presenza di numerose autorità civili e religiose armene:  

“Cari fratelli e sorelle armeni,

 cari fratelli e sorelle!                                                                                                    

In diverse occasioni ho definito questo tempo un tempo di guerra, una terza guerra mondiale ‘a pezzi’, in cui assistiamo quotidianamente a crimini efferati, a massacri sanguinosi e alla follia della distruzione. Purtroppo ancora oggi sentiamo il grido soffocato e trascurato di tanti nostri fratelli e sorelle inermi, che a causa della loro fede in Cristo o della loro appartenenza etnica vengono pubblicamente e atrocemente uccisi – decapitati, crocifissi, bruciati vivi –, oppure costretti ad abbandonare la loro terra.

Anche oggi stiamo vivendo una sorta di genocidio causato dall’indifferenza generale e collettiva, dal silenzio complice di Caino che esclama: “A me che importa?”; «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9; Omelia a Redipuglia, 13 settembre 2014).

La nostra umanità ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, quella che generalmente viene considerata come «il primo genocidio del XX secolo» (Giovanni Paolo II e Karekin II, Dichiarazione comune, Etchmiadzin, 27 settembre 2001); essa ha colpito il vostro popolo armeno – prima nazione cristiana –, insieme ai siri cattolici e ortodossi, agli assiri, ai caldei e ai greci. Furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi. Le altre due furono quelle perpetrate dal nazismo e dallo stalinismo. E più recentemente altri stermini di massa, come quelli in Cambogia, in Ruanda, in Burundi, in Bosnia. Eppure sembra che l’umanità non riesca a cessare di versare sangue innocente. Sembra che l’entusiasmo sorto alla fine della seconda guerra mondiale stia scomparendo e dissolvendosi. Pare che la famiglia umana rifiuti di imparare dai propri errori causati dalla legge del terrore; e così ancora oggi c’è chi cerca di eliminare i propri simili, con l’aiuto di alcuni e con il silenzio complice di altri che rimangono spettatori. Non abbiamo ancora imparato che “la guerra è una follia, una inutile strage” (cfr Omelia a Redipuglia, 13 settembre 2014). Cari fedeli armeni, oggi ricordiamo con cuore trafitto dal dolore, ma colmo della speranza nel Signore Risorto, il centenario di quel tragico evento, di quell’immane e folle sterminio, che i vostri antenati hanno crudelmente patito. Ricordarli è necessario, anzi, doveroso, perché laddove non sussiste la memoria significa che il male tiene ancora aperta la ferita;  nascondere o negare il male è come lasciare che una ferita continui a sanguinare senza medicarla!”

La vicenda non è molto conosciuta per cui gioverà narrarla sinteticamente. Era il 24 aprile 1915 – quest’anno ricorre il centenario dei fatti che sto per narrare – quando cominciò lo sterminio. Ebbe inizio dai notabili, dai ricchi armeni di Costantinopoli: mercanti, banchieri, architetti, gioiellieri, farmacisti, accademici, chirurghi, scrittori, deputati, giornalisti, avvocati che, grazie alla loro posizione,  ritenevano di godere di una certa immunità anche se qualche segnale di allarme era giunto dalle zone più lontane e isolate del paese. E poi abitavano a Costantinopoli! città ricca, internazionale, cosmopolita, crocevia di commerci e di benessere, dove certe cose non potevano accadere. Il rituale era sempre il medesimo: colpi forti battuti di notte col calcio del fucile sul portone del palazzo, urla di donne e bambini e… cittadini inermi trascinati per strada dalla soldataglia e uccisi immediatamente o condotti non si sa dove. 

Così casa dopo casa, strada dopo strada, quartiere dopo quartiere, da Costantinopoli al resto del paese. Dai notabili le retate passarono ai comuni cittadini maschi, uccisi subito dopo la cattura o portati non si sapeva dove. Poi venne il turno delle donne, dei vecchi e dei bambini. Poco tempo per radunare le cose da portare con sé e poi via con un carretto, un asino, a piedi, in colonne interminabili che le privazioni e i maltrattamenti rendevano sempre più esigue o in carri bestiame stracolmi verso i 25 campi di concentramento organizzati dal governo, dove l’opera di sterminio si concludeva sempre con la morte. Nessuno riusciva a far niente perché gli ordini provenienti dal governo centrale erano di eliminazione di tutti gli armeni cristiani. Venivano risparmiati quelli che si convertivano all’islam, cosa che non accadeva quasi mai.

 

 

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