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MALATTIA FLAGELLO DEL PASSATO LA TUBERCOLOSI

Post n°68 pubblicato il 03 Dicembre 2020 da vito.marino01

MALATTIA FLAGELLO DEL PASSATO: LA TUBERCOLOSI

Nel lontano passato e fino agli anni '50 del secolo scorso, la denutrizione provocata dalla povertà e il focolaio d’infezione per mancanza d’igiene procurava il diffondersi di malattie molto gravi, di spaventose pandemie, che a volte dimezzavano addirittura la popolazione colpita. Le epidemie, che a volte diventavano pandemie si verificavano in media ogni 20 anni. Tuttavia la popolazione aumentava lo stesso in barba alle continue guerre e a questi “castichi di Dio”, per come erano considerate allora le epidemie.

In tempi recenti la scienza medica si vantava di avere sconfitto tante malattie con la prevenzione, l'giene, e con le medicine e vaccini di ultima istituzione. Si pensava addirittura che nessuna pandemia avrebbe più colpito l'umanità.

Una delle malattie più pericolose del passato fu la “Tubercolosi” (o tisi o TBC), con alta percentuale di mortalità, specialmente infantile, che arrivava anche al 90%.

E' giusto ricordare che in quegli anni la popolazione appartenente alle classi sociali più povere vivevano in tuguri composti da una sola stanza, senza luce, senz'acqua potabile, e in coabitazione con gli animali domestici, come l'asino, la capretta o il maialetto e le galline.

A favorire il diffondersi della malattia, determinante fu la tassa sulle porte e finestre, applicata nel 1861 assieme a moltissimi altri bazzelli, dai Savoia; per cui, per evitare di pagare quella tassa, si cominciarono ad avere abitazioni con la sola apertura d’ingresso, senza possibilità di scambio d’aria. La tubercolosi fino al 1950 circa mieteva numerose vittime specialmente fra i poveri. Una conferma la troviamo Sul n.1 del “Risveglio” del 24 aprile del 1909 sull’articolo “Cronaca” : - <<Giorni addietro una povera donna è morta di TBC al n.117 del Corso Garibaldi. Anche da noi poco o niente si fa contro la diffusione di questo terribile flagello>>. Sul n. 9 del “Nuovo Risveglio” del 20/8/1911, G. Bonagiuso ci da una chiara documentazione sulla gravità della malattia di allora: <<La tubercolosi, specialmente sotto forma polmonare, si diffonde ovunque spaventosamente. La sua marcia insidiosa non allarma come la guerra, la carestia, il colera, la peste e altri morbi epidemici; la sua strage non impressiona, eppure è più grande dei morbi già citati messi insieme. Le statistiche della Germania provano che ivi i casi di TBC aumentano di circa un milione l’anno. In Italia non si spende un soldo per i poveri tisici, lasciati morire miseramente. Anche a Castelvetrano abbiamo oltre 100 tubercolosi. Per bocca di un assessore abbiamo appreso che in un sol giorno furono denunciati sette casi di decessi per tubercolosi>>.

Un articolo del giornale “L’Ora” del 8/5/1900 a firma Colajanni riporta gli esiti di un congresso svoltosi a Napoli al quale hanno fatto parte illustri cultori delle scienze mediche, provenienti da ogni parte d’Europa. Nel convegno, il dott. Rossi Doria e il prof. De Giovanni dell’Università di Padova misero in evidenza che: <<La tubercolosi è la malattia dei poveri e dei lavoratori e che è semplicemente vano ogni sforzo per combatterla se non è accompagnato dal rilevamento delle condizioni economiche che, a sua volta, non può essere serio e duraturo, se non è accompagnato dalla libertà politica>>. Nello stesso congresso si citò che <<a Napoli, città di 500.000 abitanti, nel 1873 ci furono 1216 morti, nel 1895 aumentarono a 1894, e solo nel 1899 scesero a 1642 morti>>.

Come provvedimento a questo scempio, si vietò, per ragioni d’igiene, di allevare animali nella stessa stanza d’abitazione o di lasciarli liberi per le strade o piazze. Purtroppo, gli animali domestici, specialmente i maiali, erano un piccolo tesoro per quella povera gente e questo provvedimento aggravò la già triste situazione. Ricordo che nel 1950 presso tutte le scuole si fece una campagna antitubercolare, con conferenze, temi in classe, e regalando a tutti gli scolari un “segnalibro della salute” con il riporto del decalogo, cioè delle dieci norme da rispettare contro detta malattia.

VITO MARINO

 

 
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CIURI, LE CANZONI D'AMORE SICILIANE

Post n°67 pubblicato il 30 Novembre 2020 da vito.marino01

 

 “CIURI”, LE CANZONI D’AMORE SICILIANE

Nella Sicilia d'altri tempi il canto sembrava innato in ogni persona; infatti, cantavano un po' tutti: l'artigiano nella sua bottega, i ragazzi per strada, la casalinga mentre tesseva o accudiva alla casa. Si cantava per allegria giovanile, ma anche per dimenticare i guai della vita o per “allianarisi” (per divertimento), poiché la vita allora presentava pochi svaghi.

Chi cantava era sempre il popolino, sia pure oppresso dal lavoro pesante e dai mille problemi quotidiani da risolvere. Si cantavano canzoni popolari già note, spesso composte da contadini poeti sul posto di lavoro. Non esisteva nulla di scritto per l’analfabetismo molto diffuso fra la popolazione. I canti erano trasmessi oralmente da padre in figlio.

Mi fa piacere ricordare che le canzoni siciliane di quei tempi avevano una melodia arabeggiante; certamente la lunga dominazione araba in Sicilia aveva lasciato una traccia indelebile anche in questo campo. Nel libro “il Gattopardo” l’autore, T. di Lampedusa così scrive: -“…cantavano alcune strofe della “Bella Gigogin” trasformate in nenie arabe, sorte cui deve assuefarsi qualsiasi melodietta vivace che voglia esser cantata in Sicilia”. Tutt’ora, in molte canzoni siciliane popolari o nei canti natalizi siciliani di antica origine si nota questa melodia arabeggiante.

Intorno al 1800 sorse fra le persone del basso ceto sociale un genere di canzone chiamato “ciuri”. Si trattava di stornelli d’amore in cui era invocato, come simbolo, un fiore. Quando si trattava di un amore desiderato ardentemente, ma contrastato o sfortunato, si citava generalmente il fiore d’arancio, di gelsomino o di rose rosse; quando si trattava di un amore andato male, con sentimenti di fiero odio e disprezzo, si citava il fiore d’aloe o di canna. La più nota canzone di questo filone è “ciuri ciuri”.

Molto sentimentale e folcloristica (oggi diremmo) era la serenata al chiar di luna, nata dalla voce calda e giovanile dell’innamorato, che si levava nella notte verso il balcone della sua bella. Erano canti d’amore ricchi di lusinghe e sentimenti avvolti dal fascino della musica, complice il silenzio della notte; spesso a cantare non era l’innamorato in persona.

Si cantavano canzoni d’amore anche in campagna in occasione della vendemmia e della raccolta delle olive, con canti collettivi o di solisti con voce tenorile per farsi notare dalle ragazze presenti.

Eravamo in piena civiltà maschilista, quando la donna non aveva diritti ma molte limitazioni nella società. I due romanzi: “padre padrone” di Gavino Ledda e del delitto d’onore” di Giovanni Arpino sono ambientati in quel periodo storico, molto duro per la donna.

Anche attraverso le canzoni d’amore si nota la condizione di inferiorità della donna.

Nella nota canzone “Vinni la primavera” (è arrivata la primavera) si nota la sofferenza di Rosa che, rinchiusa in casa seguendo la morale della civiltà contadina maschilista, guarda attraverso la porta messa a “vanidduzza” (socchiusa) se passa qualche giovane spasimante e sogna e soffre perchè il “Focu d’amuri lu cori m’addumò” (fuoco d’amore il cuore mi ha acceso).

In un’altra canzone: “Nicuzza” (Nicolina), lo spasimante promette subito, come promessa d’amore, di sposare la donna amata “Si tu pi zitu ti pigghi a mia iu ti maritu quannu vo tu” (se tu per fidanzato ti prendi a me, il ti sposo quando vuoi tu). Allora ogni promessa d’amore si concludeva col matrimonio.

In un famoso brano: “La vinnigna” (la vendemmia) una ragazza innamorata considera la vendemmia come “la staciuni di l’amuri” (la stagione dell’amore), perchè, assieme al carnevale, erano le uniche occasioni per una ragazza di allora, di potere uscire di casa e avvicinare un giovane e sperare così nel matrimonio, il massimo che la vita potesse offrire ad una giovane.

Per evadere da questa sua situazione di quasi reclusa, le donne aspettavano feste religiose, fidanzamenti, matrimoni e morte di parenti o di amici di famiglia per avere la possibilità di uscire di casa ed incontrare amiche e parenti e potere dialogare. Un proverbio difatti diceva: “li fimmini vonnu o zitaggi o morti o festi fora li porti (fuori le mura di casa). Un altro proverbio di allora, diceva: “La figghia a diciott’anni o è maritata o la scanni”. Un altro diceva “donna a dicirottu e omu a vintottu” In pratica, in linea generale,il matrimonio per amore, non doveva esistere. Un proverbiodi quei tempi diceva in proposito: “Cu si marita p’amuri, campa sempri cuduluri”.L’amore doveva sorgere dopo il matrimonio; un proverbio, infatti, diceva: “va a lu lettu ca veni l’affettu”.

Purtroppo, contro le meraviglie della natura non si può andare, anche allora il fuoco d’amore colpiva i giovani, prova ne sia che un giovane innamorato andava a fare le serenate alla sua bella e “li fuitini” per amore succedevano molto spesso. Inoltre i genitori comprensivi, c’erano anche allora e i matrimoni d’amore esistevano lo stesso.

Per una ragazza, l’unico scopo della sua vita era il matrimonio ed avere tanti figli; perciò, spesse volte, essa passava le sue giornate a prepararsi il corredo ed a sognare il principe azzurro.

Il matrimonio era ancora considerato da tutti sacro ed indissolubile e gli sposi si recavano al matrimonio con un gran senso di responsabilità.

 

VITO MARINO 

 

 
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BALLI E POESIA POPOLARE SICILIANA

Post n°65 pubblicato il 28 Novembre 2020 da vito.marino01

 

                                           BALLI E POESIA

Fra la ricca cultura siciliana, spesso frutto di analfabeti, c'è da ricordare i racconti “li cuntura”, i proverbi, le metafore, le frasi idiomatiche, la gestualità, i balli popolari, la poesia. Nella storia spirituale plurisecolare della Sicilia si trovano le radici dell’animo popolare; in essa si scoprono fantasia e realtà, mondo pagano, musulmano e cristiano, superstizioni e scetticismo, volgarità e cavalleria, l’attruvatura e il fatalismo, mondo antico e mondo moderno: tutto un insieme culturale amalgamato, che costituisce il folclore della Sicilia. BALLI Per quanto riguarda i balli, oltre alla tarantella e alla ballata siciliana, allora erano molto in voga quelli classici: valzer, mazurca, tango, contraddanza. Verso il 1943 (ero ancora bambino), a causa della guerra, eravamo sfollati in campagna in casa d’amici; ricordo ancora molto bene “Aspanu” un giovane contadino che, per passare il tempo, ballava da solo in maniera originale: si toglieva le scarpe e poi eseguiva dei salti in alto e nello stesso tempo incrociando ed allargando le gambe. Il Favara, un noto ricercatore di musiche, canti e balli antichi, parlando dei balli ormai scomparsi, cita un ballo a “chiovu”, descrivendolo in maniera uguale ai miei lontani ricordi.

Salomone Marino, parlando del Carnevale, cita dei balli cosiddetti di società: “Chiovu, Purpu, Tarascuni, Capona, Ruggera, Virdulidda, Paparina e Fasola che rassomiglia alla tarantella napoletana e balli moderni (per quei tempi) come la Polka e la Quatriglia.

POESIA Forse per eredità tramandataci dagli arabi, e dalla “Scuola Siciliana di Federico II, sulla poesia si può affermare che, anche fra la popolazione analfabeta dei vecchi tempi, c’erano molti poeti dialettali, capaci di improvvisare strofe in rima.

I temi fondamentali di questo genere di poesia erano “amuri, gilusia, spartenza, sdegnu” (amore, gelosia, separazione, odio); l’ottava era l’espressione tipica della metrica popolare, di cui detti poeti si servirono nelle mirabili composizioni anonime.

Sempre a causa dell’analfabetismo, per tramandare ai posteri certi importanti avvenimenti, il popolo si serviva della rima poetica, perché era più facile a ricordarsi e a tramandarsi oralmente da padre in figlio o da un luogo ad un altro.

Siccome la memoria fa brutti scherzi, le poesie erano sempre a rischio di perdersi nel nulla. Per fortuna alcuni ricercatori riuscirono a salvarne moltissime e raccolte. Pitré, Salomone-Marino, Vigo e Guastalla furono i principali ricercatori.

Siccome molti poeti popolari erano in grado d’improvvisare un discorso in rima poetica, spesso la poesia diventava un motivo di sfida fra i migliori poeti popolari. Cercando fra i miei velati ricordi lontani, vedo alcuni poeti “a lu chianu” (Piazza Garibaldi), per Carnevale, posti su dei carri, che si prendevano in giro a vicenda con versi poetici improvvisati oppure recitavano delle poesie scherzose e “vastase”, che provocavano le risa degli astanti.

La poesia estemporanea (o poesia improvvisata, o a braccio) è un genere poetico in cui la creazione letteraria avviene di fronte a un pubblico, con tecniche di improvvisazione, sulla base di temi proposti al momento dell'esibizione (e, pertanto, variabili di volta in volta).

Tale forma poetica si realizzava, spesso, come improvvisazione musicale, in forma cantata.Fra queste composizioni improvvisate c'erano i canti del carrettiere, quando costoro riunitisi in privato o in pubblico si sfidavano con canti improvvisati..

All'immediatezza dei contenuti dovevano aggiungersi, quali caratteristiche ricercate, l'efficacia e sottigliezza dei testi.

Il genere poetico viene spesso associato al mondo rurale, un contesto culturale in cui non era insolito imbattersi in figure di contadini dotati di quest'abilità, a volte considerata un "dono di natura", di improvvisare a braccio su temi che venivano suggeriti di volta in volta. L'esibizione di queste figure poteva avvenire per diletto (ad esempio, in compagnie conviviali), ma anche in esibizioni o sfide in pubblico, situazioni istituzionalizzate, tipiche del genere, che sopravvivono ancora all'inizio del XXI secolo.

Spesso la poesia era un motivo di sfida fra i migliori poeti popolari. Famosissimo rimane “Petru Fudduni” considerato, anche dai contemporanei, come il migliore fra i poeti popolari siciliani, ricchissimo di umori, sensibile, fine e vivace dicitore estemporaneo. E' rimasto famoso per le sue sfide che egli ebbe con i più famosi poeti del suo tempo. Cercando fra i miei velati ricordi lontani, vedo alcuni poeti contadini, “a lu chianu” (Piazza Garibaldi) di Castelvetrano, per Carnevale, posti su dei carri, che, improvvisando, si prendevano in giro a vicenda con versi poetici.

Questo genere di improvvisazione ha origini molto antiche e radici in varie culture, all'interno di tradizioni non solo popolari ma anche colte. Per quanto riguarda la cultura occidentale mediterranea, si possono citare i giochi e le competizioni conviviali dell'antica Grecia, in cui l'improvvisazione poetica si esprimeva durante i simposi.

Un antico poeta popolare siciliano ha scritto:

- Cu voli puisia, vegna ‘n Sicilia, = Chi vuole poesia, venga in Sicilia

ca porta la bannera di la vittoria. = che porta la bandiera della vittoria

Li so’ nimici si avirrannu ‘nviria = I suoi nemici ne avranno invidia

ca Diu ci desi a idda tanta gloria. = perché Dio diede a lei tanta gloria

Canti e canzuni n’avi centumila = Canti e canzone ne ha centomila

e lu po’ diri cu grannizza e boria. = e lo può dire con grandezza e superbia

Evviva, evviva sempri la Sicilia = Evviva evviva sempre la Sicilia

la terra di l’onuri e di la gloria. = la terra dell’onore e della gloria

Purtroppo allora i poeti, i cantastorie e i “santara” o “pinci santi”, trascorrevano una vita povera; un proverbio allora diceva: “Pueti, cantastori e pinci santi, sira e matina campanu scuntenti”.

Una testimonianza del 1860 ce la dà C. Abba in “Da Quarto al Volturno”. Egli scrive testualmente: - “... Ho inteso di bellissime storie verseggiate dal popolo che qui è tutto poeti; storie d’amore e di sangue versato per gelosie tremende....” -.

VITO MARINO

 

 

 

 

 

 
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AMORI CLANDESTINI DEL SIGNURINU

Post n°63 pubblicato il 20 Novembre 2020 da vito.marino01

 

GLI AMORI CLANDESTINI DEL “SIGNURINU”

Dal “Risveglio”, giornale del Circolo della Gioventù, n.9 pag. 4 del 14/8/1904, si legge: << Le cronache dei giornali sono sempre piene dei dolorosi e tristi drammi della seduzione, dove le povere ragazze restano vittime di emeriti mascalzoni, che vanno a caccia di vergini, come si va a caccia di pettirossi o di beccacce. Solo la rivoltella di quanto in quanto riesce a destare l’attenzione del pubblico indifferente e cinico>>.

Questo trafiletto rispecchia la realtà di un periodo storico, quando i benestanti, anche sposati si annoiavano senza far nulla e passavano il loro tempo nei circoli o nei bar del paese a fare pettegolezzi e a vantarsi delle proprie avventure amorose. Allora la donna non lavorava, quindi non aveva indipendenza economica e dipendeva dal padre, dal fratello o dal marito; una donna che restava vedova senza indipendenza economica aveva la possibilità di fare queste scelte: sposarsi di nuovo se trovava un pretendente, andare ad abitare presso un fratello o una sorella o passare a fare la prostituta. In quest’ultimo caso il benestante cacciatore “lu signurinu”, che l’attendeva al varco, aspettava proprio questo momento per gustarsi questo bel bocconcino. Succedeva pure che una ragazza rimasta senza il padre e la madre e, principalmente senza risorse economiche proprie o della parentela doveva anche lei scegliere per forza la via della prostituzione. Anche in questo caso il benestante “l’aiutava” a intraprendere la carriera passando prima dalle sue grinfie.Ma, il “giovin signore”, per come l’avrebbe appellato il Parini, teneva a disposizione dei suoi desideri anche una donna, che pagava regolarmente: “la mantinuta”. Fra i galletti dei benestanti non avere una donna fuori la cerchia familiare era una grande vergogna e non era tenuto in considerazione fra gli appartenenti alla stessa classe sociale. Inoltre, in casa teneva una cameriera, per i lavori domestici, ma della quale si serviva per i suoi desideri. Se questa restava incinta la faceva abortire da qualche “mammana” oppure portava il bambino appena nato “a la rota” (rota dei projetti), per l’adozione. Nel caso più felice, quando voleva disfarsi della cameriera ormai sfiorita, la faceva sposare con un suo contadino povero e regalava loro una catapecchia per andare ad abitarvi o un pezzetto di terreno agricolo.

VITO MARINO

 

 

 
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A FACCI 'N CULU DI NOTTI

Post n°62 pubblicato il 20 Novembre 2020 da vito.marino01

 

A FACCI ‘N CULU DI NOTTI

Durante la civiltà contadina, spesso da me citata, regnava il maschilismo. La donna non aveva diritti, ma solo doveri da compiere.

L’accentramento delle abitazioni nei grossi centri e nelle città, escludono la donna dai lavori nei campi; esse restano in casa dove filano il lino, la lana, il cotone, spesso possiedono un rozzo telaio con cui tessono la tela, la imbiancano, la tagliano e confezionano camicie e mutande per i bisogni della famiglia. Inoltre, con i firritti o con “li busi” confezionavano maglioni, sciarpe e coperte; inoltre badano al maiale, alle galline, ai bambini e all’amministrazione del poco denaro che porta in casa il marito col suo lavoro. Esse durante il lavoro cantavano allegramente come era l’usanza di allora. Allora tutti cantavano: l’artigiano nella sua bottega, i ragazzi per strada, i contadini a squarciagola in campagna Al tempo della raccolta delle messi le donne aiutano gli uomini a raccogliere i covoni, a spigolare, a raccogliere le olive, le mandorle, a vendemmiare. Siccome le abitazioni dei contadini erano anguste, costituite spesso da una sola stanza con coabitazione con il maiale, l’asino e le galline, nei piccoli paesi e nelle periferie delle città, molti di detti lavori, ma anche quelli secondari dell’agricoltura, come le ‘ntrita (schiacciare e selezionare le mandorle) assiddiiri (pulire e selezionare il frumento per la semina e per l’alimentazione), venivano eseguiti fuori, per strada o nei cortili.

Durante l’estate per sfuggire all’arsura stagnante nelle loro anguste abitazioni, si sedevano fuori, all’ombra, davanti alla porta di casa, per godersi un poco di fresco. Nello stesso tempo eseguivano i lavori sopra detti. Spesso anche le vicine di casa facevano lo stesso e così, per passare il tempo intrecciavano lunghe conversazioni, che si concludevano sempre con “lu sparliu” (parlare male delle persone).

Siccome le donne non dovevano guardare per strada, perché qualche uomo passante, poteva pensare male, esse si sedevano con le spalle rivolte verso la strada. Questo modo di sedersi era chiamato scherzosamente allora “a facci ‘n culu di notti”.

Per noi era normalissimo incontrare di queste scenette, ma quando gli alleati sbarcarono in Sicilia restarono meravigliati nel trovare una popolazione così “strana”. Giuseppe Casarubea nel suo libro “Storia segreta di Sicilia” nel descrivere lo sbarco degli alleati in Sicilia riporta le considerazioni del tenente generale George Patton, della Settima Armata Americana che, proveniente da una civiltà diversa dalla nostra e più avanzata non concepiva il nostro modo di comportarsi: “Cucinavano per strada e usavano i bidoni delle truppe come utensili da cucina. Si sedevano per strada e cantavano a tutte le ore del giorno e della notte. Poiché sono grandi mangiatori d’aglio, che viene venduto da vecchi recanti serti d’aglio sulle spalle, il loro canto all’aperto affligge non solo l’udito ma anche l’odorato”.

VITO MARINO

 

 

 

 
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MAMUTONES

Post n°61 pubblicato il 11 Febbraio 2020 da vito.marino01

          CARNEVALE IN SARDEGNA:  MAMUTONES E  ISSOCADORES

Visto che il Carnevale è alle porte e su questo argomento  ho già scritto e pubblicato più volte tutto quello che è di mia conoscenza , mi sono cimentato alla ricerca del Carnevale sardo. Questo lavoro mi ha appassionato, perché considero la Sardegna una mia seconda terra, per tutti i ricordi affettivi che ancora riempiono la mia mente e il mio cuore.

Ho avuto possibilità di assistere a diverse feste popolari della  Sardegna, ma il carnevale che si svolge a Mamoiada nella Barbagia non mi è capitato ancora di vederlo. Pertanto mi sono affidato a materiale vario che ho trovato nelle pagine di internet, dagli accenni riportati nel libro “le origini del teatro italiano” di Paolo Toschi e da libri e materiale vario pubblicitario, che ho in casa. 

Sto parlando dei Mamutones e degli issohadores, maschere di carnevale uniche nel mondo di questo genere.

Riguardo alle origini di questa ricorrenza, alcuni studiosi affermano che i Mamuthones sfilavano già nel XIX secolo. Altri  sostengono invece che il rito risalga addirittura all'età nuragica, per proteggere persone e animali  dagli spiriti del male o per propiziare il raccolto.

Altri affermano che il rito dei Mamuthones e degli Issohadores non è soltanto fantasia popolare, ma  rappresenti un fatto storico realmente accaduto.  Secondo lo studioso Raffaello Marchi la rappresentazione  trattava la celebrazione della vittoria dei pastori di Barbagia sugli invasori saraceni fatti prigionieri e condotti in corteo  (gli Issohadores abbigliati nei panni dei Vinti).

Altri come il Masala ritengono che in realtà essi rappresentino il popolo sardo prigioniero dei punici. Ma c’è anche chi riconduce la danza dei Mamuthones ad un rito apotropaico e propiziatorio, un rito che allontanerebbe il male per favorire annate agrarie favorevoli e abbondanti. Non dimentichiamoci che tutti i popoli antichi fin dal neolitico adoravano la Dea Madre portatrice di fertilità e abbondanza, senza la quale non poteva esistere la vita. A proposito del rito agropastorale non bisogna dimenticare che la prima uscita dei Mamuthones, il 17 gennaio di ogni anno, coincide proprio con l’inizio dell’annata agraria.

Un’altra tesi molto interessante è l’interpretazione del Prof. Francesco Naseddu, secondo il quale i Mamuthones sono gli attori di uno spettacolo/festa di matrice bizantina, “la majuma” o “majumada“; secondo questa interpretazione, i bizantini istituirono questa festa in una località, che dal nome della festa ne sarebbe derivato il nome di Mamoiada.

Tesi minori affermano che si potrebbe trattare di un rito totemico di assoggettamento del bue (presenza dei campanacci) o anche una processione rituale fatta dai nuragici in onore di qualche nume agricolo e pastorale. Altri, infine,  sostengono un legame con riti dionisiaci, altri negano questo collegamento, e la includono invece fra i riti che segnano il passaggio delle stagioni.

Qualunque sia l’origine e la data di fondazione, questa manifestazione ha una marcata impronta arcaica.

Per “Maimone” , specialmente nella Barbagia si indica il demone concretizzato nello spaventapasseri  e in una specie di idolo bacchico del Carnevale popolare; è noto, infatti, che nel lontano passato esisteva nella cultura popolare una credenza radicata su diavoli,  spiriti e magie varie, che si mettevano in evidenza durante il Carnevale; la colonizzazione araba apportò il moltiplicarsi e il diffondersi di queste tradizioni.

Di contro c’era la credenza  che il suono è nemico di  streghe, diavoli, spiriti di defunti, folletti e altro; per cui  campanelle, campane, ma anche altri suoni come i tamburi hanno avuto sempre valore di purificazione, perché capaci di metterli in fuga.(su questo argomento ho già pubblicato una mia ricerca).

Pertanto, secondo una mia interpretazione, le campanelle e i campanacci che portano addosso i mamutones e che fanno suonare nel corso dei loro balli, avrebbero avuto la proprietà di allontanare gli spiriti impuri e le forze negative

    Il Mamuthone indossa una maschera di legno nera detta “sas viseras”, dall’aspetto lugubre, che viene assicurata al viso mediante cinghiette di cuoio e contornata da un fazzoletto di foggia femminile “su muncadore”. Sulla testa portano “sa birritta” sarda, come un turbante.  Il vestito è quello di tutti i giorni, ma si nota appena, perché il mamuthone porta addosso una lunga pelle  di pecora nera “sa mastruca”, utilizzata spesso dai pastori specie in montagna,; sulla schiena è sistemata una serie di campanacci da bue “carriga”, chiamati anche “sos sonazzos”, dal peso complessivo di 30-35 kg., mentre, davanti porta  una collana di sonagli più piccoli e leggeri , bronzei, appesi al collo.

Ma il nome originario delle maschere di Carnevale era Mamutones, che significa sempre il demone, per cui i due nomi si equivalgono. Tuttavia, Maimone  rimane il demone collegato con i riti agrari; per Carnevale esso viene raffigurato come un fantoccio di paglia montato su un carro e attorniato dai Mamutones; la sfilata, giunta  in una piazza convenuta, viene bruciato, con tanto fragore, per i petardi contenuti in mezzo alla paglia.

Generalmente a rappresentare i mamutones  erano gli adulti, addirittura i vecchi ancora saldi in salute, perché avevano più esperienza. Il passo cadenzato per avanzare e scuotere i campanacci ricorda una danza, «una processione danzata» come l'ha definita l'etnologo Raffaello Marchi che per primo, negli anni ‘40, ha osservato da vicino questa manifestazione.

Il corteo si muove lentamente perché i mamutones procedono con un passo pesantissimo, curvi sotto il peso dei campanacci, danno un colpo alla spalla destra, mentre avanzano col piede sinistro, quindi con un colpo alla spalla sinistra avanzano col piede destro. Procedono quindi con una specie di danza, considerata propiziatoria.

   Gli Issohadores indossano parte degli indumenti del Costume tradizionale maschile, sul capo portano “sa berritta” che viene tenuta da un fazzoletto colorato, la camicia bianca del costume “sa ‘amisa”, il corpetto rosso “su curittu”, i calzoni bianchi “sos cartzones”, uno scialletto che viene legato in vita “s’issalletto”, un tempo non era raro che gli stessi  issohadores realizzassero anche al telaio i loro scialletti, oggi la moda ha imposto l’uso di scialletti realizzati secondo lo stile di oliena, con pitture e ricami. I calzoni sono bianchi,  le calze  nere di orbace “sas cartzas” e gli scarponi. Diversi anni fa, fino agli anni 80, gli issohadores indossavano i pantaloni di velluto e gli scarponi “sos ‘usinzos”, al posto dei calzoni bianchi.

 Infine portano in mano, pronta a lanciarla l’importantissima  fune di giunco intrecciato “sa soha”, termine dal quale deriva sicuramente il nome dell’issohadore, che significa infatti portatore di “soha”. In tempi antichi questa fune veniva realizzata con strisce di cuoio intrecciate,  col tempo sono state sostituite dalle funi di giunco: “Unes de Resta”, sicuramente meno pesanti e meno pericolose delle altre, spesso infatti, quando gli issohadores erano soliti prendere  al lazzo gli spettatori, le funi di cuoio facevano molto male.

     Il rituale inizia “sa die ‘e sant’Antoni” il 17 gennaio e dà inizio al Carnevale; ma una volta si anticipava verso l’Epifania o addirittura vicino a Natale. Il corteo inizia a sfilare il pomeriggio e termina a tarda sera.                                              

Evidentemente queste maschere si muovono in una marea di folla, che, divertita urla e fa un chiasso con ogni genere di oggetti carnevaleschi.

       VITO MARINO

 
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LUCCHETTU BATTENTI TUCCHETTU CAMPANEDDA

Post n°60 pubblicato il 11 Febbraio 2020 da vito.marino01

LUCCHETTU – BATTENTI – TUCCHETTU E CAMPANEDDA

                                                             LUCCHETTU

“Lu lucchettu” (dal francese loquet) era una  serratura che si usava generalmente nei portoni d’ingresso, funzionante tramite  una maniglia a forma di occhiello, che si gira dall’esterno, che corrisponde  all’interno con una lamina di ferro, che si inserisce su un apposito alloggiamento  dell’altra imposta.  Questa lamina di ferro, nella sua funzione di serratura, contemporaneamente aveva anche la funzione di attirare l’attenzione di chi abitava in quella casa,  per il rumore che creava girando ripetutamente (sopra e sotto)  la maniglia. Siccome allora non c’era inquinamento acustico, quel rumore secco metallico era udibile anche da lontano. “Lucchettu” era chiamato anche il catenaccio, essendo una serratura. Da non confondere con l’antica serratura che si azionava con una grossa chiave di ferro; quella si chiamava “toppa”.

 

                                                                   BATTENTI

“Lu Battenti (che batte) era il battiporta.  Ancora oggi, nei portoni antichi dei palazzi dei ricchi possidenti, si trova un massiccio grosso anello fissato da una parte al portone, ma articolato, e libero dall’altra parte. Azionato a mano questo anello va a battere su un supporto metallico, provocando un forte rumore per avvisare il padrone di casa…

 

                                                               LA CAMPANEDDA

“La Campanedda”  era il campanello o cicala o citofono con o senza telecamera dei giorni nostri. Dal portone, da un buco usciva uno spago molto lungo che arrivava anche al piano superiore all’interno dell’abitazione ed era allacciato ad un campanellino di rame. Il campanellino, che a volte era di dimensioni più grosse perché si doveva sentire di lontano, era fissato ad un’asta di acciaio flessibile che al tiro del laccio, flettendo ripetutamente dava diversi rintocchi.

 

                                                                  TUCCHETTU

“Lu Tucchettu” era il cortile o parte di esso coperto da un’abitazione sopraelevata. Nel passato succedeva che una casa a piano terra, con il cortile o giardino interno, veniva fabbricata l’area libera di sopra, per ottenere un alloggio per il figlio. Succedeva così che la parte superiore al cortile veniva fabbricato, lasciando il cortile sotto, come disimpegno. Un cortile con “tucchettu” molto noto a  Castelvetrano è il cortile Goletta, che si trova in via Colletta, meglio conosciuta come la “Strata di li Scarpara”. Questo cortile era tristemente noto alla vecchia generazione, perché negli anni ’40 vi avevano ucciso “Calogerina”, una prostituta, diventata famosa da una canzone scritta per l’occasione. Da quel momento il cortile venne soprannominato “Lu Curtigghiu di Calogerina”.   

 

                       VITO MARINO

 
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IL BASTONCINO DA PASSEGGIO

Post n°59 pubblicato il 11 Febbraio 2020 da vito.marino01

                      IL BASTONCINO DA PASSEGGIO E “LA PASSIATA”  A CASTELVETRANO

Mio padre mi raccontava che intorno agli anni ’20 del 1900, il centro della vita mondana di Castelvetrano era la Via Garibaldi (già “Strata Granni” e Via S.Francesco d’Assisi), Piazza C. D’Aragona (già Piazza Garibaldi ed ex Piazza Botteghelle e San Pietro o Duomo) e la Via Mazzini; qui si svolgeva il passeggio e c’erano i negozi.       La Villa Garibaldi (il vecchio Spiazzo, oggi Villa Falcone e Borsellino), fino agli anni ’50  era frequentatissima, tanto che nelle sere estive c’era l’orchestrina che suonava e si poteva ballare su una pista cementata, che ancora esiste. Nelle ricorrenze festive la gloriosa banda comunale di Castelvetrano eseguiva brani di musica lirica o sinfonica “a lu chianu” (in Piazza Garibaldi, il centro di vita mondana del paese).  

Intorno agli anni ’50, mi ricordo che il centro mondano del paese incominciò a spostarsi verso la Via V. Emanuele, restando la piazza Garibaldi il salotto del paese. Fino a quegli anni ancora la spiaggia di Triscina e Tre Fontane non erano valorizzate e Selinunte era frequentata da pochi villeggianti, quindi la vita allora offriva poche attrattive e per molte persone, specialmente donne, oltre alla messa domenicale e alle feste religiose la passeggiata rappresentava l’unico svago. Con la passeggiata  gli uomini trovavano il modo di comunicare e dire tante cose alle donne: evidentemente con gli occhi. Le donne che non andavano a passeggiare si “godevano il passeggio” dal balcone dalla finestra o dal terrazzo oppure origliando dietro le persiane o dietro la porta messa “a vanidduzza” (socchiusa).

Classica era la passeggiata del giovanotto sotto la finestra o il balcone della donna amata: Passare e ripassare senza mai stancarsi, con la speranza di vedere affacciata la ragazza dei propri sogni. Se il giovanotto piaceva alla ragazza, spesso si riusciva allo scopo. L’amore platonico fatto di sguardi furtivi era tutto ciò che allora si poteva ottenere. Folcloristica, direi, era la passeggiata dei fidanzati: essi camminavano l’uno a fianco all’altra, spesso con divieto di mettersi a braccetto, e dietro, un certo numero di parenti intimi; una vera processione.

Agli inizi del  1700 la spada era portata dai nobili, obbligatoriamente, come segno distintivo del loro rango; nel corso del secolo, il bastone incominciò a sostituire la spada, Napoleone considerò il bastone come simbolo dell’imperio.  Dopo il 1830, con lo sviluppo industriale, l’uso dei bastoncini da passeggio  si diffuse anche in ceti meno abbienti; trasformandoli in un accessorio di moda indispensabile nel corredo di qualsiasi persona, che possedesse un abito presentabile. Le dame, di contro, usavano  graziosi e sofisticati ombrellini parasole. Nella prima parte del Novecento, il bastoncino accentuò questo ruolo di elemento distintivo dell’eleganza. La seconda guerra mondiale ne decretò la fine. Tuttavia, intorno agli anni’50, cioè fin dove arrivano i miei ricordi, gli appartenenti alla  borghesia, con il vestito della festa e le scarpe lucide passeggiavano accompagnandosi con il bastoncino da passeggio, che facevano dondolare al ritmo del passo, tante volte lo facevano volteggiare tenendolo sempre dalla parte del manico.

Il bastoncino era un mezzo per mettere in evidenza lo stato sociale leggermente più elevato rispetto al popolino e, vista la sua importanza, nelle abitazioni di questi borghesi, che abitavano sempre nei piani alti, non mancava, nella saletta d’ingresso, la “bastoniera”, un mobile dove si collocava il bastoncino. Detto mobile portava anche il reparto per il parapioggia e per l’ombrello della signora. Infatti, la signora appartenente alla borghesia non usciva, esponendosi al sole, ma proteggendosi con l’ombrello di seta o di cotone ricamato. Infatti era disonorevole avere il viso abbronzato, visto che solo i contadini, una classe agli ultimi gradini dello stato sociale avevano il viso abbronzato.       

Vito Marino  

 

 

 
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LA CIOCCA CU LI PUDDICINA

Post n°58 pubblicato il 24 Ottobre 2019 da vito.marino01

                      LA CIOCCA E  LI PUDDICINA

Seguendo la legge della natura, la gallina diventa “ciocca” (chioccia) in media una volta l'anno, con una temperatura corporea che si alza sensibilmente; nel lontano passato, il padrone ne approfittava per farle covare le uova. A tale scopo metteva in una "cartedda" (gerla) della paglia con sopra una ventina di "ova di addu" (fecondate dal gallo), sopra  vi sistemava la chioccia.  Il numero delle uova doveva essere rigorosamente dispari; viceversa, secondo la credenza, la cova non avrebbe avuto buon esito.

Come avveniva per la semina nei campi, anche per la cova si teneva conto del "fari e sfari di luna”. Si sosteneva, infatti, che le uova da covare si dovevano mettere sotto la chioccia all’inizio della luna crescente, altrimenti i pulcini sarebbero nati di salute cagionevole; mentre i pulcini nati nello "sfari di luna" (luna calante) sarebbero morti.

Se tutto riusciva bene, dopo 21 giorni, tutta la "ciuccata" (chiocciata) usciva fuori del guscio.  Purtroppo non tutte le uova "abbiccavanu" (si schiudevano)!. "Abbiccari" deriva da beccare; infatti, i pulcini colpiscono col becco il guscio dell’uovo per potere uscire. Questo vocabolo era usato, impropriamente, anche nella terminologia agricola, per significare che una pianta, dopo essere stata  trapiantata, “abbiccava” se metteva radici e proseguiva normalmente la sua fase vegetativa.

Onde evitare che la chioccia uscisse fuori dalla gerla e facesse raffreddare le uova, vi si metteva sopra un "crivu" (vaglio). Siccome in questo periodo la gallina si sentiva male e non mangiava, per nutrirla le si faceva ingoiare, anche con la forza, delle fave intere messe in acqua la sera prima; le fave venivano spinte, dall’esterno, con le mani, iniziando dal becco lungo l'esofago, fino a quando arrivavano nella “bozza” (gozzo).

Finita la cova, l'animale "sdiciuccava" (tornava normale); se ciò ritardava, il padrone la bagnava con acqua fredda per farle abbassare la temperatura. Un sistema molto ingegnoso adottato da un mio conoscente consisteva nel ficcarle nel buco del naso una penna della stessa gallina; essa, cercando di togliersela, stava impegnata tutto il giorno, dimenticandosi di andare di nuovo ad accovacciarsi.

Nati e cresciuti i pulcini, per conoscere in anticipo se si trattava di galletto o gallina, si poteva seguire il consiglio del proverbio: “S’è gadduzzu, canta canta, s’è puddastra si muzzica l’ala” (S’e è galletto canta, se è pollastra si becca l’ala).

 Per chiudere l’argomento, voglio ora citare alcuni proverbi siciliani sulla gallina e sul gallo:

- addinedda chi camina, porta la buzzaredda china

- la addina fa l'ovu e a lu addu ci abbrucia lu culu

- quannu canta lu addu fora l'ura, a canciari lu tempu  'un addimura

- comu s'arridducìu lu addu di Sciacca: ad essiri pizzuliatu di la ciocca!

- la addina vecchia fa lu bbonu broru

- doppu morta, si spinna la addina

- megghiu oggi l'ovu chi dumani la addina

- lu bbonu  addu canta a tutti banni

- li puddicina vannu dunni va la addina

- s'é gadduzzu canta canta, s'è puddastra si muzzica l'ala

- peri di ciocca nun scafazza puddicini

- picciotti e gaddini cacanu 'na casa

- cu addu o senza addu Diu fa jornu

- ogni addu canta a lu so addinaru

- lu addu a cumannari e la addina a scaliari

- lu addinaru  va mali, quannu la addina canta e lu addu taci

- la puddastra chi fa l'ova si chiama addina

- la addina si spinna a pinna a pinna

- du’ addi nta un puddaru nun ponnu stari

- rumpiri l'ova ‘nta lu panaru

- essiri figghiu di la addina bianca

- broru di addina e carni di adduzzu

- ci n'era n'autru e lu scaccià la ciocca

- pari la ciocca cu tutti li puddicina

- a li picciriddi ci tocca parlari, quannu piscia la addina

- si curca prestu comu li addini

- si si la passa bbona la vicina, si la passa bbona la addina

- addinedda tinta o bbona, a la Quaresima ti fa l’ova

- la addina quannu canta ha fattu l’ovu

- dunni la addina canta e lu addu taci, chista è la casa dunni nun c’è paci.  

                 VITO MARINO    

 

 

 
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LU FIRRARU

Post n°56 pubblicato il 31 Dicembre 2016 da vito.marino01

       LU FIRRARU

“Lu firraru” era il maniscalco; chiamato così perché poneva i ferri sotto gli zoccoli degli equini. Quando i buoi si utilizzavano per lavorare nei campi, generalmente aggiogati all’aratro, era necessario anche per loro mettere i ferri agli zoccoli, per non farli consumare e per proteggerli dalle malformazioni del terreno. Siccome lo zoccolo del bue è più piccolo, si apponevano “li mezzi ferri”. In questo caso i buoi si definivano “voi a lavuri” (buoi adattati al lavoro).

Siccome i cavalli, a differenza del mulo e dell’asino, sono degli animali che si “appagnanu” (imbizzarriscono) con molta facilità, mentre si applicavano i ferri agli zoccoli, il maniscalco doveva riconoscere gli stati d’animo di questi animali e comprenderne le intenzioni e, quindi, prevederne scatti improvvisi. Quando qualcuno di questi animali era irrequieto o tirava calci; il maniscalco, per farli stare fermi, doveva usare “lu turcituri” (strumento con spago, che stringe il muso provocando dolore).

Il maniscalco forgiava i ferri a forma di U e, ancora incandescenti, li poneva, con lunghe tenaglie a becco d’anatra, sugli zoccoli per modellarli. Ricordo ancora l’odore acre dell’unghia bruciata, che esalava in quel momento. Quindi, fissava il ferro sullo zoccolo con chiodi di ferro dolce e, infine, cospargeva l’unghia di grasso, per renderle più morbide.

Oggi esistono ferri fatti di gomma, plastica, cuoio o di un laminato composto di queste sostanze, inchiodato o incollato allo zoccolo. Alcuni ferri specializzati sono fatti di magnesio, titanio o rame.

Siccome lo zoccolo protetto dal ferro continua a crescere senza consumarsi, ogni 40 giorni circa è necessario pareggiarlo, cioè accorciarlo manualmente; se ciò non avvenisse gli equini si troverebbero con gli zoccoli troppo lunghi che causerebbero problemi alla deambulazione stessa.

I ferri di cavallo che io vedevo mettere, quando ero ragazzo, erano sempre dotati di ramponi, una specie di tacco sporgente in basso all’estremità posteriore, per fornire una maggiore presa sul terreno.

“Lu firraru”, inoltre, tosava cavalli e muli; gli asini restavano col pelo lungo. Allora lo strumento per tosare era manovrato da un ragazzo che girava una manovella; attraverso un filo di trasmissione interno ad un tubo flessibile. Egli, come molti artigiani di allora lavorava all’aperto, lungo le strade o davanti al suo botteghino, una stanza piccola dove conservava l’attrezzatura. Generalmente andava a prestare la sua opera a domicilio. Fra i pochi attrezzi di lavoro che disponeva c’era il banco di lavoro e il cavalletto a tre piedi che serviva per poggiare lo zoccolo, per le ultime rifiniture con la raspa e la lima.

L’applicazione dei ferri è antichissima, poiché ci sono stati alcuni rinvenimenti di epoca romana.

Il maniscalco più bravo, oltre che essere un esperto nella ferratura degli animali da tiro poteva eseguire, sfruttando la sua esperienza, interventi chirurgici di lieve entità, quali incisioni di pustole, cauterizzazione di piaghe, levare spine o altri oggetti appuntiti infilatisi casualmente negli zoccoli. Una volta ho visto “sagnare” (fare un salasso) ad una mula, e come emostatico usare mezza fava secca “spicchiata e munnata” (aperta in due e con la buccia tolta), pressata sul piccolo taglio.

Anche il fabbro ferraio era chiamato “firraru”, perché lavorava il ferro, ma generalmente era chiamato “chiavitteri”, per la sua specialità nel costruire grosse chiavi e serrature che si usavano allora: “li toppi”.

Vito Marino

 
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IL SIGNIFICATO DEL SANTO NATALE

Post n°53 pubblicato il 22 Dicembre 2016 da vito.marino01

IL SIGNIFICATO DEL SANTO NATALE

Secondo una leggenda danese, un quarto Re Magio, sarebbe giunto a mani vuote, perché aveva donato durante il viaggio le tre grosse perle che voleva portare a Gesù: una a un locandiere in cambio dell'o­spitalità per un vecchio, un'altra ai briganti per liberare una fanciulla e la terza ad un soldataccio per salvare un bambino. Gesù commosso, gli tese le manine e sorrise.

Evidentemente si tratta di una leggenda, ma sta a significare che la ricorrenza del Santo Natale oggi ha assunto un significato diverso da quello religioso.

Oggi, malgrado la crisi economica, il Natale si festeggia all’insegna del consumismo fine a se stesso: illuminazione, negozi addobbati, spettacoli; si aspettano questi giorni per elargire regali, per fare delle grandi abbuffate e per fare acquisti per la casa e per capi d’abbigliamento anche non necessari.

Il Dio Denaro, che oggi governa il mondo, e la pubblicità ci spingono fra le braccia del consumismo, ci allontana sempre più dagli insegnamenti sani di Gesù Cristo e sta portando il mondo alla distruzione. 

Purtroppo, le ricchezze di questo mondo sono limitate; gli stati più evoluti occidentali, sfruttando i popoli del terzo mondo, per troppo tempo hanno consumato e sperperato i beni prodotti nel pianeta.

I popoli poveri, perché sfruttati, oggi si stanno svegliando e il vento del benessere sta soffiando verso le loro parti. Ecco sorgere la crisi economica che, con  la globalizzazione, livellerà la produzione e il consumo in maniera più equa fra tutti gli stati del globo. E’ un costo molto alto da pagare per  i popoli occidentali abituati a sperperare le ricchezze e a guardare con distacco gli altri popoli più poveri. Purtroppo occorrerà fare ancora molti altri sacrifici, e dobbiamo abituarci ad un tenore di vita molto più basso.

Non si tratta di previsioni pessimistiche ma dalla logica della bilancia a due piatti: se un piatto sale l’altro scende, a meno che i pesi si distribuiscano in parti uguali. I beni del mondo  restano sempre gli stessi, quello che cambia è la loro distribuzione.

Il Natale! E’ la festa più attesa dell’anno, pochi però si ricordano che si tratta di una ricorrenza religiosa; nessuno si ricorda che Gesù Cristo è nato nella massima povertà, in una mangiatoia, per insegnare all’umanità la giusta via da seguire. L’umiltà, la carità, la bontà, il perdono, l’amore diffusi dal Vangelo, che sono alla base di una società civile, sono rimasti degli elementi  grammaticali che non si usano più nemmeno a scuola. Già, proprio “L’amor che muove il cielo e le altre stelle” potrebbe salvare il mondo

Si è quasi tolto di mezzo il Bambino Gesù, il Salvatore fatto uomo, per salvare l’umanità. Lo si è quasi reso una favola da raccontare ai bambini; è stato talmente sommerso da esteriorità da renderlo un fatto che non sorprende e che non fa più meditare.

La felicità è quella ricchezza interiore che si può raggiungere soltanto quando si vive  nella  semplicità  e nel rispetto del prossimo. A nulla valgono le abbuffate l’alcool, la droga  e il sesso scondizionato di “bunga bunga”.  

Benessere e sazietà non sempre sono sinonimo di felicità.  

Natale significa tornare bambini, spogliarsi di tutte quelle sporcizie di cui si veste l’umanità e restare nudi come Gesù Bambino.  Durante la passata civiltà contadina molto povera, per la gente umile di allora bastava una semplice festa religiosa per far provare loro la vera gioia dell’anima, quella che non conosce il logorio della vita.

Durante la passata civiltà contadina, molto povera, ma forte e sana moralmente, l’atmosfera gioiosa natalizia si creava nel preparare il presepe e  “li cosi duci” fatti in casa, in compagnia della “cummaredda” e dei parenti. Per nove giorni, dal 16 al 24 dicembre, la gente con tanta letizia si recava in chiesa alle quattro e mezza di mattina per assistere alla novena, ai canti natalizi e alla nascita di “lu Bomminu”.

Che il Santo Natale ritorni ad essere la vera felicità,  del corpo e dello spirito!! Un felice e sereno Natale a tutti.

VITO MARINO

 

 

 

 

 

 

 
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LU TRUNZU DI BROCCULU NELLA SCOMPARSA CIVILTà CONTADINA

Post n°51 pubblicato il 13 Dicembre 2016 da vito.marino01

       LU TRUNZU DI BROCCULU NELLA SCOMPARSA CIVILTA’ CONTADINA

La civiltà contadina nacque agli albori della civiltà, quando l’uomo, che viveva da nomade, si fermò per coltivare la terra. Per potere descrivere questa civiltà, e spiegarne anche per sintesi i valori e l’importanza, occorre molto spazio. Nel mio libro già pubblicato “Sicilia scomparsa”, ho ampiamente trattato l’argomento; qui mi limiterò ad affermare che in quel periodo c’era più povertà fra la popolazione ma si viveva in simbiosi con la natura e non esisteva l’inquinamento dei giorni nostri. L’unico pericolo d’inquinamento di allora era il pozzo nero che disperdendo i liquami nel sottosuolo, poteva inquinare i pozzi d’acqua vicini e provocare, come spesso succedeva, delle terribili epidemie di tifo e colera. 

Così, dei prodotti della terra non si buttava niente. Le semplici foglie dei cavoli, fatti appassire per alcuni giorni si davano come mangime ai conigli; tutti i residui della cucina, il letame della stalla e degli altri animali da cortile, quello che oggi viene meglio definito prodotto biodegradabile,  finivano nella concimaia; della pianta di “zabara” (agave) le foglie si utilizzavano per ricavarne le “liame”, (robusti legacci per le fascine di legna) e “zabbarinu” (ottime fibre per le corde); l’asta serviva per costruire i pergolati e per sostenere pesi leggeri, il ciuffo si usava per mangime per gli animali.

Tornando al cavolo, dopo averlo raccolto, della pianta così bella e lussureggiante, resta il  tronchetto che si presenta duro e legnoso, apparentemente inutile; da qui la frase idiomatica “arristau comu un trunzu”.

Una volta l’alimentazione si basava su “panuzzu e pasticedda” (pane e pasta) e tutti gli alimenti  si cucinavano a legna con la “quarara” (pentola) di rame posta sul “fucularu o cufularu” o sul “cufularu a vapuri” (focolai dei vecchi tempi) utilizzando qualsiasi combustibile d’origine vegetale. Lo stesso avveniva per riscaldare il forno per fare il pane. Pertanto i tronchetti di cavolo andavano pure bene. Quando ancora esisteva la mezzadria, nel ripartire i prodotti della terra, anche questi tronchetti si dividevano a metà fra proprietario e contadino. Non conoscendo la matematica, per non sbagliare si procedeva alla divisione dei tronchetti dei cavoli con il metodo “unu tu e unu jiè” (Uno tu, uno io). Oggi tutti i prodotti organici si bruciano per distruggerli e par l’agricoltura si usano fertilizzanti chimici.

Pertanto, analizzando l’importanza che assumeva il semplice “trunzu di brocculu”, si può risalire alla civiltà contadina, che da noi è scomparsa intorno agli anni ’50, nel periodo del boom economico, ma che nel terzo mondo ancora stenta a scomparire.

VITO MARINO       

 

 
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UTILIZZARE AL MEGLIO LA CAMPAGNA

Post n°49 pubblicato il 12 Dicembre 2016 da vito.marino01

                            UTILIZZARE AL MEGLIO LA CAMPAGNA

Oggi la campagna non rende più economicamente e si cementifica in continuazione con il beneplacito delle autorità e il tacito consenso degli ambientalisti; le città, frutto del progresso prodotto dalla scienza e tecnologia avanzata crescono a vista d’occhio, portando utilità e benessere soltanto apparente, poiché nel territorio seguono immancabilmente catastrofi incontrollabili.  

Per ottenere maggiori guadagni, in l’agricoltura si pratica la monocultura specializzata, per quei prodotti più richiesti dal mercato e con l’abbandono di tutte quelle ottime varietà autoctone che vanno scomparendo. Ormai nel triangolo Castelvetrano, Campobello, Santa Ninfa si è trasformato in un immenso uliveto che produce ottime olive da mensa (la nocellara del Belìce) e uno straordinario olio, tralasciando tutte le altre produzioni di piante autoctone ormai in via d’estinzione.    

Non si produce più per le necessità locali ma per mercati sempre più lontani; l’autarchia rimane un ricordo, un sogno del passato. 

Il trasporto, evidentemente su gommato, comporta costi energetici rilevanti e conseguenti inquinamenti; costringe a consumare prodotti agricoli non freschi o conservati in scatola o surgelati con ulteriori costi di conservazione e consumo incontrollato di imballaggi da smaltire.  

La campagna attorno alle città, se valorizzata, potrebbe ancora svolgere un importante valore sociale per gli abitanti, come produzione di alimenti più genuini e freschi, arricchimento del paesaggio, produzione di ossigeno e riduzione di anidride carbonica, protezione del suolo contro l’erosione, conservazione della memoria storica delle tradizioni.  

Nelle aree rurali si trova ancora un ambiente più sano che l’urbanizzazione ancora non ha divorato e testimonianze storiche di grande valore, come bagli, masserie, dimore padronali, castelli, abazie.

Oggi le campagne vengono abbandonate dai contadini perché dal terzo mondo arrivano prodotti agricoli simili con un costo inferiore a quello locale. Tuttavia la popolazione nelle campagne è aumentata; non si tratta di contadini, ma di cittadini, con un buon livello culturale, stanchi della vita vuota e stressante della città. In campagna essi trovano tranquillità, verde e aria più pulita e profumata, dopolavoro, palestra, cibi sani.  

Valorizzando la campagna e ristrutturando vecchi bagli e masserie si otterrebbero nuovi posti di lavoro con la creazione di agriturismo, musei della cultura contadina, produzione e uso di energie rinnovabili (eoliche e solari), riduzione delle distanze fra produttore e consumatore, con minor consumo energetico, un ritorno delle piante autoctone in via d’estinzione.

Tornare alla campagna, rispettarla, considerarla nel suo giusto valore significa tornare alla natura, significa anche salvaguardare l’ambiente, l’ecosistema, la riduzione dell'inquinamento e dei disastri ambientali, problemi e valori di cui si parla nei momenti di disastri ambientali ma che rimangono dopo nel dimenticatoio.

I nostri nonni dicevano che la campagna “è mamma” perché, se rispettata, provvede a mantenere sani i propri figli.

Gli antichi romani tenevano in grande considerazione le campagna e i contadini che vi lavoravano. Allora era un grande onore coltivare i campi, e gli altri mestieri a confronto erano considerati miseri.

VITO MARINO   

 
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A FACCI 'N CULU DI NOTTI

Post n°48 pubblicato il 11 Dicembre 2016 da vito.marino01

                                  A FACCI ‘N CULU DI NOTTI

Durante la civiltà contadina, spesso da me citata, regnava il maschilismo. La donna non aveva diritti, ma solo doveri da compiere.

L’accentramento delle abitazioni nei grossi centri e nelle città, escludono la donna dai lavori nei campi; esse restano in casa dove filano il lino, la lana, il cotone, spesso possiedono un rozzo telaio con cui tessono la tela, la imbiancano, la tagliano e confezionano camicie e mutande per i bisogni della famiglia. Inoltre, con i firritti o con “li busi” confezionavano maglioni, sciarpe e coperte; inoltre  badano al maiale, alle galline, ai bambini e all’amministrazione del poco denaro che porta in casa il marito col suo lavoro. Esse durante il lavoro cantavano allegramente come era l’usanza di allora. Allora tutti cantavano: l’artigiano nella sua bottega, i ragazzi per strada, i contadini a squarciagola in campagna Al tempo della raccolta delle messi le donne aiutano gli uomini a raccogliere i covoni, a spigolare, a raccogliere le olive, le mandorle, a vendemmiare. Siccome le abitazioni dei contadini erano anguste, costituite spesso da una sola stanza con coabitazione con il maiale, l’asino e le galline, nei piccoli paesi e nelle periferie delle città, molti di detti lavori, ma anche quelli secondari dell’agricoltura, come le ‘ntrita (schiacciare e selezionare le mandorle) assiddiiri (pulire e selezionare il frumento per la semina e per l’alimentazione), venivano eseguiti fuori, per strada o nei cortili. 

Durante l’estate per sfuggire all’arsura stagnante nelle loro anguste abitazioni, si sedevano fuori, all’ombra, davanti alla porta di casa, per godersi un poco di fresco. Nello stesso tempo eseguivano i lavori sopra detti. Spesso anche le vicine di casa facevano lo stesso e così, per passare il tempo intrecciavano lunghe conversazioni, che si concludevano sempre con “lu sparliu” (parlare male delle persone).

Siccome le donne non dovevano guardare per strada, perché qualche uomo passante, poteva pensare male, esse si sedevano con le spalle rivolte verso la strada. Questo modo di sedersi era chiamato scherzosamente allora “a facci ‘n culu di notti”.

Per noi era normalissimo incontrare di queste scenette, ma quando gli alleati sbarcarono in Sicilia restarono meravigliati nel trovare una popolazione così “strana”. Giuseppe Casarubea nel suo libro “Storia segreta di Sicilia” nel descrivere lo sbarco degli alleati in Sicilia riporta le considerazioni del  tenente generale George Patton, della Settima Armata Americana che, proveniente da una civiltà diversa dalla nostra e più avanzata non concepiva il nostro modo di comportarsi: “Cucinavano per strada e usavano i bidoni delle truppe come utensili da cucina. Si sedevano per strada e cantavano a tutte le ore del giorno e della notte. Poiché sono grandi mangiatori d’aglio, che viene venduto da vecchi recanti serti d’aglio sulle spalle, il loro canto all’aperto affligge non solo l’udito ma anche l’odorato”.

VITO MARINO

 

 
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ILSALE E LE VIE DEL SALE

Post n°47 pubblicato il 11 Dicembre 2016 da vito.marino01

Il sale e le vie del sale

Le vie del sale erano le antiche rotte di navigazione e gli antichi percorsi terrestri utilizzati anticamente dai mercanti del sale. Non esisteva un’unica via del sale: in Italia i vari popoli avevano una la propria rete di sentieri e collegamenti per portare le merci richieste verso il mare e da lì recuperare il sale, […]

sale-da-cucina

Le vie del sale erano le antiche rotte di navigazione e gli antichi percorsi terrestri utilizzati anticamente dai mercanti del sale.

Non esisteva un’unica via del sale: in Italia i vari popoli avevano una la propria rete di sentieri e collegamenti per portare le merci richieste verso il mare e da lì recuperare il sale, allora prezioso per la produzione e conservazione di formaggi, insaccati, carne e pesce, ma anche delle olive. Il prezioso elemento era necessario in grande quantità anche per le attività artigianali come la concia e la tintura delle pelli. Il trasporto su terreni accidentati veniva effettuato a dorso di mulo, attraverso le strette e disagevoli mulattiere che si inerpicavano sui pendii e nelle valli e non permettevano il passaggio di carri. Dove possibile, nella pianura, si preferiva effettuare il trasporto per via fluviale per limitare i costi, mediante grandi chiatte che arrivavano a trasportare anche 60 tonnellate di sale per carico. Nel Vallese, per facilitare il trasporto del sale venne addirittura costruito un canale, il Canale Stockalper, nella valle del Rodano.

Oggi l’industria del freddo ha soppiantato i vecchi sistemi di conservazione degli alimenti col sale, pertanto le vie del sale hanno perso il loro valore commerciale e sono divenute meta di escursioni e trekking, snodandosi in ambienti integri e di particolare interesse naturalistico. Per comprendere l’importanza del sale nella nostra cultura, sono rimasti dei modi di dire nella lingua parlata come: “avere il sale in zucca” oppure “il sale della vita”.

In certi popoli, ancora poco evoluti continuano a scambiarsi il sale con le carovane; in Himalaya, specialmente in Tibet, si possono ancora incontrare capre che trasportano il sale in piccoli sacchetti legati sul dorso. Anche in Africa si può ancora oggi assistere alle carovane di dromedari che dal nord del deserto del Ténéré scendono verso il Sahel trasportando sale, ritornando poi verso casa carichi di merci e cibi, barattati negli affollati mercati Africani. A Salisburgo, in Austria è stato il sale a dare una parte del suo nome alla città. Ed è stato il sale che rese Salisburgo ricca e potente. Ai tempi dei principi arcivescovi ci fu la fioritura del commercio del sale: e così questo prezioso minerale venne anche chiamato l’oro bianco. Veniva ricavato dalle miniere sul Dürrnberg, nei pressi di Hallein. A soli pochi chilometri da Grödig si trova un labirinto di cunicoli che oggi può essere visitato come museo:,

Nella provincia di Trapani, ricchissima è la produzione del sale nelle saline di Marsala e Trapani; la via del sale si snoda in un percorso di 30 km circa lungo la SP 21, che unisce i due centri. Questo percorso permette di godere di suggestive viste sulle saline di Trapani e su quelle dello Stagnone. A Nubia, sorta in un ricco ambiente naturale salmastro, meta e dimora di circa 170 differenti specie di uccelli, come fenicotteri cicogne, gru, aironi di passaggio è stato istituito un Museo del Sale. Nelle saline, attraverso un canale vengono riempite le due vasche più esterne e più vaste, chiamate “fridde” per la temperatura dell’acqua ancora fredda. Il Mulino a vento Americano che si trova tra i due bacini, pompa l’acqua verso il “vasu cultivu”, ove essa incontra i residui della coltivazione precedente, che fungono da lievito. Il grado di salinità (misurato in Baumè) e, di pari passo, la temperatura dell’acqua aumentano con l’evaporazione. Da qui l’acqua passa alla “ruffiana” che ha, come suggerisce maliziosamente il nome, la funzione di intermediaria tra il “vasu” e le “caure”, dove l’acqua si scalda e raggiunge una salinità di 23° Baumè. Da qui viene convogliata nelle vasche “sintine”; qui l’elevata concentrazione salmastra e la temperatura più calda donano all’acqua un colore leggermente rosato. L’acqua, quindi, passa nelle vasche “salanti o caseddri”, ove si formano strati puri di sale (a 27-28° Baumè) pronti ad essere raccolti in due momenti, a metà luglio e a metà agosto circa. I mucchi di sale, disposti a forma di tetto a capanna nei piazzali appositi vengono lasciati all’aria ed alle piogge (per lavare via le impurità) e poi coperti di tegole per essere riparati dalle intemperie e dallo sporco.

Allo Stagnone si trovano le saline più spettacolari di Ettore e Infersa, dai nomi dei loro proprietari, mentre un mulino cinquecentesco rimesso a nuovo funziona per permettere, a chi non ne ha mai visto uno, di assaporare il fascino del lavoro di un tempo. Il mulino a stella o olandese è composto da un corpo a tronco di cono, da una cupola conica e da sei pale di forma trapezoidale con lo scheletro di legno, cui vengono applicate le vele in tessuto che si muovono al vento. All’interno, un complesso sistema di ruote dentate, alberi ed ancoraggi permette di orientare la cupola (e quindi le pale) nella direzione del vento e di sfruttare l’energia naturale per macinare il sale o collegando la così detta “spira di Archimede”, per convogliare l’acqua da una vasca ad un’altra. Le pale possono girare ad una velocità di 20 km orari e sviluppano una potenza di 120 cavalli (per azionare la macina, posta nei locali a pianterreno, sono necessari almeno 30/40 cavalli).

Vito Marino

 
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LU VARDUNARU E LU CARRITTERI

Post n°45 pubblicato il 05 Dicembre 2016 da vito.marino01

LU VARDUNARU E LU CARRITTERI


Per la mancanza di strade sterrate o asfaltate, la comparsa del carretto siciliano avvenne ai primi del 1800.
Prima di tale data il trasporto merci e passeggeri in Sicilia avveniva solo via mare con grosse barche come la Tartana e la Feluca.
Per i percorsi terrestri, a breve distanza, i trasporti avvenivano a dorso di muli o cavalli percorrendo le mulattiere.
Questo servizio era svolto dai “vardunara” (mulattieri). Infatti, tutta la merce arrivata al porto e
diretta al retroterra, o viceversa, avveniva necessariamente a dorso di muli. I grandi proprietari terrieri ne avevano sempre numerosi al proprio servizio. Così, durante la raccolta dei prodotti agricoli, s’incontravano delle vere carovane di muli con i prodotti sulla groppa.
Ogni “vardunaru” conduce una “retina” composta di sette muli legati in fila uno con l’altro. Egli, come “capu retina” cavalca la prima mula, che doveva avere un carattere più mite e di struttura robusta, poiché doveva portare sulla groppa anche della mercanzia.
Sempre sulle mulattiere c’era la possibilità di usare un altro mezzo rudimentale di trasporto: “lu strascinu o straula” (la treggia). Si trattava della più antica forma di carro senza ruote tirato da buoi ed usato nelle zone montuose, per il trasporto dei covoni di grano.
Secondo quanto scrive Nino Ferracane in: “Castelvetrano Palmosa Civitas”, nel 1843 nel nostro territorio esisteva una sola strada carrabile che univa Castelvetrano a Campobello di Mazara. La strada di collegamento con la città di Gibellina (l’odierna SS.119) a quel tempo era in via di costruzione. Per il collegamento con Partanna, Trapani, Mazara, Salemi e per la provincia di Agrigento c’erano soltanto delle mulattiere percorribili a cavallo. Nello stesso tempo c’erano le regie trazzere, in seguito trasformate in strade statali e provinciali, che erano costruite molto larghe (36 mt.) e coperte di manto erboso, per permettere la trasmigrazione del bestiame durante la transumanza. Esse erano utilizzate anche in caso di spostamento di soldatesche.  
Costruite le ferrovie e le strade sterrate o asfaltate, finiva l’era dei vardunara.
In tempi relativamente recenti, 1930 – 1950, per le grandi distanze e per la merce molto voluminosa e pesante, l’unico mezzo di trasporto era la ferrovia; mentre per le distanze fino a 100 Km. circa si usavano ancora mezzi a trazione animale, come "lu carrettu", che potremmo paragonare al furgone d’oggi. Per i trasporti non idonei al carretto, perché relativamente pesanti e voluminosi, c'era "lu traìnu o carramattu" (il carro a quattro ruote), che potremmo paragonarlo al camion; "lu carruzzinu" poteva essere l'automobile, mentre la carrozza con due o più cavalli rappresentava la rolls royce. "Lu carritteri" e "lu gnuri" erano i loro autisti.
“Lu carritteri”, quando doveva fare un lungo viaggio (anche 100 km.) e occorrevano più giorni per arrivare a destinazione, di notte doveva pur albergare da qualche parte; allora erano sorti "li funnachi" (i fondachi, che oggi potrebbero essere i motel), dove trovavano vitto e alloggio carrettiere o viandante e cavallo. Sotto una tettoia c’era sempre posto per il carro o calesse.  
“Lu carritteri” e “lu vardunaru” trattavano il proprio animale come una persona di famiglia, poiché dalla sua forza e salute dipendeva il lavoro e quindi il guadagno; d’altronde il veterinario neanche esisteva o costava molto e con i pochi guadagni di allora, difficilmente si poteva comprare un altro animale. Pensate che per la morte di una "vestia", il padrone teneva in casa una specie di lutto: parenti ed amici intimi andavano a fargli visita, con scene di dolore come per la morte di una persona di famiglia. A conferma di ciò un proverbio siciliano diceva: “A lu riccu ci mori la muggheri, a lu scarsu ci mori lu cavaddu”.
Ho conosciuto dei carrettieri "baggiani" (fanatici, amanti delle cose belle), che tenevano il loro carro sempre in perfetto ordine e pulizia e con le pitture sempre come nuove; il cavallo, ben nutrito e con il pelo pulito e lucido, era ornato con il pennacchio di piume variopinte sulla groppa e sul capo.  
Chi possedeva animali da tiro badava a pulirli giornalmente, con “strigghia e brusca” o li lavava con acqua e sapone.
Il carrettiere portava sempre sul carro la "coffa di la pruvenna" (una cesta conica di palma nana intrecciata) con la "pruvenna" (la biada per l'animale) assicurata “a li stampaneddi”; durante le soste la legava alla testa dell’animale in modo che potesse mangiare. Sistemati "sutta la casciata" (sotto il fondo del carro) c’erano gli attrezzi di lavoro:  la pala e la scopa.
Quando pioveva "a lavina" (pioggia a dirotto che lava), nelle strade di allora, ancora non asfaltate, si formavano "li lavinati" (dei depositi di sabbia molto ricercata per l'edilizia, perché priva d’impurità e di salsedine); il carrettiere la raccoglieva con la pala e la portava al cliente già prenotato.
Durante i lunghi percorsi il carrettiere si dava coraggio e compagnia con dei canti molto caratteristici (i famosi canti del carrettiere), oggi scomparsi inghiottiti dal tempo, assieme alla figura tipica dei loro cantori e a tutta la civiltà contadina.
Si trattava di canti bellissimi nostalgici, melanconici, struggenti d’amore per la donna amata, dove certe vocali erano prolungate fino alla fine del fiato e riprese di nuovo dopo il respiro. Le note avevano la profondità della notte e la tenerezza dell’aurora e della primavera. Tale scomparsa è stata una grave perdita per la cultura musicale in generale e per la nostra terra in particolare.  
Come succede anche oggi per le macchine, il benestante, per farsi notare, teneva il carretto “patrunali” tutto scolpito o dipinto, e la carrozza barocca scolpita.  
Dopo il boom economico iniziato negli anni ’50, attraverso le strade e autostrade asfaltate, il gommato a poco a poco ha assorbito tutto il traffico a trazione animale, ma anche quello ferroviario.


VITO MARINO.

 
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L'ABBANNIATA

Post n°43 pubblicato il 24 Novembre 2016 da vito.marino01

 

                                                   L’ABBANNIATA

 

Bandire, dar pubblico avviso gridando o cantando, vendere all’incanto la mercanzia, imbonimento, è la traduzione che si può dare in italiano al vocabolo siciliano “abbanniata” o “vanniata”.  

Una volta il venditore ambulante, che teneva la sua mercanzia in una cassettina messa a tracolla o su una bicicletta oppure su un carrettino spinto a mano o trainato dall’asinello, tramite “l’abbanniata” stimolava il compratore ad acquistare. C’era anche “l’abbanniatina di putia”, infatti, anche il bottegaio, messo davanti la sua “putia” (bottega) “abbanniava” la sua mercanzia. 

A tale scopo, per meglio essere ascoltati, ma seguendo anche antiche tradizioni, spesso improvvisavano un canto. Ne ricordo uno cantato da un venditore di sale: “megghiu di l’ogghiu ci voli / e ci voli lu sali. / Sali  haiu / iu vi vinnu lu sali”.

Questi canti spesso rassomigliavano allo stile di canto dei carrettieri, quindi erano di origine araba. Alcuni studiosi musicologi, infatti, hanno abbinato questo genere di canto di “abbanniata” fra quelli popolari.

 “La robba abbanniata è mezza vinnuta”, “lu putiaru socc’avi abbannia” sono dei proverbi dei vecchi tempi, che si riferiscono a tale sistema di vendita. Tante volte, per dare più pubblicità alla mercanzia si mandava in giro per il paese lu tammurinaru, che col suo tamburo richiamava la gente, mentre lui abbanniava.

Qui di seguito cito alcuni gruppi di venditori ambulanti più caratteristici ormai scomparsi da tempo: Lu salinaru, lu granciaru, lu ghiacciaru, lu pignataru, lu stagnataru, lu conzalemmi, lu carvunaru, l’acqualoru, lu ciusaru, lu gelataru, lu pisciaru, lu caliaru,                                                

    VITO MARINO

 

 
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MUSULINU E L'AUTARCHIA

Post n°42 pubblicato il 23 Novembre 2016 da vito.marino01

                                       MUSULINU E L'AUTARCHIA

Quannu Musulinu acchianau a lu putiri di l'Italia, misi tanti liggi, chi a li so amici ci parsiru boni e a li so nemici ci parsiru tinti.

Detti ordini a tutti li cristiani di darisi lu vui (voi), quannu parlavanu ntra d’iddi.

A li viddani ci fici mettiri furmentu, pi fari saziari li genti picchì c’era fami  e ricinu, pi lavari lu stommacu a cu avia la lingua longa.

All’urtimu, mmintau 'na parola biddissima "autarchia", chi parola era e parola arristau, picchì nuddu sapia soccu vinia a diri.

Sta parola Musulinu la fici canusciri a tutti chiddi chi avianu putiri di cumannu, speciarmenti a li gerarchi e a li potestà .

‘Nta un paisi di campagna scurdatu puru di la sorti, dunni la genti era tutta arfabbeta, scarsa e spidduzziata, arrivau puru l'ordini di Musulinu di fari "autarchia" asinnò c'eranu peni pesanti puru pi li capuriuna di lu partitu.

Lu potestà, ch’avia lu cucciteddu di la littra giustu giustu, nun si facia pirsuasu soccu vinia a diri 'sta parola e nun sapia chi pisci pigghiari pi fari rispittari l'ordini ricivutu.

A li voti iddu passava urati sani misu  pinzurusu  pi circari d’asciogghiri st’agghiommaru, chi si lu sintìa comu un cutugnu nta lu stommacu: -

“ 'Sta vota nun si tratta di fari viviri lu solitu bocali d’ogghiu di ricinu a chiddi chi nun vonnu rispittari la liggi! Sta vota c’è un ordini chi parla  chiaru comu lu suli di mezziornu: "fari rispittari l'autarchia e fari cunsumari prodotti autarchici", ma santu diavuluni, dunni li vaiu a truvari tutti sti prodotti autarchici ch’annu abbastari pi tuttu lu paisi? Ma armenu sapissi soccu sunnu? Po essiri chi Musulinu li manna p'attuppari la fami a li me paisana? Iddi  cunsumanu sulu panuzzu e pasticedda,  quannu li ponnu accattari”-

Lu potestà si scantava chi 'sta vota l'ogghiu di ricinu tuccava a iddu s'un si firava a spirugghiari 'st'agghiommaru, perciò un  jornu la pinzà bona di iri a Roma a parlari personarmenti cu Sua Ccellenza Benitu Musulinu pi farisi spiegari, pani pani, vinu vinu, comu ìanu li cosi.

A Roma pi essiri ricivutu di Musulinu, puru si iddu era un pezzu rossu di lu partitu a lu so paisi, cci vosiru tri jiorna; e da 'stu tempu si ripassava chiddu chi ci avia a dumannari, accussì 'un avissi fattu mala fiura; a la matina di lu terzu iornu, finarmenti fu ricivutu.

Doppu chi si salutaru cu lu vrazzu aisatu, Musulinu accuminciau subitu a parlari di partitu, di patria, di eroi, di 'mperu, di guerra, di gloria e via discurrennu; quannu si firmau di parlari, finarmenti lu potestà cci potti fari li so dumanni chi ormai l'avia frarici 'n testa.

Musulinu allura accuminciau arrera a parlari, 'sta vota d'economia, di balanza di pagamenti, di attivi e passivi e di autri cosi assai  'mportanti; lu potestà stava attintannu cu la vucca aperta pi li beddi paroli ma era cchiù cunfusu chi pirsuasu e nta la so testa maliricia l’ura e lu mumentu chi pinzau di veniri a Roma.

Musulinu a un certu puntu s'addunau ch'avia parlatu mmacanti e allura lu fici affacciari a lu finistruni e cci rissi:-

"Ora ti fazzu 'n esempiu accussì lu capisci megghiu: la viri ssa matamobili passari?"

"Ora si", arrispunniu subitu lu potestà;

"troppu bonu" ci abbattiu Musulinu,

- "Quannu li roti, lu motori, la carrozzeria, e tuttu lu restu su fatti nta l'Italia, 'sti pezzi s'hannu a chiamari prodotti autarchici, e quannu tutti avemu 'na matamobili comu e chissa, allura chissa è  l'autarchia. Ti fazzu ora n'autru esempiu: la viri dda bedda signura cu so maritu, chi stannu passannu di cca sutta comu su vistuti boni?  Quannu li scarpi, li quasetti, li vistita e tuttu chiddu ch’annu di ‘ncoddu, puru lu bastoncinu pi passiari,  sunnu fatti nta l'Italia e tutti semu vistuti comu e iddi, tutti ssi robbi s'hannu a chiamari prodotti autarchici, e finarmenti avemu l'autarchia. 'U vo fattu n'autru esempiu?"

"Nonsi" rispunniu siccu lu potestà p'un farisi diri ch'avia la testa dura "ora capivi soccu veni a diri, Voscenza m'avi a scusari si Lu vinni a nociri, Lu ringraziu: Voscenza è sempri lu me patruni; ora mi nni vaiu, Voscenza benerica."

Dicennu chistu, sciu di lu palazzu e ancora curri pi la stazioni dunni cu lu primu trenu partiu pi lu paisi.

Duranti lu viaggiu si priparava chiddu ch’avia a diri a lu paisi, e circava di pinzari a tutti li paroli allittrati chi avia ntisu di lu stessu Duci, pi fariccilli  trasiri nta lu discursu e fari bedda fiura.

 Arrivatu a lu paisi, a la stazioni nova, ch'avia fattu fari Musulinu, c'eranu tutti l'autorità chi l'aspittavanu, sia  pi rispettu, chi pi sentiri soccu avia cunchiurutu cu la so iuta a Roma.

Iddu fici la persona 'mpurtanti chi vinia di la capitali cu notizii frischi frischi e, nun vulennusi sbuttunari subitu pi darisi 'mpurtanza, puntau un'urienza straurdinaria a lu Comuni pi la mezza.

A lu Comuni, fici un discursuni parlannu di patria, di 'mperu, di gloria, d'economia, di balanza,  'nfilannucci tutti li paroli tischi - toschi chi pinzava d'aviri 'ntisu di Musulinu ma, a lu sucu di lu discursu, nun putia spiegari chiddu chi iddu stessu 'un avia caputu, perciò fici comu lu Duci, s'affacciau a lu finistruni e dissi:-

"Siccomu d'economia 'un ni capiti nenti, ora vi fazzu 'n esempiu 

chi vi fa capiri tutti cosi".

Ma...taliannu nta lu chianu nun c'era nudda matamobili chi passava, picchì nuddu 'n ta lu paisi si la putia accattari, e mancu passavanu genti vistuti boni, picchì livannucci  tutti chiddi chi avianu la divisa nivura cu lu pinnacchiu 'n testa, e li carrubbineri, tutti l'autri avianu li vistita arripizzati e assai caminavanu a peri 'nterra.

C'era sulu un puvureddu assittatu nta lu marciaperi, tuttu spidduzziatu, cu lu vastuni mmezzu li ammi, chi si stava quariannu a lu suli. Doppu c’era Turi lu stagnataru, chi giustu giustu stava passannu  cu lu carritteddu tiratu d'un sciccareddu cagliarisi; supra lu carritteddu ci avia li stigghi pi travagghiari e quattru quarari di ramu ch’avia a stagnari, e gjia abbanniannu: -" Cunzamu e stagnamu!"

Lu putistà nun putennu cchiù firmari lu discursu accuminciatu e fari lu trunzu di la mala fiura, continuau lu stessu a parlari:

-"Lu viriti ssu carrettu? Quannu li roti, la casciata, l'asti, li stampaneddi e tuttu lu restu su fatti nta l'Italia, chissi s'hannu a chiamari prodotti autarchici.

Continuannu soru soru lu discursu, pirsuasu di fari pi comu fici Musulinu, ci abbattiu:

-" 'U viriti ss'omu assittatu 'nta lu marciaperi? Benissimu, quannu la coppula, lu vistitu, lu bastoncinu di passeggiu, li scarpi (veramenti ddu mischinu era a peri 'nterra ma siccomu Musulinu parlau puru di scarpi, iddu cci li fici trasiri nta lu discursu) e tuttu chiddu ch'avi di 'n coddu vennu fatti 'nta l'Italia, chisti s'hannu a chiamari prodotti autarchici, e quannu tutti semu vistuti comu e iddu,e pussiremu un carrettu comu e chissu, allura avemu fattu la vera autarchia. Chistu dissi Musulinu."

     VITO MARINO                                                                                             

 

 
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GLI ASTRAGALI

Post n°39 pubblicato il 06 Novembre 2016 da vito.marino01

COME GIOCAVANO I NOSTRI ANTENATI: GLI  “ASTRAGALI”

Quando ero ragazzo i giochi si svolgevano sempre per strada in maniera collettiva fra ragazzi dello stesso rione. Nell’attuale via XX Settembre, oltre la chiesa della SS. Annunziata, più comunemente conosciuta come “Badia”, c’erano terreni abbandonati “li cumuna” dove esisteva una discarica di calcinacci. Qui un giorno cercando “li ciappeddi”, pezzi di mattoni piatti tondeggianti, per adattarle ad un gioco simile alle bocce, un mio amico ha trovato un osso particolare, col quale  ha insegnato al nostro gruppo  un gioco che ha delle somiglianze a quello dei dadi. Da quel giorno non ho più sentito parlare di questo gioco; nessuno dei miei coetanei se lo ricorda. 

Dopo più di mezzo secolo, trovandomi al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, per visitare i Bronzi di Riace, ho visto esposto in una vetrina un osso, simile a quello usato da noi ragazzi per il gioco. Ho avuto un tuffo al cuore, in un baleno mi è tornato alla mente quell’osso con cui giocavamo. La guida mi ha spiegato che, al tempo dei greci si usava per giocare. Consultando il blog “Enciclopedia dell' Arte Antica (1994) di P. Amandry” trovo dei chiarimenti in merito:  

Si tratta dell’Astragalo, un nome greco dato ad un osso che si trova nelle giunture delle gambe e dei piedi dell'uomo, e neglii arti posteriori dei quadrupedi. In latino si chiamava “talus”.

Astragali sono stati rinvenuti in tutto il vicino Oriente, in Grecia e in Italia; negli abitati, all'interno di edifici pubblici, di santuari e di tombe.

Quest’osso tratto dagli animali fu utilizzato come oggetto di gioco da tempi molto remoti (per lo meno a partire dall'epoca calcolitica, in Asia Minore) fino a epoche recenti.

Il gioco, che si chiama degli “aliossi”, usa gli ossicini di astragali ricavati da pecore o montoni o maiali, perché più piccoli e maneggevoli. Alla stessa stregua di dadi a quattro facce, ad ognuna delle quattro facce era attribuito un valore numerico (1, 3, 4, 6).  La combinazione più ambita era il “colpo di Afrodite” che consisteva nell'ottenere con un sol lancio tutte facce diverse. Le regole del gioco ed il numero di combinazioni possibili variavano a seconda del numero di astragali che ogni giocatore lanciava. Questo gioco poteva aver luogo dovunque e in ogni circostanza. Giocavano i grandi ma anche i bambini che ne ricevevano in dono a scuola Essi li consacravano agli dei al termine dell'infanzia o dell'adolescenza.

La maggior parte di questi ossicini. risalenti all'antichità si presenta nel suo aspetto originario. Vi sono tuttavia esemplari, che sono stati forati in un senso o nell'altro oppure in entrambi i sensi da canali a sezione circolare: numerosi esemplari mostrano una o più facce lisciate, altri sono colorati di rosso vermiglio, altri ancora dorati, o piombati o iscritti con nomi di divinità.

In quelli piombati, risalenti al II millennio a.C., il piombo veniva colato all'interno del condotto o dei condotti che lo attraversavano.

Aristotele spiega che questi ossicini per via della differenza di peso, causato dalle modifiche apportate nelle loro diverse parti, non si spostano seguendo una traiettoria rettilinea, quindi occorreva una certa perizia per il gioco.

All'astragalo si attribuiva un potere magico: portati, come pendaglio, avevano funzione di talismano.

Oltre agli astragali naturali si sono trovati quelli di loro imitazioni in materiali diversi: oro, argento, bronzo, piombo, vetro, avorio, terracotta, marmo, terracotta invetriata, cristallo di rocca, agata, onice, ecc. Tali imitazioni generalmente riproducono le dimensioni di quelli naturali. Un'eccezione è rappresentata da un esemplare in bronzo del peso di 93 kg trovato a Susa (oggi nel Museo del Louvre).

La presenza di astragali nei templi stanno ad indicare il loro impiego nell'ambito delle consultazioni oracolari. In diverse località sono state ritrovate tabelle che recano una lista dei responsi ottenuti in seguito a cinquantasei lanci di cinque ossicini, Un rito oracolare aveva probabilmente luogo anche all'interno dell'Antro Coricio, dove sono stati raccolti 22.000 astragali.

Astragali sono stati rinvenuti nei corredi funerari, specie in sepolture di bambini. All'interno di una tomba a Locri di un giovane morto nel V sec. a.C. esisteva un vero deposito di ben 1002 esemplari.

VITO MARINO

 
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IL MUSEO DELLA CIVILTA' CONTADINA A CASTELVETRANO

Post n°38 pubblicato il 26 Novembre 2014 da vito.marino01

            IL MUSEO DELLA CIVILTA’ CONTADINA A CASTELVETRANO

Oggi la globalizzazione, come un rullo compressore sta livellando le diversità culturali che hanno da sempre caratterizzato l’umanità, facendo scomparire anche le nostre tradizioni.

 Di contro sta sorgendo l’interesse, da parte di studiosi, ma anche di semplici cittadini, verso la civiltà contadina siciliana, una civiltà  durata millenni e scomparsa quasi a taglio netto, intorno agli anni ’50, per far posto alla civiltà tecnologica e consumistica.

E’ da tempo che mi prodigo a raccogliere e recuperare la cultura popolare dei nostri nonni, fatta di storia, canti, lingua, proverbi, filastrocche, indovinelli, giochi di ragazzi, racconti della nonna e “smafari” (racconti giulivi). Nel mio libro “Sicilia scomparsa” ho recuperato usi e costumi, che continuavano a sopravvivere soltanto nella memoria di noi anziani.

Si tratta di conoscenze orali, non scritte, per l’analfabetismo da parte della classe contadina, destinate a scomparire se non veniva catalogata, studiata e scritta.

Giorno 22/11/2014 si è svolta a Castelvetrano, presso la Collegiata di Maria, l’inaugurazione di un piccolo, ma interessante museo della vita contadina, organizzato dalla scuola media G. Pardo. Presenti alla manifestazione la Dirigente scolastica Anna Vania Stallone, Francesca Gentile  Presidente del Kiwanis Club di Castelvetrano e il Sindaco della città Felice Errante.

Il materiale è stato fornito dai genitori dei giovani studenti di detta scuola e da cittadini che ancora conservano gelosamente nei loro magazzini, parte della memoria storica di una civiltà scomparsa. Tuttavia la mostra resterà aperta soltanto fino alla fine del mese. La creazione del museo ufficiale gestito dal Comune, per motivi economici, ma principalmente burocratici è slittata da diversi anni, ma sembra che dovrebbe varare tra breve.

Componente anch’io del gruppo che ha creato questa mostra, ho potuto constatare che le persone anziane erano particolarmente interessate e restavano commosse nel guardare ed analizzare i vari reperti, perché quegli oggetti, apparentemente freddi, riuscivano a svegliare i ricordi della loro vita passata, fatta di pesante lavoro e di sacrifici che caratterizzavano la civiltà contadina.

Se consideriamo che allora si lavorava “di lu scuru a lu scuru” (dalla mattina ancora al buio fino alla sera, dopo il tramontare del sole) per la durata giornaliera anche di 14 ore lavorative, possiamo appena immaginare quanta fatica  costava la loro sopravvivenza.

Per fortuna si tratta solo di ricordi lontani, oggi la meccanizzazione ha completamente soppiantato i lavori più faticosi.

Ma posso assicurare che anche i ragazzi erano interessati; alcuni di essi più svegli e volenterosi, dopo avere appreso i nomi dei pezzi esposti ed il loro uso, hanno fatto da ciceroni ai numerosi visitatori.

La scuola G. Pardo, sta portando a termine un progetto di studio per il recupero storico della civiltà contadina, sotto la guida degli insegnanti e del sottoscritto, attraverso una serie di conferenze e di lezioni in classe. Un altro tassello, per recuperare la memoria del nostro passato.

   VITO MARINO

 

 

 
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