Diario di bordo

La carica delle pennellesse...


Un articolo di Anita Pepe tratto da Exibar:Una valanga rosa vi seppellirà. Perché, se a Natale siamo tutti più buoni, a marzo siamo tutti più donne. Così sbocciano le mimose e fioriscono mostre e iniziative rigorosamente vietate ai maschietti. Autoreferenziali. Anacronistiche. Noiose…Il problema stavolta non è quello di recensire una mostra. Che può essere bella o brutta, interessante o insulsa. Il problema è capire perché si organizzino certe mostre. E perché ogni otto marzo debba puntualmente essere funestato da iniziative per sole donne (che nel peggiore dei casi non si limitano ad una sola giornata, ma si protraggono per l’intero mese). Esposizioni fatte da, per e sulle donne. Autoreferenziali. Anacronistiche. Noiose. Sulla qualità, poi, meglio stendere un velo pietoso. Un velo? Per carità! Da quando l’Occidente ha scoperto che esiste l’Islam, nel dì consacrato al woman pride avanzano plotoni di Addolorate in burqa, ormai protagoniste assolute a spese di africane infibulate, sudamericane desaparecide, albanesi precocemente prostituite e casalinghe tumefatte da mariti alcolizzati. Un mondo equo e solidale United States of Benetton, perlopiù ritratto, fotografato, “installato” da patetiche accolite di tarde giovincelle in cerca d’autore e vecchie non-glorie sfiorite, con le mani spaccate dalla varechina più che dalla trementina, sottratte all’oblio e al macramè per iniziativa di quelle stesse istituzioni che, guarda un po’, quando si tratta di sovvenzionare altre mostre nel resto dell’anno, latitano. È la demagogia, dura lex sed lex di una politica che agli artisti offre impari opportunità, però senza alcuna discriminazione sessuale. Salvo, appunto, riscoprire la voglia di mecenatismo allo sbocciar delle mimose. E allora via, performers nostalgiche di zoccoli e dazebao e dame di San Vincenzo diplomate in ikebana, tutte insieme appassionatamente in retoriche e arruffate collettive-apartheid, ad inebriarsi di vittimismo/protagonismo veterofemminista e a starnazzare contro le quote rosa erose. Contro l’evidenza.Contro la realtà di un sistema in cui non ha più senso invocare una “Società di protezione bestie rare”, perché le donne nell’arte ci sono, eccome. L’ultimo Turner Prize se l’è beccato una pittrice. E quante leonesse-vessillifere ruggiranno a Venezia anche quest’anno, nei padiglioni patri? E mica vorremmo metterci a scartabellare tra gli inviti ai vernissage, per contare le presenze muliebri? Sciocchezze. Nonostante tutto, però, intorno alle fatidiche Idi tocca assistere impotenti al proliferare –in spazi pubblici e sul circuito privato medio/basso, giacché a nessun gallerista serio verrebbe in mente una cosa del genere- di mostre settoriali e settarie, come se esistessero pennelli e pennellesse, come se ci fosse ancora bisogno di suffragette con la tavolozza in mano, o di pasionarie armate di plasma screen. Pronti a piangere e a scandalizzarci per le sorelle disgraziate in via di sviluppo sotto le bombe, visto che è solo il caso-limite a far notizia e tanto meglio se è lontano da noi. Perché i group show al femminile servono proprio a questo: a ricordarci che, per fortuna, c’è chi sta peggio di noi, emancipate consumatrici di assorbenti alati. E pazienza se, in tempi di revanscismo maschilista (“Borat” docet), tocca tenersi la palpatina sul bus e la battutina del collega. Pazienza se prima di fare un figlio bisogna chiedere il permesso al capo (che qualche volta non lo dà). Pazienza se culi e tette ristrutturati servono a vendere e a fare share. Pazienza se bisogna dimostrare che, se una gonna sta su una sedia importante, è perché ha sudato sui libri e non altrove. Pazienza se a trent’anni inizia la corsa a botox e liposuzione perché magazines e fidanzati-mariti scandiscono con inesorabile delicatezza il passar del tempo. Pazienza se bisogna morire taglia 40. Tanto, dopo la mostra, si va tutte a far shopping. E poi una bella cenetta tra amiche. Naturalmente light. Giusto? Sbagliato? Mah!