Cioppo bbello!

Recensione di "Baarìa", il colossal diretto da Giuseppe Tornatore


 (Italia, 2009)"Operazione riuscita, paziente morto": con questa facezia si potrebbe sintetizzare Baarìa, megaproduzione di Mediaset che, partita per conquistare il mondo, finisce per scontentare persino i siciliani, dei quali si incarica di raccontare. L'uso del dialetto (che peraltro non è il "dialetto siciliano", ma solo quello di Bagheria e, per extenso, della provincia palermitana), appaiato con le troppo pompose e onnipresenti musiche di Ennio Morricone, rende questo prodotto un miscuglio di verismo tipo La terra trema (di Luchino Visconti, 1948, dove gli attori non professionisti parlavano un siciliano talmente stretto da risultare incomprensibile), Mimì Metallurgico ferito nell'onore (soprattutto grazie al volto e alle battute di Salvatore Ficarra, primordialmente simile al Giancarlo Giannini che la Wertmüller magistralmente sicilianizzò; ma anche grazie alla scena in cui gli attivisti del P.C.I. fanno campagna elettorale in una desolata cava ingiallita dal sole), di affresco metastorico à la Gangs of New York (Martin Scorsese, 2002) e di poema epico sulla falsariga di C'era una volta il West.
La fotografia (Enrico Lucidi) rende ogni scena troppo plastica e irreale, mentre nella vita vera il sole del Sud tende ad accentuare spigoli e contorni, non certo ad ammorbidirli! Ma le pecche più gravi risiedono nella sceneggiatura, che, scritta sicuramente per illustrare in maniera schietta questo angolo di Sicilia, sfocia in una (quanto involontaria?) balla colossale: infatti, chi va a spiegarglielo adesso ai nostri ragazzi che, nella realtà storica, il fascismo non ha mai lasciato il posto al comunismo o al socialismo, bensì alla Democrazia Cristiana, ed è per tale motivo che la Sicilia non ha mai potuto svilupparsi come - putacaso - la Toscana o l'Emilia Romagna?
Ovviamente ci sono delle sequenze che tendono a imprimersi nella nostra mente: il sasso che nessuno riesce a far rimbalzare per tre volte sulle rocce della "Porta del Vento", l’orecchino che la bambina perde dopo aver ricevuto uno schiaffo da papà Peppino e che viene ritrovato dallo stesso Peppino nella scena di chiusura, la mosca "bruciata" all'interno della trottola e che sguscia fuori quando la stessa trottola viene spaccata... Sono tutti elementi strettamente legati all'età dell'infanzia trascorsa in Trinacria, di notevole potenza metaforica come ogni altra cosa che è semplice e che scaturisce dalla dolce febbre dei ricordi; purtroppo, tali "perle", disseminate nei 150 minuti della pellicola in un'altalena di fatti comprovati e di simboli non universalmente comprensibili, smarriscono la loro forza primigenea.  
Altri difetti della sceneggiatura: in un film, così come in un romanzo, si possono tentare di raccontare decenni di storia - la storia di un uomo e della sua terra; ma mai usando un taglio veloce come fa Giuseppe Tornatore soprattutto nella prima ora di pellicola! Per esempio, ci capita di dover subire, nello spazio di un solo minuto, sia i bombardamenti dei tedeschi sia la liberazione da parte degli Alleati...
              Il regista al lavoroDagli Anni Cinquanta-Sessanta in poi il racconto si assesta un po' (certo: è il tempo della prima gioventù del regista - classe '56 - e dunque il periodo a lui più caro!), e tuttavia il copione continua a fare acqua da tutte le parti, con troppi personaggi che vogliono mettersi in risalto e "spingono" per entrare nello spazio visivo, troppi attori che si muovono come pupi siciliani anziché come persone vere e sono dunque privi di quel vigore espressivo che, in generale, caratterizza i siciliani e gli altri meridionali. Inoltre, mancano i primi piani, cosicché l'idea diffusa che se ne ricava è quella di un teatrino, o di un mondo visto come attraverso la parte sbagliata del cannocchiale. Singoli episodi vengono incastonati qua e là in modo artificioso e (almeno nella versione originale) si blatera troppo in dialetto siculo, come se l'Isola e i suoi abitanti volessero autocelebrarsi; e, oggettivamente, noi troviamo ingiustificato tale festino di "nuautri" (= noi altri). Ci tengo a sottolinearlo: per i soldi che sono stati investiti, è scaturita una pellicola troppo pretenziosa e solo parzialmente aderente ai fatti obiettivi, ossia ai fatti "storici" (metto l'aggettivo tra virgolette perché, in un'opera d'arte, la Storia, filtrata attraverso il mezzo narrativo e i sensi di chi sta a guardare e sentire, può tramutarsi facilmente in "metastoria", pur senza perdere nulla della sua veridicità: vedi Il tamburo di latta di Günter Grass / Volker Schlöndorff). Bisognava porre principalmente l'accento sull'ignoranza del popolino (ricordiamoci che il pittore Renato Guttuso e il poeta-salumiere Ignazio Buttitta sono due eccezioni della cittadina di Tornatore, non certo la regola!) e sulla tendenza dei siciliani a piegarsi al vassallaggio dei mafiosi. Affermo ciò perché da alcune sequenze si potrebbe pensare che quasi tutti gli abitanti di Bagheria fossero comunisti, mentre in realtà i "compagni" si potevano contare sulle dita di una mano e venivano trattati come degli appestati dai concittadini-baciapile. Spiegateglielo ai vostri bambini, caso mai vogliate guardare Baarìa insieme a loro!Altri appunti sulla sceneggiatura: anche se Tornatore cerca di attenersi a una storyline di senso compiuto, non arriva ad approfondire diverse questioni importanti che sorgono via via che la vicenda si snoda: ad esempio, non ci spiega come si associa la superstizione del personaggio principale (la sua ricorrente visione delle funeste serpi) con il credo politico da lui abbracciato. In generale, poi, i "baarioti" (bagheresi) vengono quasi nobilitati dal regista, sebbene - e non siamo noi a dirlo, bensì ce lo suggeriscono i fatti di cronaca anche recenti - non siano assolutamente degni di tanta considerazione. Nell'opera di Tornatore, tutti o quasi tutti appaiono essere contrari alla dittatura fascista e voler irridere i gerarchi e i caporalicchi di Mussolini; sembrano nutrire idee altamente democratiche... Ma allora com'è che Bagheria è diventato uno dei comuni più corrotti e più mafiosi d'Italia? Non bastano le apparizioni di artisti quali Gattuso e Buttitta ad elevare l'anima corale di quel laido paesotto! Tornatore doveva decidersi: o realizzare un film decisamente accusatorio, politico, antimafioso, o limitarsi a una narrazione aulica (e al limite neo-pirandelliana). Invece, è rimasto incastrato tra i due intenti. Peccato per i tanti milioni di euro e per il tempo sprecati!
La coppia di attori protagonisti ("Peppino" e "Mannina") fa il suo esordio ufficiale nel cinema. Lui, al secolo Francesco Scianna, si muove come se fosse attaccato ai fili di un "puparo"; di contro lei, Margareth Madé, è di una bellezza e di una vitalità talmente intense che sicuramente possiamo già parlare di una nuova stella del grande schermo.  Incomprensibili i numerosi camei e le micro-partecipazioni: Beppe Fiorello (l'instancabile compratore di dollari americani), Aldo Baglio, Nino Frassica, Leo Gullotta, Monica Bellucci, Raul Bova, Laura Chiatti... sono tutti utilizzati come comparse o poco più; però ci sono, e lo spettatore lo sa perché la pubblicità ne ha parlato a sufficienza. Ed ecco dunque che, durante la visione, ci sorprendiamo a sbirciare oltre le spalle degli interpreti principali per scoprire l'uno o l'altro "mostro sacro" di un cosmo cinetelevisivo - quello nostrano - che forse non ha ancora capito la propria mediocrità e continua ad autoesaltarsi, distante distantissimo dai parametri qualitativi anglosassoni, scandinavi e persino maghrebini.    (Peter Patti sul blog Cumuli e su http://cultura.oknotizie.virgilio.it)