Senza fallo

I mari del Sud


Oggi mi è venuta voglia di fare come i blogger seri, che pubblicano poesie e pensieri profondi, così, tanto per vedere cosa si prova. Tornerò presto a fare la cazzona come più mi si addice.Così metto questa poesia di Pavese, in cui lui e il cugino Silvio salgono sulla collina di Moncucco, sopra Santo Stefano Belbo. Questa è la collina, così come si vede da casa mia, purtroppo con un po' di foschia.E' una poesia che amo particolarmente perché sento la lingua, gli accenti e la scabra evocatività della mia gente. Scusate se non so dire di più e meglio, ma "tacere è la nostra virtù". 
 I mari del Sud (a Monti)Camminiamo una sera sul fianco di un colle,    in silenzio. Nell'ombra del tardo crepuscolo    mio cugino è un gigante vestito di bianco,    che si muove pacato, abbronzato nel volto,    taciturno. Tacere è la nostra virtù.    Qualche nostro antenato dev'essere stato ben solo    - un grand'uomo tra idioti o un povero folle -    per insegnare ai suoi tanto silenzio.    Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto    se salivo con lui: dalla vetta si scorge    nelle notti serene il riflesso del faro    lontano, di Torino. "Tu che abiti a Torino... "   mi ha detto "...ma hai ragione. La vita va vissuta    lontano dal paese: si profitta e si gode    e poi, quando si torna, come me a quarant'anni,    si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono".    Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,    ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre    di questo stesso colle, è scabro tanto    che vent'anni di idiomi e di oceani diversi    non gliel'hanno scalfito. E cammina per l'erta   con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,    usare ai contadini un poco stanchi.   Vent'anni è stato in giro per il mondo.    Se n' andò ch'io ero ancora un bambino portato da donne    e lo dissero morto. Sentii poi parlarne    da donne, come in favola, talvolta;    uomini, più gravi, lo scordarono.   Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino    con un gran francobollo verdastro di navi in un porto    e auguri di buona vendemmia. Fu un grande stupore,    ma il bambino cresciuto spiegò avidamente    che il biglietto veniva da un'isola detta Tasmania    circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,    nel Pacifico, a sud dell'Australia. E aggiunse che certo    il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.    Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero    che, se non era morto, morirebbe.    Poi scordarono tutti e passò molto tempo.    Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,    quanto tempo è trascorso. E dall'ultima volta    che son sceso a bagnarmi in un punto mortale    e ho inseguito un compagno di giochi su un albero    spaccandone i bei rami e ho rotta la testa    a un rivale e son stato picchiato,    quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,    altri squassi del sangue dinanzi a rivali    più elusivi: i pensieri ed i sogni.    La città mi ha insegnato infinite paure:    una folla, una strada mi han fatto tremare,    un pensiero talvolta, spiato su un viso.    Sento ancora negli occhi la luce beffarda    dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.    Mio cugino è tornato, finita la guerra,    gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.    I parenti dicevano piano: "Fra un anno, a dir molto,    se li è mangiati tutti e torna in giro.    I disperati muoiono cosi ".    Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno    nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento    con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina    e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.    Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi    e lui girò tutte le Langhe fumando.    S'era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza    esile e bionda come le straniere    che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.    Ma usci ancora da solo. Vestito di bianco,    con le mani alla schiena e il volto abbronzato,    al mattino batteva le fiere e con aria sorniona    contrattava i cavalli. Spiegò poi a me,    quando fallì il disegno, che il suo piano    era stato di togliere tutte le bestie alla valle    e obbligare la gente a comprargli i motori.    "Ma la bestia"  diceva "più grossa di tutte,    sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere    che qui buoi e persone son tutta una razza".    Camminiamo da più di mezz'ora. La vetta è vicina,    sempre aumenta d'intorno il frusciare e il fischiare del vento.    Mio cugino si ferma d'un tratto e si volge: "Quest'anno    scrivo sul manifesto: - Santo Stefano   è sempre stato il primo nelle feste    della valle del Belbo - e che la dicano    quei di Canelli ". Poi riprende l'erta.    Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio,    qualche lume in distanza: cascine, automobili    che si sentono appena; e io penso alla forza    che mi ha reso quest'uomo, strappandolo al mare,    alle terre lontane, al silenzio che dura.    Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.    Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell'altro    e pensa ai suoi motori.                                       Solo un sogno   gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,    da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,    e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,    ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue    e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.    Me ne accenna talvolta.                                       Ma quando gli dico    ch'egli è tra i fortunati che han visto l'aurora    sulle isole più belle della terra,    al ricordo sorride e risponde che il sole    si levava che il giorno era vecchio per loro.