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Alla corte di Hitler

Post n°43 pubblicato il 20 Novembre 2006 da eltosco

Quattro cose erano la felicità per Hermann Goering: la guerra; i diamanti, con cui giocava alle biglie per rilassarsi; i trenini elettrici, che brulicavano nelle sale del suo castello, e fra i quali si distendeva beato con il suo corpaccione di 130 chili; le microspie, che aveva piazzato nelle case dei nemici e soprattutto degli amici, fin nella camera da letto di Joseph Goebbels e sotto la scrivania di Heinrich Himmler. Su quella stessa scrivania, era sempre posata una copia del Mein Kampf rilegata in Rueckenhaut, pelle di schiena umana; e davanti, c'era la famosa poltrona che aveva come piano orizzontale lo scheletro di un bacino umano e che poggiava su gambe e piedi umani, disseccati nelle sale anatomiche delle SS. Goering sapeva bene che Himmler portava lì, nella Wunderzimmer o camera delle meraviglie, i suoi ospiti più illustri: perciò vi faceva piazzare le microspie, registrava tutto, e passava le notti ad ascoltare i segreti del suo camerata; l'alba lo coglieva spesso ancora sveglio, ipnotizzato dal quadro dei microfoni, mentre tutt'intorno mulinavano i trenini elettrici e dal soffitto piombavano giù modellini di aerei sospesi ai fili, che scaricavano piogge di finte bombe.


Goering, Himmler, Goebbels, e sullo sfondo Martin Bormann, Albert Speer, Rudolf Hess: così, fra il lusso, il sospetto e la ferocia, vissero e morirono tutti loro, i cortigiani più fedeli di Adolf Hitler. E così si affacciano oggi dalle pagine di “Alla corte del Führer” (Mondadori, pagine 1040, euro 30), di Anthony Read: stregoni, buffoni, omicidi, e abilissimi manipolatori del potere come il loro maestro incantatore, coloro che lo seguirono per tutta la vita, condividendone trionfi e massacri. Goering, Himmler e Goebbels erano diversissimi fra loro, ma furono accomunati da alcuni dati esistenziali: una famiglia d'origine cattolica, proprio come quella di Hitler, e una giovinezza vissuta da cattolici praticanti; l'amore canino per il Führer; l'ambizione sfrenata — non da cani, ma da tigri o da sciacalli — di prenderne il posto, perfino nelle ultime ore, con Berlino in fiamme e la guerra ormai perduta; e infine, la morte per suicidio, sempre sulle orme del dominus.

La lotta per la successione al capo, la devozione nei suoi confronti, e la gelosia verso i rivali furono le ossessioni che dominarono la loro esistenza. E che Read rievoca, intrecciandole in una sorta di mosaico storico-psichiatrico. Questi uomini ebbero tutti una famiglia e anche più famiglie, con figli ed amanti; si ubriacarono tutti del potere politico-militare; ma per nessuno dei tre, nel bene e nel male, esistette mai nulla più importante di Adolf Hitler. Anche se non giunsero mai a dargli del «tu». E anche se lui li trattò sempre con un gelido «lei». Né smise mai di attizzare le loro rivalità, così da controllarli meglio. Goebbels scrive sul suo diario, dopo il primo incontro con Hitler: «Davanti ai suoi grandi occhi azzurri come stelle, sono in paradiso». E più tardi: «Adolf ti amo…».

Goering annota: «Quando lo vedo, il mio cuore sprofonda nei calzoni». Himmler parla da solo, a voce alta, fissando il ritratto del Führer. Fra loro, invece, si abbracciano in pubblico e si trafiggono in privato. Goebbels scrive che Goering è «un bastardo, infido come una serpe», un «damerino profumato, tutto culo, mucchio di m…». E bolla Himmler come «non particolarmente intelligente». Gregor Strasser, il nazista «di sinistra», ironizza a sua volta su Himmler «cicogna in uno stadio di ninfee», e Speer inchioda Bormann «maiale in un campo di patate».

Su tutti, colui che spicca di più è senz'altro Goering, l'unico cui i giudici di Norimberga riconobbero barlumi di umanità; l'unico che, almeno a parole, si oppose ai piani di guerra nel 1937-39. Ma che restò, fino alla fine, un mistero. Goering, avvolto nelle sue vestaglie azzurre, nelle pellicce di zibellino o nei giubbotti d'alce trapuntati di spille e medaglie, con la retina sui capelli, il volto incipriato, dieci anelli alle mani e le unghie laccate, l'orecchio sempre teso alle microspie; un allegro precursore degli spioni dei nostri giorni, «un ragazzone che non farebbe male a una mosca», che «batte felice le mani con fare gargantuesco» e che da giovane definisce i pogrom «indegni delle persone dabbene». Ma poi è anche il primo che fa leggere a Hitler i Protocolli dei Savi di Sion, libro-mastro dei falsari antisemiti. Goering simpaticone ma anche «vecchio assassino», «smorfioso fannullone» schiavo delle pastiglie di paracodeina (e solo per un breve periodo della morfina pura: non per tutta la vita, come si scrive spesso).

Tutte queste definizioni, così contraddittorie fra loro, gli appiopparono un giorno a Norimberga. Mentre Galeazzo Ciano lo ritraeva «a metà fra l'autista 1906 e la cocotte dell'Opera»: uno che un giorno finì perfino in manicomio, e in camicia di forza, per le crisi di astinenza dalla droga, conosciuta come rimedio per una ferita di guerra; ma ben presto si rivelò — parlano di nuovo le voci di Norimberga — «non stupido né pazzo ma freddo e calcolatore», «affabile, astuto, un attore che non delude mai il proprio pubblico», uomo «di immensa abilità e cultura, dalle qualità eccezionali sebbene potenzialmente malvagie».

Loro stessi, giudici e carcerieri, ne furono nauseati ma anche stregati. Al processo, dopo aver interrogato per giorni lo «smorfioso fannullone» ed esserne stato dominato, il procuratore capo americano ebbe un crollo nervoso, si tolse le cuffie della traduzione simultanea e le sbattè sul tavolo. Più tardi fu tra coloro che ordinarono la cremazione del condannato suicida, e spedirono le sue ceneri in un «canale fangoso», tra le foreste: perché, almeno da morto, non ammaliasse più nessuno.

Luigi Offeddu per il “Corriere della Sera”

 
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