L'altro giorno sono andata a vedere questo film. Non posso incolpare nessuno perché oltretutto sono andata da sola. E' il film del coreano Kim Ki-duk che ha vinto il Leone d'oro al festival di Venezia. Cercando su Internet si trovano recensioni che definire entusiastiche è dire poco. Non voglio aggiungere la mia, non sarei in grado, vi lascio soltanto qualche impressione.
Non so cosa dire. Bello o brutto, piaciuto o non piaciuto sono categorie che non descrivono quello che si prova vedendo questo film, fermo restando che sulla qualità non si discute. Un pugno nello stomaco. Una violenza così sorda e raccapricciante che è difficile persino riconoscerla come appartenente al nostro pensiero, marca un universo differente, una cultura altra, anche se cristiana.Non so che altro aggiungere. Guardatelo se avete il coraggio, non dite poi che non ve l'avevo detto.Scacciato il turbamento per l'atrocità della violenza, delle molte suggestioni visive disseminate nel film (al punto che Curzio Maltese ha parlato di un Van Gogh coreano), nella mia mente rimangono le immagini delle macchine. Macchine utensili di un un artigianato proto-industriale, sembrano fatte apposta per mutilare e uccidere, ma anche per dare il lavoro e la vita, simboli di orrore e di nostalgia per un'economia industriale rozza e primordiale, un individualismo orgoglioso e tragico. Nel racconto dell'artigiano che sta per uccidersi, lo slum pulsante della rude vitalità della meccanica, cederà il posto ai grattacieli di un capitalismo spersonalizzato.Questo è quello che mi è rimasto. La vicenda umana narrata, storia di dolore, vendetta, redenzione, parla un linguaggio che non mi appartene, un assoluto la cui matrice non so distinguere se religiosa o orientale, in ogni caso troppo distante per toccare le mie corde.