Creato da senzaconfini2015 il 31/12/2014
Libero pensiero ed analisi dei fatti sono alla base del lavoro dei collaboratori di questo blog.
 

 

La tragedia di Arsia

Post n°15 pubblicato il 06 Marzo 2015 da senzaconfini2015
 

LA TRAGEDIA DI ARSIA

di Anna Piccioni

Ci son voluti settantacinque anni perché anche a Trieste arrivasse l'eco della tragedia scoppiata alle 4.35 nelle miniere di carbone dell'Arsa, nei pressi delle città istriane di Albona ed Arsia il 28 febbraio 1940. Questa è una tragedia che ha fatto 185 vittime di cui 2/3 istriani (italiani croati sloveni), e gli altri provenienti da Bergamo, Brescia, dal Friuli e due triestini. 

Il Circolo Istria che da alcuni anni commemora ad Albona/Labin le vittime delle miniere di Arsia, quest'anno è riuscito a coinvolgere il comune di Trieste, l' I.R.C.I., l'Unione italiana della comunità di Albona, il comune di Albona/Labin, il comune di Arsa/Raša e l'associazione musicale SERENADE ENSAMBLE, per una giornata di studi venerdì 27 febbraio nell'Auditorium del Museo Revoltella.

Molte sono le ragioni che legano Trieste alle miniere di Arsia: a cominciare dal direttore Guido Segre, imprenditore, nato a Torino, ma dal 1918 residente a Trieste; l'architetto Gustavo Pulitzer Finali, i tecnici, molto giovani, provenienti dalla Studio Pulitzer; artisti come Mascherini e Carrà: il vescovo Santin che consacrò la chiesa di Santa Barbara ad Arsia. Purtroppo la storia e la politica insieme non hanno permesso il superamento in tutti questi anni delle barriere ideologiche che hanno considerato la tragedia della miniera un lutto per una sola parte del territorio, perché avvenute in un periodo che da una parte e dall'altra si vuol dimenticare: l'occupazione fascista dell'Istria. Al di là delle pressioni ideologiche bisogna ricordare quando, come e perché sono iniziate le estrazioni del carbone.

Fin dal 1920 le miniere di Arsa sono attive, ma di poco interesse; nel 1935 Guido Segre acquisisce anche le miniere del Sulcis; attraverso l'amico Chino Alessi viene presentato a Mussolini. Il Duce è interessato all'estrazione del carbone per poter portare avanti il sistema autarchico. Viene fondata l'Azienda Carboni Italiani di Roma con sede a Trieste. Per poter estrarre di più c'è bisogno di manodopera (finora i minatori venivano dai dintorni di Albona e da Pola attraverso lunghi percorsi, di molte ore, in carri e a piedi). L'ingegner Segre pensò che era necessario avere i minatori vicino al posto di lavoro. Fu bonificata la valle del Carpano e, sacrificando la terra coltivata, che poco incideva sull'economia, si iniziò la costruzione delle abitazioni di operai, tecnici e dirigenti. L'intervento di Pulitzer non fu solo quello di dare alloggi a minatori e tecnici vicino al posto di lavoro, ma di intervenire con un piano urbanistico che rispondesse alle esigenze di vita di una comunità. Nello stesso tempo progetterà la città di Carbonia nel Sulcis.

Per cercare di capire le cause della tragedia e di quelle 185 vittime è necessario analizzare la condizione degli operai. Per lo più era una manovalanza poco qualificata e quindi sottopagata, sottoposta a turni massacranti, senza riposo domenicale in quanto bisognava produrre il più possibile dovendo provvedere al fabbisogno di tutto il territorio italiano, perciò ci furono altri morti per incidenti. In seguito alle leggi razziali Guido Segre dovette abbandonare la gestione della miniera. Le decisioni sulle quantità di carbone da estrarre venivano direttamente da Roma. I ritmi dell'estrazione aumentarono in seguito alle sanzioni comminate dalla Società delle Nazioni all'Italia in seguito all'occupazione dell'Etiopa. Le rimostranze dei sindacati erano crescenti, sia di ordine morale che economiche. Ma secondo la retorica fascista “l'operaio era diventato soldato nella trincea del lavoro”.

Tuttavia il Prefetto di Pola si assunse il carico di quanto lamentavano gli operai: orari di lavoro, le multe, i licenziamenti senza ragione, le condizioni dell'ambiente di lavoro e provvide ad istituire un servizio sanitario e di pronto soccorso e alla costruzione di strade agevoli per il percorso da Pola ad Arsia. Non deve meravigliare se nel tempo ci furono vari incidenti con i loro morti. La tragedia più grande era nell'aria. L'incidente è avvenuto nella “camera 1” a 380 metri sottoterra. Una uscita di grisou, un colpo di vento: non c'era ventilazione, in pochi minuti fuoco fumo intorno.

Su quei morti della miniera ci sono responsabilità accertate: non erano previste procedure d'emergenza, non c'era personale preparato ad affrontare l'incidente, non c'erano maschere antigas; si dovette attendere i pompieri da Fiume, le maschere antigas arrivarono dai cantieri di Monfalcone, i filtri per le maschere da Venezia in aeroplano: passarono 48 ore e 185 minatori!

 
 
 

Agevolazioni agli esuli istriani e "buone leggi"

Post n°14 pubblicato il 06 Marzo 2015 da senzaconfini2015
 

Agevolazioni agli esuli giuliano-dalmati

e “buone leggi”

di Carmen Palazzolo

Nel periodo fine febbraio/primi giorni di marzo del 2015 sul quotidiano “Il Piccolo” di Trieste sono apparsi diversi articoli inerenti l’abbonamento annuale alla rete cittadina a prezzo agevolato di cui anche gli esuli giuliano-dalmati dovrebbero poter fruire. Lo sconto è davvero consistente: 5,15 € anziché 343,50 sono veramente un grande aiuto ai bisognosi... e gli esuli si sono subito precipitati a fare la richiesta negli uffici preposti allo scopo. 

Premetto che sono un’esule e che non ero fra le persone in fila per la tessera a prezzo agevolato perché quello che mi domando e domando agli esuli come me è se, 60/70 anni dopo l’evento esodo, una persona ha ancora il diritto di avere delle agevolazioni semplicemente in quanto esule. 

Secondo me ha diritto all’agevolazione se è indigente, esattamente come gli altri indigenti della città ma non perché è esule e magari con un buon reddito che gli consente di pagarsi la tessera a prezzo normale. 

E qui subentra un discorso di carattere più generale e riguardante le “buone leggi”, le vere responsabili anche di certe, diciamo così, assurdità. E mi viene alla mente una signora cinquantenne, dirigente statale, che anni fa mi disse che usufruiva ancora della riduzione ferroviaria come orfana di guerra! E le innumerevoli signore con impieghi statali che qualche decennio fa, anche se avevano un solo figlio, potevano andare in pensione con15 anni, 6 mesi e 1 giorno di servizio perché lo Stato regalava loro i 5 anni di servizio necessari per il raggiungimento del periodo minimo di contribuzione richiesto per la quiescenza, che era di 20 anni. La motivazione era lo sfoltimento dei quadri lavorativi degli anziani per dar posto ai giovani… ma sappiamo, e ne paghiamo ancora le conseguenze, quanto questo dissanguò le finanze dello Stato. Ci fu infatti un fuggi fuggi generale di signore con mariti ben sistemati come direttori di banca e professori universitari (mi riferisco a situazioni che conosco) perché, chi “approfitta” delle situazioni che gli sono favorevoli, c’è sempre. Ma sono veramente dei profittatori? O non usufruiscono semplicemente di un diritto che la legge ha loro concesso? Per quanto riguarda la quiescenza adesso, all’opposto, sembra che non sia mai il momento di andare in pensione. Negli ultimi anni i lavoratori in servizio si sono visti stravolgere i loro contratti iniziali e aggiungere anni di lavoro prima di poter godere della sospirata quiescenza… e intanto la fila dei giovani in attesa di una collocazione lavorativa si allunga. Possibile che non si riesca mai a fare delle leggi equilibrate e durature? Eppure abbiamo ben due Camere, quasi mille persone che se ne occupano!

Tornando all’abbonamento annuale ai trasporti pubblici a prezzo agevolato, a Trieste, secondo il mio parere, sì agli indigenti ma non agli esuli perché tali in quanto, dopo tanti anni dall’esodo il grave disagio dell’abbandono della terra natia, della casa e dei beni posseduti o è stato in qualche modo “compensato” o non lo sarà mai più ed allora significa che la persona è veramente bisognosa e come tale va aiutata… e mi astengo da considerazioni di altro genere.

 

 
 
 

Giuseppe Callegarini, eroe della Resistenza istriana

Post n°13 pubblicato il 03 Marzo 2015 da senzaconfini2015
 

 

Giuseppe Callegarini

eroe della Resistenza istriana

Anche se il grande pubblico non sa nulla di lui, la Patria ne ha curato il ricordo e già nel lontano 1946, su proposta dell’on. Antonio De Berti, gli ha concesso la medaglia d’oro al Valor Militare alla Memoria con la seguente motivazione: "Cittadino di elette virtù, tenace assertore dei più alti ideali di giustizia e di libertà, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 fu tra i primi a rispondere all'appello della Patria. Per oltre un anno, sprezzante di ogni pericolo, ispirato dal ricordo dell'eroico sacrificio di Nazario Sauro, fu uno dei più fervidi animatori del fronte clandestino di resistenza della città di Pola. Tratto in arresto sotto l'imputazione di complotto e di eccitamento alla rivolta, sopportò con eroico contegno, per dodici giorni consecutivi, percosse e crudeli sevizie respingendo sdegnosamente minacce ed allettamenti, fulgido esempio di italianità e di fermezza di carattere. Nel giorno del S. Natale i criminali nazifascisti, dopo averlo barbaramente ucciso, ne dispersero i resti mortali, innalzandolo al rango dei più alti Eroi della Patria".

Lo ricorda pure l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani, che l’ha più volte inserito nelle sue commemorazioni e gli studiosi, come quelli del Movimento di Liberazione del Friuli Venezia Giulia e il Circolo di Cultura Istro-veneta Istria.

Per cura di quest’ultimo il 24 dicembre 2013 sul colle di S. Giusto di Trieste è stato posto un cippo in sua memoria. Ed è proprio a seguito di questo gesto che lo storico triestino Roberto Spazzali ha ricevuto qualche mese fa una telefonata del sig. Massimo Cajola, che gli comunicava di aver scoperto nel box di un condominio di Roma una grande quantità di documenti di Giuseppe Calligarini. Il Circolo Istria, subito informato, acquisì il fondo col contributo economico della Regione FVG e il prof. Spazzali si recò a Roma a prelevarlo. Si tratta di ben 13 scatoloni contenenti – come scrive sul quotidiano “Il Piccolo” Spazzali – “…la viva documentazione di un giovane che ha attraversato un'epoca lasciando - consapevolmente - una memoria tangibile della sua esistenza” e quindi - oltre alla storia della sua vita e dei suoi interessi, dallo scautismo alla pedagogia, dalle scienze ambientali alla cinematografia documentaristica - lettere, fotografie, documenti personali, ritagli di stampa e raccolte di giornali d'epoca. Purtroppo mancano le carte della sua attività a Pola durante l'occupazione tedesca, quasi sicuramente sequestrate al momento del suo arresto. Ci sono inoltre 23 rulli di documentari e delle bobine a otto millimetri, alcune a colori. Quest’ultimo materiale è stato subito affidato alla cineteca di Gemona, l’unica in regione in grado di conservarlo nelle sue sale alla temperatura costante di 5 gradi e di provvedere all’eventuale restauro di quanto si fosse nel tempo degradato, mentre il materiale fotografico e cartaceo è stato affidato alle cure dell’Istituto per il Movimento di Liberazione del Friuli Venezia Giulia.

La presentazione al pubblico del “Fondo” alla libreria Minerva, a Trieste, mercoledì 25 febbraio 2015, ha dato nuova e più vasta visibilità a questo eroe della resistenza istriana.

Dopo i saluti del presidente del Circolo Istria, Livio Dorigo, ha preso la parola lo storico Roberto Spazzali che ha esposto ai numerosi presenti quanto ho cercato di riportare in questo scritto mentre sullo schermo gigante alle sue spalle scorrevano le immagini di fotografie e documentari di Callegarini

Giuseppe Calligarini era nato nel 1915 a La Spezia dal veneziano Ulderico, ufficiale della regia Marina, e dalla napoletana Margherita De Pasquale, discendente di una famiglia di mastri velai. Oltre a lui la famiglia comprendeva altri cinque figli: Adolfo, Ettore, Mario, Umberto e Pasqualino, quest’ultimo morto in tenera età. Al seguito degli incarichi paterni, Giuseppe si trasferisce da una città di mare all'altra finché non arriva, nel 1929, a Pola, dove si iscrive al locale liceo classico “Giosuè Carducci”. Suo padre muore mentre egli è ancora un giovinetto che estende i suoi interessi dallo scoutismo alla geografia, agli sport del ciclismo e della canoa. Nel 1935 si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Padova, dove collabora con la rivista del Guf "Il Bò", fondata da Ugo Mursia e Ruggero Zangrandi, che allora dedicava ampio spazio al cinema e al teatro.

Dopo la laurea insegna in diverse scuole, alle Magistrali di Pola e al Nautico di Lussino. 

Appassionato di cinematografia a passo ridotto, documenta la vita scolastica a Dignano e gira due documentari ad Abbazia, uno a colori di carattere turistico, con le attrezzature del Guf di Pola, che ottenne qualche lode a Cinecittà. Durante la seconda Guerra Mondiale viene arruolato nella Guardia alla Frontiera, a Villa del Nevoso, con il grado di sottotenente. Si ammala gravemente e potrebbe ottenere il congedo e pure sfruttare l'alettante proposta del professor Lorenzi che lo ha nominato suo assistente, ma preferisce rimanere in servizio e, su incarico del suo comando, realizza nell'autunno 1942 il documentario "Frontiera, frontiera" che proietta poi ai suoi soldati e anche a Pola. Il taglio risente della retorica del tempo, ma le immagini sono di grande impatto e il soggetto è quasi neorealista con i soldati chiamati a interpretare loro stessi. Pensa pure di partecipare a un concorso di cinematografia e forse perfino al festival di Venezia. Da alcuni fotogrammi del documentario ricava una mostra fotografica ma, a causa di gravi problemi di salute, dopo lunghe degenze, viene congedato. L'armistizio dell’8 settembre 1943 lo sorprende a Pola, dove probabilmente inizia a collaborare con la rete clandestina militare che cercava di organizzare perlomeno una resistenza passiva in città. A questo scopo inizia a sollecitare la collaborazione di amici, ex commilitoni ed ex scolari. La sua attività non passa però inosservata e, in occasione di alcune retate, le SS e il fascista Ottone Niccolini (membro della SIPO) perquisiscono la sua abitazione senza trovar niente. Egli continua però con le riunioni, svolge opera di propaganda, diffonde manifestini, incita i militari alla diserzione e raccoglie informazioni e materiali per i partigiani. Aveva allacciato pure contatti con il CLN di Trieste. Benché sollecitato a lasciare Pola, si rifiuta di farlo. Alla fine del 1944 il cerchio si chiude e, il 13 dicembre 1943 viene arrestato, forse a causa di una lettera giuntagli da Roma, con l'accusa di essere l’autore di alcuni volantini. Sottoposto a sevizie e torture per mano del tenente Prasch e dello stesso Niccolini non cede e non rivela i nomi degli altri antifascisti. Alla fine il tenente Prasch ordina la sua esecuzione, che avviene il 24 dicembre 1944 in uno scantinato della sede delle SS in via Smareglia, a Pola. Il corpo non viene neppure restituito alla famiglia e tuttora è ignoto il luogo di sepoltura, forse gettato in mare. Dopo la morte, le SS devastano la sua abitazione.

Però l'accanimento su Callegarini non era finito: in un volantino del Movimento Popolare di Liberazione, Viktor Matkovi„ (Arsen) lo indicava, assieme ad Antonio De Berti, tra i maggiori responsabili della mancata unità antifascista tra italiani e croati in Istria, addirittura "colpevoli" dei più gravi patimenti inferti dai nazisti alla popolazione italiana.

Ucciso due volte. 

 

 
 
 

Lettera di un condannato a morte

Post n°12 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da senzaconfini2015
 

Lettera di un condannato a morte

Conservo da anni nel mio archivio - aspettando l’occasione, il luogo e il tempo per renderla pubblica - la lettera di un condannato a morte e quella della figlia, che anni fa questa mi spedì tramite una comune amica per la sua pubblicazione sul periodico "Comunità Chersina" di cui al tempo ero il direttore editoriale. La figlia ebbe poi un ripensamento e mi pregò di non rendere pubblico il documento. Desiderio che ovviamente esaudii.

Da allora sono passati molti anni e anche la figlia del condannato è deceduta. Non so se ci sono altri eredi e ma se ci sono spero che non se l'abbiano a male per il mio gesto in quanto  - a mio avviso - la lettera è un documento esemplare.

Ecco le copie delle due lettere, di cui possiedo pure gli originali ma non ho le competenze tecniche per riprodurle su questo blog

Carissimi figli! (I ... indicano le parole che non sono riuscita a decifrare)

Nel momento che scrivo queste poche righe non so nulla di voi – come voi pure di me. – Il pensiero … lacera e trafigge il cuore senza ucciderlo.- Non dispero di essere fra Voi nel più breve tempo, perché chi non ha fatto mai male non ha nulla da temere. –

Se il destino mi sarà più crudele e io dovrò innocente subire delle privazioni o ancor peggio; vi prego di non minimamente pensare alla vendetta, perché la vendetta è la più grande viltà e bestialità che l’uomo possa commettere (il più grande peccato)! Perdonate! Nel perdono e nella preghiera avrete la consolazione del Signore, che vi guiderà nella vostra vita futura. –

Seguite il passo che vi indica il vostro padre che tanto vi ama e non sbaglierete. –

Amatevi e aiutatevi fra voi, e consolate la vostra povera mamma, che tanto soffre per me e per voi.

Tanti saluti e baci -  Vostro papà

Carissima Mercedes!

L’unico pensiero che mi lacera il cuore sei tu! Ti vedo soffrire, ti vedo annientata dal dolore. Calmati – tranquillizzati! Spera nel Signore e vedrai la consolazione.

Se io dovrò soffrire e più ancora, essere da te per sempre allontanato - … che quello che dissi ai nostri figli - … assieme nel dolore e perdonate, ma nel medesimo tempo fieri di avere un marito e padre, che pensa sempre per voi – che non à mai fatto male a nessuno – ma à cercato in ogni occasione di fare il bene. Perciò non dispero di essere nel tuo braccio fra poco ti saluto e bacio

                                                    Tuo per sempre

                                                  (firma illeggibile)

Lettera della figlia (copia) 

Carissima,

mi scusi se la disturbo per una cosa che mi sta a cuore da tanto tempo. Come le ho parlato, la copia della lettera che allego ci è pervenuta da Trieste e precisamente dalle carceri “Coroneo” dove mio padre era rinchiuso. Era l’anno 1944. Non mi dilungo di più perché l’unico mio scopo è quello di far conoscere ai miei chersini chi era mio padre. Un uomo buono e onesto che per 32 anni ha insegnato nelle scuole elementari italiane.

Come le ho già detto, avrei tanto piacere che la lettera di mio padre venisse pubblicata nel “Giornalino della Comunità (Chersina)” con sottoscritti solo i nomi dei figli MERI – DOMENICO.

Si vorrei tanto che nella mia Cherso tutti fossero amici, fratelli e si amassero.

Io nella mia vita ho fatto di tutto per poter realizzare ciò che mio padre mi ha insegnato e oggi sebbene affranta dal dolore  per la perdita del mio caro Lino (il marito) mi sento in pace con me stessa.

Ringraziando la saluto e la abbraccio con tanto affetto 

Meri                                                        

Il messaggio di pace delle due lettere è chiaro anche se non tutte le parole di quella del padre sono comprensibili ma, assieme alla lettera della figlia, ben descrive la situazione, specie se si aggiunge il fatto che questo anonimo signore non ritornò mai più a casa.

Entrambi i documenti hanno un valore: la fiducia di quest’uomo di ritornare presto in seno alla famiglia, benché tema il peggio (che nemmeno nomina esplicitamente) perché non ha mai fatto del male a nessuno: ma quanti, come lui, ritornarono a casa fiduciosi o si affidarono tranquilli a coloro che erano venuti a prelevarli, convinti di non aver nulla da temere “perché non avevano mai fatto del male a nessuno”!? … e non ritornarono mai più!

E poi quella raccomandazione: 

“Vi prego di non minimamente pensare alla vendetta, perché la vendetta è la più grande viltà e bestialità che l’uomo possa commettere (il più grande peccato)!

"Perdonate!"

Non so se la moglie e i figli perdonarono gli aguzzini del loro congiunto ma lui – come Gesù Cristo sulla croce – poteva farlo!

E’ una lettera che merita di essere conosciuta: perché è edificante pensare che anche in quel periodo, in cui accaddero le atrocità che ci sono note o abbiamo subito, anche per i più futili motivi, e la vendetta sicuramente imperava, esistevano persone, a dir poco, buone e generose; per costituire uno stimolo alla riflessione di quanti non riescono a superare le brutture subite; e per i tempi odierni, in cui le atrocità continuano ad accadere.

 
 
 

La I Guerra mondiale della povera gente

Post n°11 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da senzaconfini2015
 

LA I GUERRA MONDIALE DELLA  POVERA GENTE

 Quella che traspare dall’articolo precedente e dalle lettere di Marco Carvin e quella che ci è stata raccontata a scuola è la guerra degli eroi, dei giovani agiati e colti che andarono a combattere volontariamente per l’unità d’Italia. Accanto a questo c’è però il vissuto della guerra della maggioranza dei soldati della penisola italiana e di tutta Europa chiamati alle armi senza sapere perché. Una massa enorme di persone quasi tutte analfabete, che parlavano soltanto il loro dialetto e non si capivano neppure con quelle provenienti dai paesi vicini al proprio; che non sapevano nulla di unità d’Italia, di Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Vittorio Emanuele II; che non sapevano dov’erano Trieste e Trento che dovevano essere liberate. Essi venivano strappati contro la loro volontà alle proprie famiglie, al cui sostentamento il loro contributo era essenziale. Per molti la divisa, il cappotto, gli scarponi erano  i primi indumenti nuovi e caldi della loro vita; il rancio militare il sicuro alimento quotidiano contro l’incertezza patita a casa. Ciò nonostante essi non avevano voglia di combattere perché temevano per la propria vita e la propria incolumità, consapevoli del fatto che senza di loro o con loro invalidi la famiglia che avevano lasciato a casa sarebbe stata ancora più povera. Quando veniva comandato l’attacco molti non volevano uscire dalle trincee e gli ufficiali dovevano costringerli a farlo con la minaccia delle armi. Per non affrontare la battaglia, appena si presentava l’occasione, si arrendevano al nemico.

 

È di queste persone che è costituita la massa dei milioni di caduti, eroi anonimi e loro malgrado, spesso senza una tomba.

 
 
 

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