Creato da smittino il 22/10/2006
Il lato oscuro dell'economia

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il fatto del giorno 2

17/10/2011
Contnua l'altalena delle borse.

11/10/2011
Strano: le agenzie di rating declassano i debiti, sovrani e non, e le borse salgono. Non dovrebbe essere il contrario?
Macché: si tratta dei giochini della speculazione. Tutto quello che si scrive sulla correlazione negativa o positiva fra valutazioni dei rating e andamento delle borse è acqua fresca.

10/10/2011
Ieri Kenneth Rogof (Harward) ha scritto che la c.d. tobin tax sulle transazioni finanziarie è deletaria perché oltre a a produrre un calo del gettito, cioè un calo delle transzioni di borsa, eroderebbbe il volume dei capitali, e gli stessi lavoratori finirebbero per patirne le conseuenze. Io ne dubito. Sulla prima tesi mi chiedo cosa dovrebbero farci gli investitori con i fondi che continuano a detenere dopo la tassa? Circa la seconda, dieci parole: il capitale non è determinato dalle tasse sul suo impego.

22/5/2011
Anche l'Italia è sotto osservazione delle agenzie di rating. Temo che sia il preludio di un prossimo attacco speculativo.

2/5/2011
Ieri primo maggio di negozi aperti e di santi, mentre la disoccipazione giovanile è al 29%. 

11/4/2011
Le Banche troppo grandi non possono fallire, perché il loro fallimento sarebbe di sistema. Se hanno problmi sono soccorse dagli Stati. Ma è proprio questa certezza la causa che spinge queste banche ad assumere rischi altissimi. Per cui il loro possibile fallimento è sempre in agguato.

21/3/2011
Comunque finisca, la guerra libica avrà conseguenze negative per l'Italia: se Gheddafi resterà in sella, si farà baciare anche i piedi; se cadrà dovremo vedercela con gli immigrati e, probabilmente, con il terrorismo.

16/3/2011
I giapponesi hanno i mezzi e forse ce la faranno a ricostruire. Ma in occidente non si pagherà nessun prezzo? Ne dubito.

3/3/2011
Ho l'impresione che il mondo occidentale, in nome della rel-politic, (leggi petrolio), stia abbandonando gli insorti libici al proprio destino di oppressi. Se sarà verificato, sarà un massacro.

 

 

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Il fatto del giorno 1

24/2/2011
Il giornale tedesco BILD ha scritto qualche giorno fa: Mario Draghi non deve essere il nuovo governatore della Banca Centrale Europea; quando lui era il vice presidente, della banca Goldman Sachs, questa ha coadiuvato la Grecia a costruire il pateracchio del suo debito pubblico che tutta l'Europa sta ora pagando.

15/2/2011
Un signore, che è Presidente del Consiglio dei Ministri, è stato rinviato a giudizio per gravi reati. Mi sarebbe piaciuto che le due circostanze non fossero state contemporanee.

13/2/2010
Il popolo egiziano s'è svegliato ed ha conquistato la libertà. Mi ha ricordato l'Ode a Walt Whitman di F.G.Lorca che si conclude con questi due versi: "...si sveglia ogni cen'anni/quando il popolo si sveglia".

3/2/2010
Stamattina il TG1 ha fatto dire al presidente del Consiglio: presenteremo un piano per far crescere il paese del 3% e forse anche del 4%, in 5/a. Tralasciando il futuro del verbo 'presentare', c'è qualche economista che ritiene che il piano sia credibile?

27/1/201
L'EFSF ha lanciato con successo la prima emissione di titoli propri, per reperire i fondi di soccorso all'Irlanda: per 5 mln richiesti c'è stata una domanda maggiore di circa quattro volte. Speriamo che sia così anche nel caso di prossime, probabili emissioni.

4/1/2001
Il sole 24 Ore oggi titola: "Dalle PMI (Piccole e Medie Imprese) una spinta al PIL".
Meno male, visto che quello legato alla finanza è come 'il raggio verde': quando si vede è un'illusione.

1/1/2011 
Gli interessi sui titoli italiani aumentano. Sembra una buona notizia, ma non lo è. Quando gli interessi salgono, significa che i compratori, temendo un default, pretendono di più.

20/1/2011 
Pagano le proprietà o le utilità, i risparmi o le spese?

7/1/2011 
Il banchiere è uno che vi presta l'omrello quando c'é il sole e lo rivuole indietro appena incomincia a piovere (Mark Twain).

 

 

 

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I medici dell'economia di mercato.

Post n°129 pubblicato il 19 Dicembre 2015 da smittino

1. Giorni fa la BCE (Banca Centrale Europea) ha allargato il QE (Quantitative Easing), per sospingere il processo avviato un anno fa per bloccare la deflazione e portare l’inflazione vicino al 2%. Nelle intenzioni di Draghi questo processo dovrebbe rafforzare la ‘timida ripresa’ europea.
Il 16 scorso la FED (Banca Centrale Americana) ha alzato i tassi d’interesse
 dello 0,25%, e ha fatto capire che li alzerà ancora  in seguito, anche se gradualmente, allo scopo di frenare la ‘forte ripresa’ americana e scongiurare in partenza una eventuale nuova crisi in futuro. Anche se la governatrice Yellen ha detto che non se ne prevedono.
Strana l’economia di mercato che ha sempre bisogno del ‘medico’, sia quando cresce, sia quando non
  cresce: se cresce, produce inflazione, che oltre un certo limite è pericolosa e va frenata; se non cresce, ristagna nella crisi, e si deve pompare liquidità nei mercati - cioè nelle banche - per farla riprendere. A mio avviso, nessun medico si convince che né misure come quella della BCE, né misure come quella della FED risolvono il problema della instabilità economica. Eppure, i fatti dimostrano proprio questo.
Ad aumentare la confusione ci sono, poi, le spiegazioni degli esperti, che non mancano occasione per dissertare sugli effetti che le misure di politica monetaria producono
 nelle borse: le borse vanno su e giù come l’altalena (sono ‘volatili’ come di dice in gergo economico) e gli esperti sempre a dare spiegazioni diverse. Chi legge i giornali, ma anche chi semplicemente ascolta i telegiornali, sente che un giorno l’andamento delle borse è causato dalla guerra al - o del - Califfato; un altro giorno è il prezzo del petrolio che è troppo basso; un altro giorno ancora le ‘prese di beneficio’ o le ‘coperture’ degli investitori; e ancora: vengono riferite come probabili cause persino i comportamenti ‘sbagliati’ della governatrice della FED e del governatore della BCE; e poi tante altre: un mare di chiacchiere, per non ammettere onestamente che nessuno sa davvero come si ‘muove’ l’economia e, poiché l’economia oggigiorno è ‘finanza’,  per non ammette che non ci sono regole della finanza auspicabili, perché la finanza non ne sopporta.

 2. Per farmi capire meglio, è bene che io dica prima del significato di ‘presa di beneficio’ e di ‘coperture’, che ho buttate nel discorso solo per rabbia verso un linguaggio usato per non far capire ai più di cosa si parla . ‘Presa di beneficio’ è una vendita massiccia di titoli, che si fà dopo che la borsa è cresciuta per un lungo periodo: si vende per beneficiare del guadagno realizzato. ‘Copertura’ è un acquisto massiccio di titoli, che si fà per averne a disposizione quando sarà il tempo di speculazioni future;  il tutto indipendentemente dall’andamento delle borse. Per chi ancora non lo sapesse, operazioni di questo genere sono una parte consistente della c.d. ‘speculazione finanziaria’, e la speculazione non si ferma mai.

3. Ritornando, ora, alle decisioni di BCE e FED, cerco di spiegare le loro recenti decisioni.
Dopo la crisi iniziata nel 2008 la FED ha pompato liquidità nei mercati, e l’economia americana si è ripresa; o così si pensa, visto che i milioni di posti di lavoro creati sono in maggioranza lavoro precario e altre precarietà sono presenti in America ; e visto ancora che se il PIL americano è aumentato, è aumentato anche il debito americano . In queste condizioni i mercati (le banche) e con essi gli esperti ritenevano che la crescita americana fosse troppo forte, e andava frenata; e per frenarla era necessario che si alzassero i tassi d’interesse, e per molto tempo. La Governatrice in persona fin’ora era stata titubante, con questo ragionamento: se la situazione nazionale è incerta e quella internazionale non è migliore ( per guerra, terrorismo, economie dei paesi emergenti in crisi) non è imprudenza frenare la liquidità? Purtroppo alla fine ha dovuto cedere alle pressioni, e ha dovuto decidere la ‘frenata’. Per inciso: io continuo a pensare che i tassi d’interesse alti, più che all’economia del paese servivano alla finanza per fare investimenti redditizi.
Quanto alla BCE, ripeto qui le ragioni della sua decisione, già spiegate altrove. L’Europa non si  è mai ripresa dalla crisi cominciata nell’estate del 2008; perché la BCE non ha potuto fare a suo tempo quello che ha fatto la FED, cioè pompare liquidità nei mercati, perché non c’era un Governo Europeo che lo permettesse. Così la crisi in Europa non è mai finita. Solo recentemente Draghi, vedendo che le varie stupide iniziative prese dalla Commissione Europea (per tutte il c.d. ‘Fiscal Compact’) non davano frutto, ha imposto un Q.E. tecnicamente possibile, definito in due tempi: prima nel 2013 e poi all’inizio di questo mese. Spiegare il significato di quel ‘tecnicamente possibile’ ci porterebbe troppo lontano. Accontentiamoci di seguire Draghi nel suo lapidario ragionamento: il Q.E. all’europea dovrebbe far passare l’economia del vecchio continente dalla deflazione, che è segno di stagnazione, all’inflazione, che è segno di ripresa. Secondo me, né le misure della FED, né quelle della BCE avranno effetti apprezzabili sulle economie delle due sponde dell’Atlantico. In America si registreranno un freno dell’economia, un aumento dei prezzi,un calo dell’occupazione e un peggioramento generale della situazione non solo economica, ma anche sociale e politica: se non subito, sicuramente nel medio termine. In Europa l’inflazione non passerà da 0% a 2% prima di anni, e la situazione generale che conosciamo non cambierà. In entrambi i casi la speculazione finanziaria continuerà per la sua strada, lasciando sempre più lontana da sé l’economia reale.

4. Allora non c’è proprio speranza di vincere questa crisi? Qui occorre essere onesti e un  po’ visionari. Il tempo che fu, non tornerà mai più, perché le economie dei vari distretti geografici sono troppo interconnesse per non risentire l’una dell’altra. Se oggi un distretto è in crescita è perché un altro, o più, sono in crisi. Per sperare che un domani si possano avere relazioni economiche positive per tutti, è necessario progettare un nuovo ordine politico, prima che economico, capace di creare ‘aspettative’ nuove, in sostituzione di quelle vecchie che nessuno più segue. Il cambiamento passa attraverso:
- il privilegio dell’economia reale (del fare, direbbe qualcuno);
- il ritorno della moneta a strumento di regolazione degli scambi;
- una regolazione della finanza che sia regolazione del risparmio e/o dell’eventuale surplus monetario;
- restituzione delle banche alla loro funzione
  di pura intermediazione del credito.
Intanto che maturino i tempi lunghi di un simile progetto, bisogna da subito promuovere le ‘nuove aspettative’ mediante:
- nuove regole di gestione della cosa pubblica;
- un freno alla finanza speculativa;
- destinazione dei fondi bancari innanzi tutto al credito;
- investimenti nella manifattura, vera fonte di ricchezza, specialmente in Italia;
- investimenti in ricerca e sviluppo.

 
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Confindustria e contratti.

Post n°128 pubblicato il 10 Ottobre 2015 da smittino

1. Il Centro Studi Confindustria ha elaborato un documento nel quale si ‘dimostra’ che in occasione dei prossimi rinnovi dei contratti, che sono in scadenza quasi per tutte le categorie, i lavoratori non possono pretendere aumenti, perché quelli del passato sono stati calcolati su un’inflazione programmata più alta di quella che si è verificata, e ad oggi sono superiori all’inflazione corrente. Con questo documento Confindustria si è presentata ai rinnovi contrattuali, e non vuole scucire un soldo, adducendo che se lo facesse la redditività dell’impresa non sarebbe più remunerativa, e ci sarebbe una fuga dagli investimenti maggiore di quella che già c’è, anche a causa della bassa produttività.
Sembrerebbe un ragionamento corretto, ma contiene quello che io chiamo ‘il vizio del padrone’.
Per vizio del padrone intendo il vecchio ‘gingle’ secondo il quale quello che è del padrone è intangibile, e se c’è da tutelare ragioni d’impresa, devono pagare i lavoratori. Provo a discuterne.

2. Sulle due questioni.
a. I salari sono cresciuti più dell’inflazione. E allora? In via generale, non c’è nulla di male se un po’ di reddito si è spostato dal profitto al salario: ne ha beneficiato la spesa, e i lavoratori e la società hanno peggiorato un po’ di meno la loro condizione. In ogni caso il fenomeno a sfavore di Confindustra si è verificato per un periodo breve, quello preso in considerazione da Confindustria (circa quattro degli anni in cui il paese è in deflazione), mentre normalmente, negli anni passati, i benefici contrattuali non hanno mai recuperato l’inflazione. E poi, c’è di più: il calcolo fatto da Confindustria ha tenuto conto, oltre che dal mancato aumento dell’inflazione, anche dell’aumento del costo della vita? (Un’inflazione che non cresce certamente favorisce i salari, ma l’aumento del costo della vita altrettanto certamente li impoverisce). Nel documento non si fa cenno del costo della vita.
b. La produttività non cresce. Quale produttività, quella del lavoro, quella dell’impresa, o quella del sistema paese?
La produttività del lavoro era lo sfruttamento del secolo ‘800, ma nessuno più ne parla seriamente, e spero che la Confindustria non faccia riferimento ad essa .
Allora è in discussione la produttività dell’impresa? Spero di si. Ma qui la Confindustria è sorda su una questione fondamentale. La produttività, ridotta all’osso, corrisponde al costo unitario di prodotto nell'unità di tempo, ed è data dalla seguente relazione  p = P/C + L con  p = produttività; P = prodotto; C = capitale; L = lavoro. La relazione dice che p aumenta, se aumenta P sfruttamento), o se diminuiscono C o L, o entrambi. La sordità della Confindustria consiste nel credere queste tre cose:
- P non può aumentare perché 'purtroppo' i lavoratori non si fano sfruttare;
- una diminuzione di C, significando rinnovo degli impianti a maggiore contenuto tecnologico, non sempre è possibile;
- quindi, solo se diminuisce L, cioè, solo se si abbassano i salari, si alza la produttività.
E' per questa sordità di Confindustria che la produttività nel nostro paese langue. 
Poi ci sarebbe la produttività del sistema paese. Che sarebbe, grosso modo, la capacità del paese di funzionare bene spendendo il meno possibile. Su questa accezione di produttività non dirò altro, perché ci vorrebbe altro tempo per farlo. Dico solo che qui Confindustria per gran parte pensa che non tocchi all’imprenditore fare qualcosa e, per quel poco che dice, sono cinquant’anni che non fa fare altro che lamentare troppe tasse e troppa burocrazia, ignobilmente menzionate come lacci e lacciuoli.

3. Che dire, questi sono i nostri imprenditori e questi ci teniamo.
Però…
Da più parti si ripete che per uscire dalla crisi nella quale ancora ci troviamo, occorrerebbero massicci investimenti. Lo Stato non può farne, perché non sono permessi dai vincoli europei (fiscal compact ed altre diavolerie). Dovrebbero farli i privati, gli imprenditori. Che avrebbero i soldi per farli. Ma non ci pensano nemmeno, perché… l’inflazione programmata non corrisponde a quella effettiva e perché la produttività…, ecc. ecc.

 
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Cigno nero cinese?

Post n°127 pubblicato il 28 Luglio 2015 da smittino

1. Nell’estate 2007 un cigno nero si è posato nel campo della finanza internazionale, ed è stata crisi: una crisi che in molti paesi dura ancora, e che tanta miseria ha portato anche a noi. Quest’anno un altro cigno nero sta volteggiando nei cieli della finanza, questa volta in quella cinese, e l’occidente è entrato in fibrillazione: si teme un contagio.
L’immagine del cigno nero è uscita dalla penna di Nassim Nicholas Taleb, un epistemologo di origini libanesi che vive nel mondo; un cigno nero è un evento eccezionale, ma possibile.
Che succede in Cina?
Succede che da quando il governo ha permesso la formazione di mercati finanziari, anche in questo paese si è cominciato a credere che per arricchirsi sia più sicura la scorciatoia dei ‘giochi di borsa’, che non il lavoro produttivo. Così, improvvisati traders, prendendo a prestito denaro generosamente fornito dalle banche, paradossalmente sostenute dal governo, hanno guadagnato in borsa migliaia e, a volte, milioni di yuen, senza badare a cosa compravano e vendevano. Per imitazione, in breve in Cina sono sorti oltre novanta milioni di speculatori, che hanno contribuito a far lievitare i prodotti finanziari fino all’800% del loro valore iniziale. Ma, arrivati a questo punto, in molti hanno cominciato a chiedersi: quanto può durare? E sono corsi a vendere; per tesaurizzare i lauti guadagni conseguiti. E si sa che quando tutti vendono, le borse si sgonfiano.
Ieri quella di Shangai ha perso quasi il 9%, e ne hanno risentito le borse europee, anche se con perdite molto minori; persino la borsa americana di Wall Street è andata giù.

2. Ora in occidente si temono due cose:
- che i ricchi cinesi abbiano meno soldi da spendere in occidente, e le nostre aziende potrebbero subire calo dei profitti e perdite azionarie;
- che gli stessi ricchi cinesi, prima di investire le loro ricchezze all’estero, ci pensino più di una volta.
Il nuovo cigno nero causerà una nuova crisi finanziaria internazionale? Personalmente penso di no, perché il governo cinese sa bene come salvaguardare la propria economia. Per esempio: chiudendo alla speculazione, cioè, governando l’economia con la politica.
Da noi una simile opzione non è prevista. Ma, attenzione con quali conseguenze: si insegue una ricchezza di carta, infischiandosi di milioni di disoccupati e poveri assoluti che ci sono in giro, e andando continuamente in panico quando un cigno nero si profila all’orizzonte.
Davvero vogliamo questo?

 
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Il QE di cui si parla.

Post n°126 pubblicato il 14 Maggio 2015 da smittino

1. Un paio di anni fa, o forse tre, quando si temeva per una debacle della moneta unica, il Governatore della BCE Mario Draghi, per rassicurare i mercati, pronunciò una frase che è passata alla storia politica ed economica dell’Europa: “we’ll do whatever it takes”, cioè, ‘faremo tutto il necessario’, per garantire l’euro. Che, poi, fra parentisi, è la condizione prima perché l’economia europea torni alla crescita e dia occupazione.
Draghi ha mantenuto la promessa. Tante misure sono state prese da allora e, quando si è visto che non bastavano, è stato sparato il ‘bazooka’, cioè, è stato programmato il c.d. Quantitative Easing (QE), che consiste nell’acquisto di titoli per circa 65 mld. il mese, fino a quando l’inflazione, da sottozero che era, non arriverà alla soglia del 2%, che è il livello-obirttivo. Posto che il tempo del programma è poco meno di un anno e mezzo, a partire da marzo scorso, alla fine il QE immetterà (o, come vedremo, immetterebbe) sul mercato quasi 1.200 mld. di euro.
C’è speranza di raggiungere l'obietivo?
Ancora è troppo presto per rispondere. Ma alcuni indizi non sono conforteanti.

2. Intanto, dove è gstato sperimentato (America, Giappone), il QE, dopo un breve fuoco di paglia, ha prodotto effetti deludenti. Anche nel Regno Unito, dove non c’è stato un QE vero e proprio, ma una provvista di liquidità al sistema produttivo, i risultati si stanno dimostrando modesti. Evidentemente non si sbaglia chi pensa che queste misure non sono il rimedio giusto contro la crisi.
E, poi, va anche aggiunto che per un QE all’europea forse non c’erano neanche le condizioni. E qui alcuni fatti ci sostengono.
Primo. Da un po’ di tempo i rendimenti dei titoli europei sono decrescenti (solo in questi ultimi giorni stanno risalendo). Questo denuncia la loro scarsità, e pare che la BCE non ne stia comprando abbastanza. E’ vero, davvero? È probabile. Se non ci fossero altre prove, c’è almeno quella che in molti mercati del vecchio continente mancano, o quasi, i c.d. (CDO), i titoli cartolarizzati che sono la massa critica delle disponibilità mobiliari. Per questa ragione, tanti pensano che il QE in Europa non avrà successo. E già! Perché gli acquisti della BCE non si fanno alle aste, come in America e in Giappone, ma riguardano titoli in possesso delle banche, e queste non li vendono, o non li vendono tutti: se ne servono come garanzia per ottenere il credito di cui hanno bisogno.
Secondo. In alcuni paesi, a cominciare dalla Germania, l’inflazione, anche se lentamente, ha ripreso a salire. E’ quanto basta per far pensare che il QE potrebbe presto dimostrarsi inutile, e fermarsi molto prima della scadenza prevista.

3. Ma allora siamo alla frutta? Secondo me, si.
La crisi che ci accompagna da oltre sette anni non è finita, e le dichiarazioni del nostro Governo, basate sugli zero virgola delle rilevazioni statistiche, più che certezze, sono autoincoraggiamento. E’ vero che le aspettative (positive) aiutano la crescita; ma aiutano a due condizioni:
- che siano desumibili da dati consolidati;
- che la crescita non sia bloccata.
Che è quanto nel nostro paese non si verifica.
La storia economica insegna che le crisi sono state vinte sempre, e solo, con investimenti nell’economia reale, tali da creare lavoro. Finché il QE darà soldi alle banche, invece  che a un’agenzia, magari ad hoc, che li dia, a sua volta, alle imprese, noi dalla crisi non usciremo mai.

 
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Le torsioni del FMI

Post n°125 pubblicato il 29 Aprile 2015 da smittino

1. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI), per la quantità di dati di cui dispone, nel bene e nel male è un osservatorio autorevole sulla finanza internazionale. Due volte all’anno elabora e diffonde un World Economic Outlook (all’incirca: una visione prospettica dell’economia mondiale) che fornisce una informativa generale sull’economia internazionale e, indirettamente, determina le decisioni di politica economica dei paesi occidentali, e non solo.
E’ scontato, quindi, che il FMI, pur non essendo istituzione governativa, ha molta voce in capitolo nella gestione delle crisi economiche. Purtroppo attraverso la dottrina dell’austerità.
Molti economisti, fra i quali tanti premi nobel, sono del parere che il FMI sia la causa fondamentale del perdurare degli effetti dell’ultima crisi. E lo è con la sua dottrina che, virgola più, virgola meno, dice questo: per uscire dalla crisi bisogna fare sacrifici; quindi niente investimenti, niente misure per l’occupazione, e pazienza se la povertà aumenta; la ripresa compenserà.

2. Ebbene, sembra incredibile, ma con l’ultimo outlook il FMI è pervenuto a risultati opposti al suo credo. La debolezza degli investimenti delle imprese è una delle principali ragioni della debolezza economica globale, si legge nell’outlook. Di qui la domanda: perché le imprese non investono?
La scienza economia avrebbe tante risposte, ma il FMI ne dà una propria: le imprese non investono, perché l’economia è fiacca. E l’economia è fiacca perché la stretta sui conti pubblici, e i sacrifici delle famiglie per ridurre il debito, hanno causato un freno della crescita e un conseguente depauperamento delle risorse da destinare agli investimenti.
Ma come? Il FMI critica la dottrina dell’austerità? Cioè, la sua dottrina?
Proprio di questo si tratterebbe, se non ci fosse un però.
Ragionando sui fatti,  
e intellettualmente onesto involontario, il FMI ha scoperto che la crisi è causata dalla mancanza di investimenti. Se non che questa è una verità che il FMI non può accettare sic e simpliciter, senza smentire la sua ortodossia. Perciò corre ai ripari, e la spiega con come può: in base ad un elenco di casi in cui la mancanza di investimenti è causata dal calo della domanda (per aumento delle tasse, o taglio della spesa pubblica), sostiene che la generale caduta degli investimenti è causata da taglio della spesa pubblica che frenando la domanda, li scoraggia.
Così l’ortodossia, che vuole che la mancanza di investimenti sia causata dalla crisi, è salva.

3. Ma che spiegazione è! Le crisi di per sé non producono calo degli investimenti; gli investimenti calano, perché le aspettative degli investitori sono negative. Quindi non è vero che non s’investe per mancanza di domanda; non s’investe proprio perché l’economia è fiacca. Per farla riprendere, bisogna investire. Prima il FMI accetta questa verità, prima facciamo del bene a noi tutti.

 
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Sprea di nuovo in salita

Post n°124 pubblicato il 23 Aprile 2015 da smittino

1. Oggi sul giornale della Confindustria si legge questo tritolo: “Scendono i tassi di Italia e Spagna e salgono quelli dei paesi ‘core’. Tornano gli acquisti sui periferici”. “Che vor dì”, dice l’amico mio romano.
Amico mio, prima di rispondere è bene che tu sappia che:
- ‘i tassi di Italia e Spagna’ significa i tassi di interesse offerti a chi compra i titoli del debito pubblico di questi due paesi, cioè, BTP e BONOS;
- ‘periferici’ significa paesi periferici rispetto a quelli dell’Europa centrale, cioè, Italia e Spagna; (ci sarebbero anche Portogallo e Grecia, ma su di essi nessuno è capace più di ragionare, su alcunché che li riguarda;
- ‘core’, da ‘qualcosa di centrale’, come cuore, nucleo, ecc, nel gergo geopolitico significa ‘nucleo centrale; quindi, paesi ‘core’ dell’Europa sono quelli del centrale, cioè, Germania, Francia e 
stranamente Regno Unito.
Dunque, il titolo del giornale dice che poiché gli operatori di borsa sono ritornati ad acquistare BTP e BONOS, il prezzo di questi titoli sale e, di conseguenza, gli interessi che i due stati dovranno pagare scendono. Il contrario in Germania e Francia, e forse Regno Unito, dove gli interessi salgono.
Sembra una buona notizia, ma non lo è.
L’amico mio mi chiese ancora: “Perché non è una buona notizia?”
Perché il famoso Spread, che era sceso di molto, sta ritornando a salire.

2. Quando l’interesse di un titolo scende, nessuno lo vuole più, e dovrebbe cercare di venderlo; il contrario se l’interesse sale. Ma allora perché la gente compra titoli con interessi calanti (quelli di Italia e Spagna) e vende titoli con interessi in salita (quelli di Germania, Francia e Regno Unito)? Semplice: gli interessi in Italia e Spagna, anche se in discesa, sono intorno all’1,40%, viceversa gli interessi in Germania, Francia e Regno Unito, anche se in salita, sono intorno allo 0,1/0,3%; e 1,40 – 0,1 = a 1,39 che, senza virgola fa 139, che uno spread doppio di quello dell’inverno, e se continua a salire per noi sono… ‘bitter crauti’.

3. La verità, che il giornale non dice apertamente, è che lo ‘strano’ comportamento di chi opera in borsa, cioè gli speculatori, avendo visto che la Banca Centrale Europea ha dato nuovamente un po’ di credito alle banche greche, hanno fiutato che ancora una nuova crisi non si profila e, per questo, stanno vendendo titoli dei paesi ‘core’ e comprando titoli dei paesi periferici, che rendono meno di ‘ieri’, ma sempre più dei titoli ‘core ’, senza, ancora, correre rischi di fallimento della Grecia e dell’Europa.
E’ la finanza, bellezza, è la speculazione. Che continua imperterrita a navigare nella tempesta, lucrando. Ecco perché il titolo del giornale non è una buona notizia.

 
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La finanza non è in crisi.

Post n°123 pubblicato il 08 Aprile 2015 da smittino

1. Da quando la crisi economica è stata certificata – diciamo dal fallimento della Banca Lehman Brothers (15 settembre 2008) – ad oggi, la ripresa si è avviata prima in America, poi in Europa, da un po’ anche in Italia: ma con lentezza, e un recente paper del FMI scrive nero su bianco che nulla sarà più come prima. Nello stesso periodo la finanza sta conoscendo un momento di ben godi, che non si vedeva dai tempi dell’America di Greenspan: per esempio l’indice S&P500 (un indice che rappresenta il valore medio delle azioni delle prime 500 imprese americane quotate in borsa) ha triplicato il suo valore arricchendo – e in che misura – le imprese che rappresenta, ma soprattutto coloro che scommettono su questo indice.
Sembrano eventi scollegati, e invece sono in rapporto di causalità.

2. “La spiegazione di questa profonda divaricazione tra salute del mercati finanziari e debolezza relativa del ciclo economico è tutta e solo nelle ingentissime iniezioni di liquidità delle banche centrali”, per giunta in un periodo in cui i tassi di rendimento degli investimenti sono pressoché a zero (Il Sole 24 Ore del 5.4.2015).
Ed ecco perché.
L’abbondante liquidità elargita dalle Banche Centrali in questo periodo è stata appannaggio pressoché totale delle grandi banche. Se queste banche avessero utilizzato almeno parte della liquidità ricevuta per rianimare il credito alle imprese, davvero l’economia si sarebbe ripresa. Ma non l’hanno fatto. E non l’hanno fatto perché – dato il regime di interessi bassi – avrebbero realizzato ritorni poco vantaggiosi. Le Banche, invece, hanno preferito investire nel settore della finanza, dove i ritorni sono stati – e sono ancora – ben più alti, in alcuni momenti anche con numeri a due cifre.

3. Purtroppo il fenomeno appena descritto è noto da tempo, e tanti economisti, opinionisti, giornalisti e persino politici lo stanno denunciando. Ma la volontà che lo determina e lo difende – che è della finanza che ci guadagna – è più forte di qualunque tentativo politico di fermarlo. L’ultimo in ordine di tempo, la resistenza della Grecia di Tsipras ai diktat europei, sta per essere definitivamente sconfitto.
E dire che la finanza si regge sul piccolo risparmio, i nostri piccoli risparmi: li depositiamo in banca, la banca li raccoglie e li deposita in una banca d’affari, questa li scommette su un indice, per esempio l’indice S&P500 – che funziona come un blackjack – e il gioco è fatto. A nostra beffa, perché i risparmi sono i nostri, e a nostro danno, per quello che abbiamo detto.

E se non facessimo più risparmi?

 
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Il ricatto della banche all'Italia

Post n°122 pubblicato il 07 Marzo 2015 da smittino

1. Alla fine del 2011, per collocare i titoli di nuova emissione, il nostro paese doveva pagare quasi il 6% in più della Germania, e i mercati (cioè le grandi banche momdiali, cioè ancora, i principali compratori) erano sul punto di abbandonarci,e migrare verso lidi più sicuri. In quel mese di novembre abbiamo corso il rischio che persino stipendi e pensioni non fossero pagati. Come è noto, il governo Berlusconi di allora si dimise e, fretta e furia, fu messo in piedi un Governo Monti, con l’incarico di bloccare il fallimento. A distanza di oltre tre anni, quando sembrava che l’obiettivo fosse stato centrato, si sta scoprendo come si è operato, e quello che si capisce non è rassicurante: il pericolo di un fallimento del nostro debito pubblico è stato semplicemente spostato in avanti.
In soldoni.

2. Per convincere le grandi banche a continuare ad acquistare i nostri titoli, il Governo ha accettato di rinegoziare le garanzie (derivati) che aveva sottoscritto a suo tempo, senza accantonamenti di bilancio a sostegno, e con una perdita potenziale di circa 39 mld (e forse di più). Per ora, intorno al nostro debito pubblico è bonaccia, grazie alla Banca Centrale Europea e al Quantitative Easing. Ma quando la bonaccia finirà, e finirà perché il Quantitative Easind non durerà in eterno, e imercati dovessero decidere di passare all’incasso, nei nostri conti pubblici ci sarebbe un buco almeno da 39 mld. che, per altra via, molto lunga da spiegare in questa sede, ci porterebbe ugualmente al fallimento.
Per chi avesse voglia di saperne di più, in fondo e con numeri spiegherò come si arriva a questa conclusione.
Ma chi non avesse questa voglia, può non continuare a leggere, senza perdere niente della sostanza del ragionamento che precede.
Quello che qui preme evidenziare è che davvero – come, peraltro, si pensa – il nostro paese vive sotto ricatto delle grandi banche internazionali. Che continuano ad acquistare titoli del nostro debito pubblico, si, ma solo perché:
-
 se gli interessi sono bassi come oggi, pagando comunque 100 punti di interesse in più della Germania, L'Italia è una cuccagna;
-
se gli interessi salgono, incassano gli importi dei derivati.
E’ vero che
 quello che ho chiamato ricatto è oggetto di continue, estenuanti trattative. Ma in una trattativa del genere chi è più forte? E, in ogni caso, è un fatto che le grandi banche non perdono mai: o guadagnano con gli intessi; o guadagnano con i derivati.
Ma poi: “Con l’uso dei derivati il Tesoro sta veramente riducendo il rischio” del nostro debito pubblico, o sta arricchendo le grandi banche, gurda caso, sempre tanto generose ad assumere ex funzionari del nostro Tesoro? (Il Sole 24 Ore del 3 marzo 2015). 
Ed ora i numeri.
 

3 Come è noto il nostro paese ha circa 2.000 mld. di debito pubblico. A fronte di questo cifra, a fine 2014 il M.ro del Tesoro possedeva  derivati per 159,5 mld. (8,95% del debito). Valutati al prezzo corrente (c.d. Mark-to-market) del 2014, hanno realizzato una perdita sul valore iniziale di 39 mld circa, e forse più. Questa perdita per ora è solo potenziale. Ma può realizzarsi quando le grandi banche invece di tenersi i contratti dei derivati, dovessero decidere di passare all’incasso (E’ già successo in precedenza, e la Procura di Trani sta indagando).
Perché? E’ presto detto. I derivati di che trattasi funzionano così: quando gli interessi sul debito pubblico salgono, lo Stato spende di più, ma sa che può incassare il derivato; quando gli interessi sul debito pubblico scendono, lo stato spende di meno, ma perde il derivato. Oggi lo Stato sta perdendo perché gIi interessi, in termini di spread con i titoli tedeschi, sono scesi di 500 punti base (600 del 2011, meno 100 di oggi).
E ancora: i derivati italiani avevano scadenze a lunghissimo termine, e la possibilità di realizzare perdite era lontana nel tempo. A fine 2011 le scadenze sono state accorciate. Non è forse possibile che se lo spread dovesse risalire (come peraltro è prevedibile) domani e non fra dieci anni, l’Italia potrebbe essere chiamata a  pagare 39 (e forse più) mld. o, comunque, la 
cifra che risulterà al momento del pagamento?
Oltre ai derivati in cassa, l’Italia possiede diritti di acquisto di altri eventuali derivati per un valore di circa l’1% del debito totale. Ebbene, dal 2011 ad oggi 
tali diritti, in quantità considerevoli sono stati venduti.  Perché? Forse per non destinare il ricavato al contenimento del buco?
E’ una bella complicazione. E non si capisce bene se davvero siamo stati costretti ad immergerci in una simile palude, o se, invece, non c’è stato anche il concorso dell’azione umana.
La magistratura sta indagando sui fatti del passato. Speriamo che faccia luce anche sul presente.

 
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QE e Cassandre

Post n°121 pubblicato il 28 Gennaio 2015 da smittino

1. L’ultimo intervento della BCE, il Quantitaive Easing (QE), teso al rilancio dell’economia, è stato variamente commentato: tanti sono convinti che si tratta di misure efficaci, altri sono scettici sui risultati, ma c’è chi pronostica conseguenze negative, che potrebbero verificarsi se qualcosa non dovesse andare per il verso giusto. Per tutti, il professor Guido Gentili, per il quale il ‘verso giusto’ sarebbe ciò che auspicherebbero Bruxelles e Germania.
Vediamo.
Il QE in pillole è una misura delle banche Centrali che consiste nell’acquisto di titoli pubblici e privati, con il proposito di far aumentare la liquidità e di conseguenza il credito a imprese e famiglie. Le autorità politiche europee prima l’hanno 
osteggiato, ma alla fine l’hanno accettato come ultima spiaggia, e nella speranza che funzioni.

2. Cosa dice il professore in proposito? Ecco il succo del suo pensiero, come apparso il 24 gennaio scorso sul Sole 24 Ore.
“…In sostanza i mercati… hanno squadernato sul tavolo i possibili punti d’attacco. Non è un caso che il presidente della Bundesbank Jens Waidemann abbia avvertito che il QE della BCE , con il piano d’acquisti, riduce la pressione su Francia e Italia e rischia di frenare le riforme nei due paesi-chiave”. E se la cancelliera tedesca Angela Merkel, nel recente incontro di Firenze ha parlato di misure impressionanti, le due posizioni non sono dissimili: “… sono… nell’interesse della Germania che alla fine coesistono, non due linee l’una del tutto alternativa all’altra. E bisogna farci i conti, esattamente come ha fatto Draghi…”.
Chiaro? I mercati potrebbero non condividere il QE, e il governatore della Bundsbank e il capo del governo tedesco ci hanno messo sull’avviso. E poco importa che ‘potrebbero non condividere’ è un condizionale che non indica una situazione di realtà, ma solo ciò che pensa il professore delle possibili, o probabili valutazioni di Waidemann e Merkel.
 
Fin’ora ritenevamo che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire’, ma dopo le parole del professor Gentili è doveroso una errata-corrige: non c’è peggior sordo di chi è sordo.
Per riprendere la tesi a lui cara, che non è con gli aiuti esterni che l’Italia risolve i suoi annosi problemi, ma con le ‘riforme’, egli mette insieme vulgate correnti e ne fa un articolo improabile; purtroppo, per un giornale che ancora lo ospita, se è vero che da tempo il personaggio non cangia stile, nonostante intorno a noi tutto stia cambiando, idee sull'austerità compresa, che, a detta di tanti premi nobel, si sono dimostrate, prive di consistenza scientifica e di risultati positivi.

3. Ma leggiamo l’osservazione core che il professore fa al QE della BCE:  “… non è supplente rispetto al ruolo che appartiene ai singoli stati… Per cui, astenersi da facili analisi a catena per le quali tutto si aggiusta… ”. E qui, la sequenza degli effetti del QE, elencati come li vedrebbero il “laudatores”, cioè mercati, politici e gente comune, la dice lunga sulla dimestichezza che il professore ha in tema di politica economica: “… più reddito, più investimenti, euro più basso, più occupazione… ”.
E come se non bastasse: “… a proposito: dove è finita la mistica della moneta forte?”.
‘Ma de che’, professore!
Intanto ci propone un’osservazione marginale rispetto a tutte quelle che si potrebbero fare sul QE. Ma diciamo che l’osservazione è sua, e come tale va rispettata.
Nel merito della suo articolo, ci consenta di non condividere il pessimismo di cui è pervaso.
Primo, le minacce dei mercati contro le misure della BCE, che sarebbero leggibili nelle parole del governatore della banca centrale tedesca, e anche nelle dichiarazioni fiorentine della cancelliera Merkel, al di là 
delle parole effettivamente pronunciate, non sussistono. Almeno fin’ora. E l’Italia sta facendo le riforme.
Secondo, il presidente della banca centrale tedesca e la cancelliera Merkel, in ogni caso, non sono i mercati. E i mercati hanno salutato positivamente il QE della BCE.
E ancora: è chiaro a tutti che il QE è una misura monetaria, e le misure fiscali (investimenti, occupazione ecc.) competono dei singoli stati dell’UE. Ma è possibile, che lei non sappia, che senza il QE gli stati avrebbero continuato ad avere le mani legate e, invece, con esso qualcosa possono cominciare a fare? O almeno: quello che faranno (le famose riforme) avranno maggiore possibilità di successo?
Infine: la sequenza degli effetti probabili del QE sono aumento della liquidità, aumento del credito, aumento degli investimenti, aumento dell’occupazione, aumentro dei redditi, aumento dei consumi: in sintesi, ricostituzione della domanda aggregata, e non quella indicata da lei.
Sulla svalutazione dell’euro stendiamo un velo pietoso: tutti sanno a che serve la svalutazione della moneta; le dice qualcosa il concetto di svalutazione competitiva?
Noi saremo laudatrores, professore, ma lei cos’è, Cassandra o menagramo?

 
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La crisi infinita

Post n°120 pubblicato il 31 Ottobre 2014 da smittino

1. Il 12 ottobre del 2008, a crisi economica conclamata, apparve su La Repubblica una vignetta di Altan, nella quale uno dei personaggi soliti diceva all’altro: “questa crisi ci renderà più buoni; e l’altro: “a patto che non passi”. Con lungimiranza Altan ci avvertiva che quanto stava succedendo non era da prendere sottogamba, sarebbe durata a lungo, e avrebbe spazzato via l’illusione che il benessere sarebbe durato per sempre. E così è stato, se è vero che ancora oggi, a distanza di oltre un lustro, siamo qui a chiederci quando, e se, la crisi finirà.
Abbiamo speso questo fior di argomenti per spiegare cause, discutere previsioni, spiare luci in fondo al tunnel, puntare indici accusatori,  
discutere presunte devianze dei mercati, senza venire a capo di nulla.
All’inizio di quest’anno molti hanno dichiarato che si era alla svolta, ma si sbagliavano: la crisi è ancora in corso, e la migliore testimonianza è la flessione degli indicatori più significativi di quasi tutti i paesi, ad eccezione di Stati Uniti e Gran Bretagna, che sarebbero fuori dalla crisi, e Grecia, Spagna e Irlanda in ripresa, grazie ad una corretta esecuzione delle ‘raccomandazioni’ del Fondo Monetario Internazionale, della BCE 
e della Commissione Economica Europea.
Ma a che punto siamo davvero, visto il terremoto delle borse mondiali del 15 settembre e del 27 ottobre?
Per rispondere, dovremmo sapere con più certezza cos’è una crisi economica, da dove origina, che effetti produce e come se ne esce. Noi non siamo titolati per dare risposte scientifiche. Ma possiamo ugualmente ragionare secondo il senso comune.

2. C’è crisi quando il processo circolare investimenti/produzione/consumo/… investimenti… si blocca.
E perché può bloccarsi? Perché una o più fasi di quelle descritte si fermano.
La produzione, intesa come trasformazione del capitale investito, può fermarsi o per mancanza di investimenti, o per mancanza di consumi. Il consumo si ferma quando non c’è produzione, o quando i consumatori non hanno reddito sufficiente da spendere. Il risparmio non si realizza, quando i redditi sono spesi interamente in consumi. Queste ovvietà ci dicono che produzione, consumi e risparmi sono determinati all’interno del processo. L’investimento, invece, ha determinanti diversi.
Secondo l’economia classica l’investimento è determinato dal risparmio che si consegue alla fine del processo. Dunque, anche l’investimento ha determinanti interni del processo. Con l’avvento delle teorie keynesiane cambia tutto. Secondo Keynes l’investimento è determinato sostanzialmente da due fattori esterni al processo, che sono: il tasso d’interesse praticato dai possessori del capitale (sostanzialmente, le banche) e le aspettative attese dall’investitore. Le aspettative sono di fondamentale importanza per la continuità del processo, e se sono davvero fondate, sono i determinanti ultimi dell’investimento, a prescindere dal livello del tasso d’interesse. La differenza fra le due teorie non è neutra rispetto ad una crisi.

3. Le fasi interne di un processo intuitivamente sono meglio governabili di quelle esterne. Se si blocca una fase interna, chi gestisce ha tutte le conoscenze e gli strumenti per intervenire; se invece si blocca una fase esterna, si devono azionare fattori all’infuori del processo, con rischio d’insuccesso, per la non sicura conoscenza di uno o più fattori.
Questa considerazione autorizza a ritenere che la vera causa delle crisi economiche è da rinvenire nel blocco dell’investimento. E autorizza, altresì, a ritenere che dall’investimento bisogna partire per vincere una crisi.
Chiediamoci ora perché non si investe. Anche qui dobbiamo interpellare le due teorie menzionate.
Secondo la teoria classica, oggi neoliberista, tutti gli fenomeni economici sono determinati dal gioco della domanda dell’offerta sui mercati. Quindi, anche il fenomeno investimento ha questo determinante: si investe, se c’è incontro fra domanda (d’investimento) e offerta (d’investimento). La prima è naturale conseguenza del buon funzionamento (efficienza) del processo; l’offerta è rappresentata dal risparmio conseguito alla fine del processo.
Secondo i neoliberisti, insomma, se il mercato è efficiente, domanda e offerta s’incontrano sempre, e l’investimento si realizza; se non succede è perché il mercato è inefficiente. Ma l’inefficienza è temporanea, perché il mercato ha strumenti di autoregolazione, idonee a far vincere su una crisi.
Secondo la scuola Keynesiana le cose stanno diversamente. E stanno come le riassumiamo in pillole.
Per Keynes, essendo le decisioni d’investimento esterne al processo, a prescindere dall’efficienza del mercato, domanda e offerta possono non incontrarsi, o almeno essere sfasate, per condizioni non favorevoli: può non esserci domanda, può mancare il credito o, infine, possono esserci aspettative negative.
Per i Keynesiani, in altri termini, il processo può andare comunque in crisi, perché il mercato non ha meccanismi automatici di aggiustamento.

4. La crisi in corso, ormai solo europea, non si sblocca perché le misure anticrisi, ormai solo austerità, non contemplano gli investimenti come intervento prioritario e, comunque non stanno dando frutti. Quanto al ricorso a misure di tipo Keynesiano, cioè investimenti massicci e mirati, ancorché temporanei, manco a parlarne; quelli pubblici, farebbero crescere il debito, e violrerebbero i trattati europei, quelli privati non sarebbero remunerativi. Eppure, basterebbe un semplice ragionamento per decidere interventi keynesiani.
L'austerità forse a lungo termine potrebbe dare risultati; diciamo che continuando a fare austerità, a lungo termine forse dalla crisi si uscirebbe; a lungo termine, però, potrebbero intervenire aventi capaci di rendere nulli i sacrifici, e saremmo punto e da capo. E non è escluso che, come diceva Keynes, a lungo termine, potremmo essere tutti morti. Misure  keynesiane, al contrario, avrebbero effetti più ravvicinati. E il debito conseguente potrebbe essere ripagato, insieme a quello esistente, con  parte del
l’incremento del PIL portato da queste misure.
Perché non ci si pensa?
Perché oggigiorno le risorse sono fatte quasi interamente di ‘finanza’ e la finanza non ama guadagnare a lungo o medio termine con il credito commerciale. Si faccia pure austerità, ma noi finanza, abituati a lauti guadagni sulle piattaforme delle borse, non abbiamo tempo e risorse da destinare agli investimenti. Quando tutti avranno fatto i compiti a casa (liberalizzazione del lavoro, giustizia cooperante, pochissime tasse ecc. ecc.) allora, magari… 
E perché forse ancora la crisi non ci ha fatto più buoni, come pronosticava Altan nella vignetta, cioè, abbastanza ‘con le pezze al sedere’, da avere voglia di imbracciare un forcone.

 
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Proposte tagliadebito

Post n°119 pubblicato il 18 Agosto 2014 da smittino

1. Il Debito Pubblico italiano (DP) è un problema perché:
A) è troppo elevato (quasi 2.200 mld di Euro);
B) aumenta di anno in anno, essendo le spese pubbliche maggiori delle entrate.
Il limite massimo di un qualunque DP coincide con il debito che uno stato, se richiesto, può pagare, ed è legato alla sua credibilità presso gli investitori.
Pagare interamente il nostro DP è impensabile; né ci è richiesto. I vincoli europei (il famoso fiscal compact
) ci obbligano a portarlo al 60% del PIL (DP/PIL = 60%), tagliando la differenza fino al 100% di 1/5 all’anno.
Posto che il 60% del nostro PIL è pari a 1.200 mld circa, per tagliare poco meno di 1.000 mld. (40%) ci vorrebbero, alternativamente:
a) un incremento del PIL tale che DP/PIL fosse uguale a 60;
b) risultati di blancio positivi per diversi anni, tutti da destinare a riduzione progressiva del DP, fino a portarlo al 60% (del PIL);
c) manovre di bilancio di circa 40 – 50 mld all’anno, come chiesto dalla UE, per ridurre annualmente le spese e ottenere b).
La realizzazione del punto a) implicherebbe una crescita adeguata
, che per il momento non è all’orizzonte.
Quella del punto b) è impedita da quanto detto al punto B) (spese sempre maggiori delle entrate).
Le manovre del punto c) sono impossibili nell’attuale recessione economica; a meno di non accettare di finire come la Grecia di qualche anno fa.

2. Come se ne esce?
Ci sono delle proposte. Per esempio quelle del Professor Paolo Savona (Il Sole 24 Ore del 15 agosto), che non andrebbero sottovalutate.

3. La prima proposta, forse la più sicura, vede in campo la UE e si articola come segue:
a) attivazione di un impegno degli stati al pareggio di bilancio con un intervento strutturale una tantum, e mantenimento dello stesso nel tempo;
b) promozione di una garanzia europea per il debito eccedente il 60% del P.I.L. da rimborsare secondo un piano asseverato dalla Banca Centrale Europea (BCE).
E’ evidente che la proposta non è nuova. C'è, però, la novità che il progetto complessivo avrebbe la supervisione della UE, il programma di rimborso del debito eccedente il 60 % del PIL avrebbe l’asseveramento della BCE e il progetto riguarderebbe tutti gli stati dell’Unione.
Ma è noto che rispetto a misure del genere la UE (leggi la Germania) è sorda.

4. La proposta alternativa sostanzialmente è una riproposizione della prima, limitata al nostro paese, e da realizzare in casa. Differisce rispetto alla prima per la riformulazione del punto b) come segue: garanzia del rimborso del debito eccedente il 60% non più tramite la B.C.E., ma con la creazione di un fondo nel quale vincolare una quota adeguata del nostro patrimonio pubblico, da gestire economicamente e, poi, alienare per finanziare il rimborso. Per convincere i mercati della bontà di un tale progetto bisognerebbe far loro tutta una serie di concessioni in sede di alienazione degli asset del fondo.
Se la UE facesse sua la prima proposta, risolverebbe la crisi in atto e dimostrerebbe di volere davvero L’Europa unita.
Se i mercati accettassero la seconda, concorrerebbero a migliorare le condizioni economiche dell’Italia e potrebbero contare su un paese in cui sarebbe conveniente investire.
Della prima proposta si parla da tempo, ma senza costrutto. Sulla seconda proposta aleggia scetticismo.
Sempre a Ferragosto, infatti, Isabella Bufacchi, valente giornalista dello stesso giornale, ha scritto che, dopo le dismissioni operate dai governi dal 1992 al 2000, restano pochi gioielli di famiglia da mettere nel fondo destinato a rimborsare il debito e, comunque, un fondo del genere se da un lato potrebbe dare qualche risultato immediato sul fronte della riduzione (del debito), da un altro lato finirebbe per ridurre le entrate di bilancio, con conseguente aumento del deficit e, alla fine, del debito stesso. Per queste ragioni, la giornalista ritiene che la via da seguire sarebbe quella di un intervento dell’Eurozona, sostanzialmente secondo le indicazioni della prima proposta del professor Savona, sulla quale l’UE è sorda.

5. Proprio nulla da fare, allora?
Personalmente ritengo che Il DP del nostro paese debba essere aggredito con altro debito, per finanziare – secondo uno schema Keynesiano – investimenti, capaci di creare posti di lavoro. Il risultato sarebbe un aumento del PIL col quale pagare il debito: quello vecchio e quello nuovo.
Spiego meglio queste cose nel post n. 111 di questo blog.

 
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Un Mister per la crescita.

Post n°118 pubblicato il 04 Agosto 2014 da smittino

1. “Non sarà l’eventuale accordo sulla flessibilità dei parametri UE a portare fuori dalle secche della crisi che da tempo sta attanagliando l’economia italiana ed europea.” La flessibilità è già prevista dagli accordi comunitari, a cominciare dal fiscal compact. “Da questo punto di vista sarebbe sufficiente procedere con le riforme… per ottenere le deroghe necessarie.” Così, il professor Paganetto di Roma 3 sul Sole 24 Ore del 26  luglio, che aggiunge: Renzi ha richiamato l’esigenza di “fronteggiare la grande sfida” di ritrovare l’anima dell’Europa, per dare fiducia e speranza: giusto; ma per tradurre questo richiamo in “fatti” bisogna convenire che “… l’Europa e l’Italia… stanno attraversando una fase, ormai lunga, in cui recessione e bassa crescita sono accompagnate da elevata disoccupazione, aumento della povertà e delle disuguaglianze”.
Per venire a capo di simili problemi, dice ancora il professore Paganetto occorre “una politica industriale europea”  a cui il nostro paese dovrebbe associarsi, “puntando a una destinazione prioritaria in questa direzione dei fondi del programma Junker da 100 mld.  
Ove la direzione unitaria sarebbe quella di mirati investimenti ad alto valore aggiunto, tipo quelli già proficuamente sperimentati in Germania. Il nostro paese potrebbe pensare, per esempio, al settore energetico, ancora suscettibile di sviluppo. In ogni caso, meglio sarebbe se chiedesse all’Europa un Mr. Growth ( signor crescita) al quale commettere un coordinamento unitario europeo degli interventi.
Mi sembra una riflessione estiva.

2. I numeri dicono che la crisi italiana ‘ammonta’ a un rapporto debito/pil pari al 130%, e l’Europa ritiene che se il nostro paese non lo riduce di 1/20 all’anno, fino a portarlo al 60% come da accordi di Mastricht,  le sorti dell’Euro sono in pericolo. Ciò significa che il nostro paese dovrebbe spendere intorno a 45 mld. l’anno per 20 anni circa. Con questi dati, le risorse che potrebbero arrivare all’Italia  - dai 300 mld. promessi da Junker a tutti i paesi euro - sarebbero briciole, e tutto resterebbe più o meno come prima.
A  differenza di quanto pensa Paganetto, la realtà è che paesi come l’America e il Regno Unito sono usciti dalla crisi con massicci investimenti a debito, dai quali sono scaturiti incrementi di occupazione, crescita e conseguente
sviluppo.
Sicché non sembra del tutto corretto pensare che chi, in virtù di questa logica, invoca flessibilità  nell’applicazione dei patti europei, tale da permettere investimenti produttivi, sia un marziano in terra.

3. A me sembra che quelli come Paganetto sottovalutano gli insegnamenti della storia, passata e presente, e la magnifica formalizzazione teorica che ne ha fatto J.M. Keynes, dopo la grande depressione del ’29. Recessione, bassa crescita, elevata disoccupazione, aumento della povertà e disuguaglianze non sono fenomeni che si accompagnano l’uno all’altro occasionalmente, ma si presentano con sequenza logica e causale tutte le volte che il ciclo è in fase discendente. Se si prescinde dalla causalità, o non si capisce bene, le soluzioni che vengono proposte possono non portare da nessuna parte. Si possono avere idee differenti sull’avvio delle crisi, ma l’uscita non può essere altra che una seria, serie di investimenti che diano in ordine: occupazione, reddito e crescita e, quindi ancora, investimenti occupazione reddito e crescita. Dalla crisi del 29 si è usciti per questa via. E per la stessa via America e Regno Unito hanno vinto la crisi  iniziata nel 2008 e da noi ancora in corso.
Con questo tipo di soluzione aumenta il debito? Nulla di male: il maggiore nuovo reddito lo pagherà, e pagherà anche quello vecchio.
Ovviamente nulla di male anche se per far tutto questo si ritiene che possa essere utile un Mr. Growt.   

 
 

 
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Il ritorno della ragione

Post n°117 pubblicato il 27 Marzo 2014 da smittino

1. In questa crisi infinita è una notizia: Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, Ignazio Visco, governatore di Bankitalia e Jens Weidemann, presidente della Bundesank, separatamente e stranamente hanno dichiarato che l’andamento dell’economia europea, a un passo della deflazione, necessita di misure per la crescita. La notizia è del tutto nuova, e marca una virata a centottanta gradi dei tre eminenti banchieri, responsabili fra i maggiori della politica monetaria e finanziaria europea: dopo la religione dell’austerità a oltranza, adesso pensano che per il risanamento dell’economia comunitaria siano necessarie:  una “… azione comune” per far ripartire la ripresa, a cominciare dal mantenimento della stabilità dei prezzi” (Draghi); “… misure a sostegno della stabilità dei prezzi perché il potenziale di crescita va innalzato… “ (Veidemann); e responsabilità per gli obiettivi di più lungo periodo, “… considerando anche la sostenibilità dei sacrifici e la distribuzione dei benefici…” (Visco).

2. Tradotte, le loro “parole oscure” contengono il seguente messaggio:
- la crisi non è affatto finita;
- le politiche di austerità e dei “compiti a casa” non ha dato grandi risultati; in alcuni casi (vedi Grecia) oltre a rappresentare lacrime e sangue per la gente, ha anche distrutto l’apparato della crescita (capitale fisico e umano) e compromessa la cosi detta ‘crescita potenziale’, cioè una teorica possibilità di ripresa a crisi finita;
- ‘Fiscal compact’ (sostanzialmente bilanci nazionali in pareggio) Unione Bancaria e altre diavolerie messe in campoi, tipo i cosi detti ‘scudi salva stati’ (che non sin sa che esito potrebbero avere, se usati, vista la miseria delle loro dotazioni finanziarie) sono strumenti difensivi che, se possono funzionare per fallimenti di stati come la Grecia (2% dell’economia europea totale), a poco varrebbero se a fallire fosse, per esempio, l’Italia;
- il pericolo per l’Europa è il debito degli stati e, in particolare, il debito dell’Italia che, se non dovesse essere onorato,   trascinerebbe al fallimento non solo il nostro paese, ma sé l’intera economia dell’Unione;
- poiché si sta dimostrando difficile aggredire direttamente i debiti, bisogna impegnarsi per la crescita, di talché il rapporto debito/piI che non si riesce a ridurre con l’abbattimento del numeratore della frazione, si riduca con l’aumento del denominatore (pil).
- impegnarsi per la crescita, significa programmare una politica per investimenti che diano posti di lavoro.
Che dire? Era ora che qualche responsabile capisse queste cose e ne facesse oggetto della propria azione. E’ successo e ne siamo lieti. Abbiamo solo da osservare che in tanti, da tempo, suggerivano (inascoltati) le stesse misure (Paul Krugman). Speriamo che da domani sia la volta buona.

3. Ma ora mi consento una digressione. Nel suo intervento Visco ha precisamente affermato: “Anche se la regola sul debito pubblico prevede alcuni margini di flessibilità, è comunque sulla crescita reale dell’economia, quindi sulla ripresa degli investimenti - al tempo stesso fattore di offerta e componente fondamentale della domanda - che bisogna puntare”. Mi torna strano che un componente di domanda possa essere fattore (?) di offerta. Sbaglio, o Visco per promuovere gli investimenti, necessari alla 'crescita reale', trascura volutamente la classica, netta distinzione fra politiche economiche dal lato dell’offerta e politiche economiche dal lato della domanda? Perché non ha detto apertamente che le prime, fin qui seguite, non hanno dato grandi risultati, ed è necessario passare alle seconde?

 
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Ritorna?

Post n°116 pubblicato il 17 Febbraio 2014 da smittino

1. Chi non muore si rivede! O, per essere più seri: alle porte delle economie delle due sponde dell’Atlantico sta bussando una vecchia conoscenza, sta chiedendo di rientrare la crisi economica, quella che si pensava archiviata alla storia col nome di Grande Recessione (GR). Da pochi mesi alcuni opinion maker (pochi in verità) avevano cominciato a parlare di indizi di ripresa, verificabili in paesi come USA, Portogallo, e persino Grecia e già una più nutrita pubblicistica teme nuove crisi, che probabilmente saranno innescate dai BRICS (Brasile, Russia, India e Sudafrica) e dai MINT (Messico, Indonesia, Nigeria, e Turchia).
Che succede?

2. Quando la GR sembrava indomabile nonostante gli aiuti forniti con il Quantitative Easing (QE), la Banca Centrale Americana (FED) si è inventata l’acquisto i titoli per 80 mld di dollari al mese, facendo piovere sui mercati un fiume di denaro. Dal canto suo, la Banca Centrale Europea (BCE) ha creato i Long Term Refinancing Operation (LTRO) e gli Outright Monetary Transactions (OMT), i primi consistenti in finanziamenti a 3/a alle Banche e i secondi in promesse di acquisto di titoli di paesi in difficoltà.  La Banca Centrale del Giappone (BOJ) ha varato un piano per raddoppiare la liquidità in circolane in quel paese.
Insomma, in poco tempo, i mercati finanziari sono stati inondati di denaro, che hanno abbondantemente  usato in  operazioni note in gergo col nome Carry Trade e consistenti nel prendere denaro a basso costo dove c’era (Usa, Europa e Giappone) e investirlo ad interessi consistenti nei BRICS e nei MINT.
La politica della BOJ in un primo tempo ha infiammato i mercati; da un po’, invece, fa constatare che non ci sono stati mutamenti sostanziali nell’economia del Giappone. Quella della BCE ha dato un po’ di respiro soltanto alle banche e nulla all’economia reale. Il QE americano, al contrario, aveva avviato una ripresa vera, come testimoniano il buon andamento delle borse, e l’aumento dell’occupazione. Ma la consistenza è ancora incerta. Tutte e tre le politiche hanno concorso a far lievitare la massa monetaria di BRICS e MINT, e l’inflazione, i tassi di cambio delle monetari degli stess, con conseguente danno per il loro commercio estero. Ci sono state molte proteste, specialmente da parte del Brasile, perché il fenomeno fosse governato, ma nessuno ha prestato orecchio ed il fenomeno è continuato indisturbato.

3. Adesso, per tenere sotto controllo l’inflazione del paese, la FED ha deciso di frenare l’acquisto dei titoli americani, e il flusso migratorio indicato ha invertito la rotta: i capitali che, per speculare, prima si erano diretti verso BRICS e MINT stanno ritornando alla base, cioè in America ed in Europa; ovviamente sempre con intendi speculativi. Se non che, regole speculative vogliono che si  dirigano verso i paesi dove le economie sono più precarie - Grecia, Portogallo, Italia e Spagna - e, di conseguenza, i mercati più volatili. Sono queste le ragioni per cui oggi le borse dei paesi in questione stanno facendo faville. Ma si teme che si tratti di un fuoco di paglia: gli operatori stanno solo facendo le cosiddette ‘Operazioni di Copertura’, stanno, cioè, acquistando titoli a buon mercato e buoni rendimenti, con i quali coprire le operazioni speculative passate e, possibilmente, future.

4. Se così può essere letto l’insieme dei fenomeni economico-finanziari in corso di svolgimento, e se si considera che investimenti ed occupazione sono al palo in tutto il mondo, non è peregrino dedurre che i prodromi per una nuova crisi ci sono tutti.
E, attenzione! La GR ha spazzato via una ricchezza che c’era. Una nuova crisi che farà?   

 
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Punto e a capo

Post n°115 pubblicato il 13 Gennaio 2014 da smittino

1. JP Morgan è una delle più grandi Banche del mondo e, con un bilancio che aggira sui 4 trilioni di dollari, è un’autorità nella finanza internazionale. Quando la tristemente nota crisi economica era fatto conclamato, e il governo americano era intervenuto con migliaia di miliardi di dollari di aiuti, JP Morgan è stata messa sotto inchiesta come uno dei responsabili, e chiamata a rispondere anche di reati gravi, fra i quali le menzogne ai propri azionisti sulle reali condizioni economico-patrimoniali dell’Istituto. Dopo anni la procedura giudiziaria è approdata a un accordo con la Procura Generale, che commina alla banca una sanzione di 13 miliardi di dollari e sospende l’azione penale sia per l’Istituto, che per i vertici.
In America la giustizia funziona anche così: invece di ‘perdersi in lungaggini processuali’, le parti possono accordarsi su una pena, e il processo, almeno in parte, si chiude.
Tutto regolare, dunque?
Per niente.
Intanto c’è da osservare che l’entità della sanzione è ridicola, se solo si considera la sua incidenza sul potenziale economico della banca: 13 miliardi su 4 trilioni sono appena uno 0,0…%, una briciola. Inoltre non danneggerà i responsabili, cioè, gli amministratori, perché sarà contabilizzata come sopravvenienza passiva, e graverà sul risultato (o sui risultati) d’esercizio, vale a dire: sugli azionisti.
In secondo luogo, con l’accordo, la banca non ha riconosciuto alcuna sua responsabilità.
Ma quello che più inquieta è la via che è stata seguita per raggiungere il risultato: tutto è avvenuto con una telefonata dell’amministratore delegato della banca al Procuratore Generale, con la quale è stato proposto l’accordo. E telefonicamente è intervenuta l’accettazione. La formalizzazione degli atti è stata successiva.

2. Better Markets, un’organizzazione americana non profit che promuove l’interesse pubblico nell’implementazione delle leggi di riforma della finanza e del mercato dei capitali, ha scritto una lettera alla Procura Generale per auspicare che la definitiva chiusura del processo conosca la massima trasparenza. Ma null’altro, perché la ‘sconcezza’ sia in qualche modo mitigata. E l’impunità vincerà.
Purtroppo con conseguenze.

3. E’ notizia mediatica di questi giorni che dalla crisi, almeno in America, si sta uscendo. Ma, come se nulla fosse accaduto, se ne sta uscendo con le stesse modalità e performance che hanno prodotto quella precedente. Scrive oggi il Sole 24 Ore che i mercati sono di nuovo gonfi di soldi, che non sanno come e dove investire, perché troppi soldi abbassano i rendimenti. Sicché la via obbligata è di nuovo quella della speculazione finanziaria pura. Ma, come sappiamo, la speculazione pura, prima o poi farà scoppiare la bolla, e, verosimilmente, sarà di nuovo crisi.
Insomma, dopo tante sofferenza e sacrifici,  siamo punto e daccapo. Anche è soprattutto perché nessun responsabile è stato chiamato a pagare davvero.

 
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La matta idea del marmittone Curly.

Post n°114 pubblicato il 17 Dicembre 2013 da smittino

1. Adriana Cerretelli, nota giornalista de Il Sole 24 Ore, oggi ha firmato uno dei due editoriali del giornale. Riporto il succo del suo ragionamento.
Se si mettono a confronto i dati di quello che hanno fatto Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo e quello che non hanno fatto Italia e Francia, si scopre perché i dubbi dell’Europa sulla “volontà” del nostro paese di tenere i conti in ordine sono ben fondati. L’Italia è molto resistente ai suggerimenti europei e, tra l’altro, non capisce la lezione, non apprezza i buoni risultati ottenuto dal ‘risanamento’ operato in cambio degli aiuti della c.d. troica (FMI, BCE e Commissione Europea); risultati che oggi significano uscita dalla crisi e avvio della ripresa. 

2. Sempre oggi, lo stesso giornale, ha pubblicato un articolo di Paul Krugman che, in un passaggio, sembra una risposta alla giornalista. Riporto lo stralcio.

3. In uno dei film dei tre Marmittoni - scrive Krugman - c’è una scena in cui si vede Curly che sbatte ripetutamente la testa contro il muro. Moe gli chiede perché lo fa e Curly risponde: - Perché quando smetto è bellissimo -. Come battuta è brillante, peccato che che in questo momento sia il criterio dominante delle politiche di bilancio… gli austeriani (coloro che predicano l’austerità n.d.r.) ora cantano vittoria perché alcuni paesi che hanno imposto politiche di rigore finalmente, dopo anni di contrazione dell’economia, cominciano a mostrare un minimo di crescita… questo sta avvenendo perché prima o poi un’economia tende a crescere, se le politiche sbagliate non peggiorano ancora di più…. In ogni caso i paesi indicati sono ancora ben al di sotto di come sarebbero stati con meno austerità.

4. Scelgo la quasi risposta.   

 

 
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La crisi secondo Greenspan

Post n°113 pubblicato il 12 Dicembre 2013 da smittino

1. Alan Grenspan, presidente della Federal Reserve al tempo in cui è cominciata la crisi economica, che ancora non è finita, recentemente ha pubblicato un libro dal titolo: “The map and the territory.  Risk, uman nature and the future af forecasting” (manca una traduzione italiana). Già dal significato letterale si capisce che si tratta d’un lavoro impegnativo: “La mappa  e il  territorio. Rischio, natura umana e futuro prevedibile” vorrebbe/dovrebbe spiegare cosa sono rischio e natura umana, che tipo di relazione li lega, come e dove agiscono insieme e cosa si può prevedere per il futuro. Secondo Paolo Savona, professore alla Luiss di Roma. In questo libro Greenspan passa in rassegna i successi e gli errori delle sua vita di studioso delle relazioni tra gestione del rischio e previsioni economiche, nonché di protagonista dell’alta finanza americana e mondiale. E lo fa cercando di trovare risposte alla domanda: perché i previsori non hanno previsto la crisi. E prova ad abbozzarne una in proprio, che all’incirca suona così: la vera causa della crisi - delle crisi in genere - è la complessità e l’irrazionalità dei comportamenti umani, che nella finanza trovano il terreno fertile per esprimersi al massimo della propria potenzialità.

2. Personaggio eclettico, Greenspan? Sembrerebbe di sì, se si mettono a confronto le dichiarazioni di oggi con quelle che fece al Parlamento Americano, quando la crisi aveva già pesantemente colpito l’economia del paese. “Che sta succedendo”, chiedevano i parlamentari, “Ancora non si capisce”, erano le sue risposte; “In ogni caso quello che succede non era prevedibile”. E qualche anno prima, quando la crisi era ancora nella mente di Dio: “Non capisco, ma vedo che va bene”.
Ma ancora più siderale è la distanza fra queste dichiarazioni e gli atteggiamenti e i comportamenti che era solito tenere al tempo in cui la finanza era a fuoco.
All’epoca tanti studiosi avanzavano idee sulla natura della crisi, ma Greenspan si accontentava di fare il banchiere centrale e, colpevolmente - visto che sapeva di non sapere (o fingeva?) - faceva anche orecchio da mercante su quanto ascoltava. C’era, per esempio Nouriel Roubini, docente della New York University che, ancora prima del sua manifestazione, andava ripetendo in tutte le lingue che di lì a qualche mese sarebbe scoppiata la bolla delle cartolarizzazioni ad oltranza. Rubini non era certo l’ultimo arrivato, ma Greenspan non ascoltava. C’era anche il meno noto John B. Taylor, professore alla Stanford University, che non solo denunciava in tempo reale il maturare della crisi, quanto, addirittura, costruendo una regola, che poi ha preso il suo nome, dimostrava che la crisi non cadeva dal cielo, ma era causata dalla politica sbagliata della Federal Reserve, che con ostinazione teneva i tassi d’interesse molto prossimi allo zero. Ma Greenspan decideva in solitaria. Ma, poi, ce n’erano davvero tanti altri a denunciare una crisi imminente, di particolare gravità.  E non erano i ‘soliti’ economisti di sinistra (P. Krugman, J. Steaglitz), ma personaggi del calibro M. Feldstein, professore di Harward, Edward Grammilich, membro della Federal Reserve fino al 2005, o esperti meno blasonati, come il nostro M. De Cecco, che avevano facile gioco ad affermare che tutta la situazione economica-mondiale annunciava tempesta; ebbene, nessuno di loro ha trovato mai ascolto.
“Tutto bene, dunque?”, si domandava De Cecco, in un articolo su La Repubblica di marzo 2008, dopo aver elencato le virtù del mago della turbo -finanza, così come erano decantate in ambiente domestico. “Non proprio”, si rispondeva  “L’andamento vertiginoso dei prezzi dice che nella mela c’è un verme che presto la farà marcire; e i prezzi aumentano non solo per il gioco della domanda e dell’offerta, ma per l’enorme massa di liquidità immessa nei mercati, che è usata per fini speculativi ”. Ma Greenspan non lo leggeva. Continuava ad aver fiducia nei mercati efficienti, mentre si gloriava d’essere considerato il creatore più immaginifico della finanza di… carta.
Dal canto suo, Fedstein, senza mezzi termini, sosteneva che la Federal Reserve di Greenspan “ha commesso errori madornali” nella sua attività di sorveglianza del credito (Corriere della sera, 8 marzo 2008). E  Greenspan  non si curava neanche di lui: rispondeva che i mercati avrebbero saputo trovare da soli il giusto equilibrio.
E Grammilich, che era stato della partita fino al 2005? Ha speso un saggio per raccontare che nonostante i prodromi della crisi fossero già evidenti nel 2002, Greenspan imperterrito continuava a ripetere che prima o poi i mercati avrebbero aggiustato tutto.

3. Le cose, purtroppo, non sono andate come le pensava Greenspan. La crisi cominciata nell’estate del 2007 ha prodotto disastri i cui effetti dureranno ancora per molti anni, se è vero che milioni di persone nel mondo hanno perso lavoro, casa, famiglia e speranza nel futuro. Né ci si può accontentare della spiegazione che oggi ne da Greenspan, secondo il quale essa è causata dall’irrazionalità umana. Secondo alcuni studiosi  - per tutti si veda L.Gallino in ‘Il Colpo di Stato di Banche e Governi’ - le banche, comprese quelle centrali, sono state la vera causa della crisi. Taluni si chiedono se veramente responsabili come Grenspan hanno agito in buona fede e, quindi, da incapaci, oppure erano al servizio – diciamo così - della ‘finanza’ e, perciò, hanno agito in frode alla legge. Ma rispondere a simili domande non è semplice. Se qualcuno ci prova, cozza contro il feticcio dei ‘mercati’, che pochi sono disposti a identificare – diciamo così -  con le ‘banche’.
La recensione di Paolo Savona, asettica com’è, non aiuta alcuna risposta.

 
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E' scienza l'economia?

Post n°112 pubblicato il 20 Agosto 2013 da smittino

1. Raghuram Rajan, già capo economista del Fondo Monetario Internazionale, professore, governatore della Banca Centrale Indiana, il 9 agosto 2013 ha scritto un articolo molto accorato sul Sole 24 Ore, denunciando che tanti colleghi confutano con violenza idee che non condividono. A parer suo sarebbe più proficuo un dibattito pacato, che partendo da un reciproco riconoscimento, si svolgesse nelle sedi competenti. Inoltre ha espresso l’idea che tutto succede perché si trascura, o non si sa, che l’economia non è una scienza naturale che può contare su dati stabili, ma una scienza sociale costretta a lavorare su dati mutevoli, a causa di eventi inattesi e spesso imprevedibili. Infine, ha scritto che risultati di ricerca economica diversi non necessariamente denunciano errori.

2. Per la prima questione il professore esemplifica sul premio nobel P. Krugman, che oltre ad aver molto criticato l’errore commesso da Reinarth e Rogoff nella dimostrazione del rapporto causa effetto fra livello del debito pubblico e PIL, ha addirittura malignato sulla onestà professionale dei due economisti. La seconda questione è presa a motivo per suggerire che il dibattito delle idee – che è cosa nobile – sia svolto a livello della sua dignità, piuttosto che sui giornali. La terza non è stata oggetto di particolari argomentazioni. Ma non ce n’era neanche bisogno, atteso che è noto che i risultati della ricerca scientifica in generale sono strettamente dipendenti dalle ipotesi di lavoro.
Così riassunto in estrema sintesi, il ragionamento del professore Raghuram si presta a osservazioni. Fra le quali scelgo le seguenti. 
La vis polemica è stata caratteristica di tanti grandi del pensiero - la storia ce lo insegna - e nella tradizione orale e scritta non abbondano prese di posizioni desolate come quella proposta dal professore Raghuram. Le passioni sono state e sono il sale del meglio. Né deve impressionare la pubblicità dei dibattiti: il pensiero è endemico, e gli scienziati spesso si rivelano tali dopo le scoperte e le invenzioni.

3. Che quella economica non sia paragonabile a una scienza naturale è scritto in tutti i manuali introduttivi allo studio dell’economia. Come accennato, nel lavoro di ricerca scientifica si fanno ipotesi, e su di esse di costruiscono modelli. Il valore esplicativo dei modelli dura finché le ipotesi sono valide. Nulla di più. La differenza fra scienze naturali e scienza economica la fanno gli eventi, i ‘cigni neri’ che sopraggiungono a mutare i dati: nelle prime sono eventi naturali imprevedibili; nelle seconde sono umani e prevedibilissimi, al punto che potrebbero essere neutralizzati sul nascere.

4. Il professore lamenta che si esagera nel pensare, talvolta, che errori commessi nella ricerca scientifica (economica) possono non essere tali, ma semplicemente risultati di ipotesi basate su interessi extrascientifici. E qui sbaglia lui. Il monetarismo della triste Scuola di Chicago, che tanta miseria e lutti ha causato nel mondo, è stato solo un approdo scientifico, o è stata una strategia al servizio di ‘chi’ vi ha costruito le proprie fortune? Ma fuori di polemica: Krugman sostanzialmente sostiene che se c’è stata una via d’uscita per tante crisi economiche recenti, essa è stata sempre frutto di politiche Keynesiane; perché per la crisi presente (dove ancora persiste) si insiste ancora con misure monetariste che continuano a non dare effetti? Fa male Krugman se si appassiona a sostenere che Rainarth e Rogoff hanno prodotto un risultato scientifico erroneo, e forse non solo per l’errore materiale, che nel loro lavoro pure c’è, ma perché...  e, poi, sconfessato dalla storia, come America docet?

 
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E se bastasse un veicolo (speciale)?

Post n°111 pubblicato il 12 Giugno 2013 da smittino

1. Giorni fa il direttore del Sole 24 Ore, con un articolo di fondo pari al famoso ‘Fate presto’, ha sollecitato i responsabili ad agire per contrastare la disoccupazione. Esattamente ha detto: visto che le disponibilità finanziarie che arrivano alla banche non si traducono in credito, si crei un veicolo, qualcosa
Non ha detto altro il direttore del giornale degli industriali, né poteva, visto che le banche appartengono al settore per il quale lavora. Ma il messaggio non si prestava ad equivoci: se si vuole aggredire la disoccupazione, bisogna far rifluire il credito; per farlo, bisogna in qualche modo baipassare le banche.
Qualche giorno dopo, bocconiani del rango di Tabellini e Guiso hanno fatto proposte concrete di forme di veicoli. 
In pillole, queste figure sono filiazioni bancarie che si occupano della cartolarizzazione di asset delle banche madri, per generare liquidità. Ma li abbiamo visti all'opera fino alla crisi questi veicoli, e non sembra che abbiano dato buoni risultati. Forse per questo il direttore del giornale ha pensato anche a qualcosa altra.
Non avendo specificato, immaginiamo di completare il suo pensiero.

2. Il credit-crunch ha cause diverse.
La prima è che la crisi in corso, compresa quella del credito, non è di illiquidità, ma di controparte; in parole più accessibili: i soldi non mancano, è che nessuno li mette in circolazione, perché i prestatori non si fidano dei prenditori.
Una seconda causa è il timore che le banche possano avere la parte sinistra del bilancio (capitale lordo) non adeguata, o poco adeguata a fronteggiare prevedibili, prossimi temporali finanziari, sia per la presenza di titoli più o meno tossici, sia per crediti di dubbia esigibilità. Di qui l’attenzione per i core tier (livelli di patrimonio) e per gli impieghi; in ossequio agli obblighi europei. In termini più semplici, 
le banche da un lato devono badare a tenere in salute il patrimonio, da un altro devono limitare il credito.
Un’altra causa è rappresentata dalla riottosità dei potenziali prenditori a ricorrere al credito, per la paralisi dei consumi nella maggior parte dei settori produttivi e per l’incertezza dell’azione politica e amministrativa del paese: cosa potrebbe mai farne del credito un imprenditore, senza sapere che, producendo, venderebbe e senza sapere quante tasse e quanto salario dovrebbe pagare e in che paese si troverebbe a operare, diciamo fra cinque anni!
Se queste sono le cause dell’infarto del credito, difficile contare sulle banche. Come se ne esce? Valutando la proposta del direttore del giornale confindustriale. Come segue.
La BCE ha inondato di liquidità le banche europee, ed esse non l’hanno trasformata in credito: diamo vita a un veicolo che, libero dai condizionamenti delle banche, riceva direttamente i finanziamenti, di cui diremo tra poco,  magarai a prestito,e conceda credito a quelle imprese che operano in settori ad alto valore aggiunto, e garantiscano i posti di lavoro consentiti dal rapporto credito ricevuto/postidi lavoro statisticamente possibili.
Così operando, si innescherebbe il circolo virtuoso investimenti, produzione, prelievo fiscale, consumo, risparmio, e di nuovo investimento, con risultati molteplici: aumento dell’occupazione, dei consumi, del gettito tributario, e diminuzione del deficit e del debito; ma soprattutto si avrebbe il risultato di un aumento del PIL, che essendo il denominatore della frazione debito/PIL, ne farebbe abbassarne valore.
L’operazione succintamente descritta poggia sulla celebre teoria del moltiplicatore degli investimenti, elaborata da J.M.Keynes all’indomani della grande crisi del ’29, e applicata con tanto successo specialmente dal secondo dopoguerra.

3. Il nostro Debito Pubblico (DP) ammonta a poco meno di 2000 mld, e rappresenta il 125% del Prodotto Interno Lordo (PIL) che è poco meno di 1.600 mld. (dati 2011). Per obblighi europei (Fiscal Compact) l’Italia deve portare questo rapporto al 60% del Pil, (poco meno di 960 mld), tagliando l’eccedente 67%, (poco meno di 940 mld.) con correzioni capestro (45- 47 mld. l’anno, cioè, 20 anni di manovre, a  partire dal prossimo).
Seguendo la ferrea legge del Fiscal Compact fra vent’anni avremmo i conti in ordine, ma, nel frattempo, nulla sapremmo di occupazione, consumi e ripresa.
Se, invece, avessimo la possibilità di seguire la via del moltiplicatore degli investimenti, a parità di tutte le altre variabili in gioco (interessi sul debito nuovo e vecchio, gestione del debito complessivo, dinamica dei tassi d'interesse, tasso di cambio, ecc.), con minori oneri, rispetto a quelli da Fiscal Compact, si potrebbero avere altri risultati e in tempi più brevi (una manovra da Fiscal Compact ammonterebbe a 45 mld e dovremmo sopportarla per 2o anni; con la stessa cifra potremmo pagare il debito di 150 mld necessari per attuare la proposta di questa nata in 3 anni.
 

4. Nella sua forma statica il moltiplicatore degli investimenti è dato dalla formula

                                            1 / 1 – C

in  cui 1 è l’investimento iniziale e 1 - C gli n investimenti successivi, con C che rappresenta la parte di reddito destinato alla spesa (propensione marginale al consumo); la formula dice di quanto si moltiplica un investimento iniziale 1. 
Seguendo il suggerimento  del direttore del giornale, investendo, per esempio, 150 mld (sostanzialmente l’importo di quattro manovre) forniti da un veicolo, con una propensione marginale al consumo 0,90 si avrebbero i seguenti risultati:
 

150 / 150 – 135 = 10
150 x 10 = 1.500

Cioè, investendo 150 mld, si produrrebbe un reddito aggiuntivo di 1.500 mld. A parità delle altre variabili in gioco, (tassi d'interesse, tasso di cambio, produttività, ecc.) con tale reddito aggiuntivo l’attuale rapporto DP/PIL 2000/1600, diventerebbe 2000 + 150/1600 + 1.500 = 2150/3.100 = 0,69 = 69%. Al mitico 60% mancherebbe poco. 

5. Perché non si può fare tutto ciò?
Innanzi tutto, perché non c'è il veicolo. Inoltre, e soprattutto, perché il fiscal compact vieta un aumento del debito.
Ma se, il nostro governo, facesse una proposta negoziata all'Europa, forse... 
In fondo si tratterebbe:
- di derogare un patto, per realizzare un'idea utile per il nostro paese, ma ripetibile da altri
- nel nostro caso, di sostituire un sacrificio molto oneroso (20 anni di manovre) con uno più ragionevole (l'equivalente di tre manovre per il rimborso del nuovo debito).
Non va dimenticato che deroghe di altro tipo, in passato, sono state accordate a Francia e Germania.
Quanto al debito aggiuntivo che si creerebbe, c’è da tener presente che il moltiplicatore postula un risparmio del 10%, che da subito potrebbe essere destinato ad ammortizzarlo; ma come dicono i numeri, un aumento del debito fino a circa 150 mld, come è ipotizzato, non desterebbe preoccupazione, visto che il PIL aumenterebbe molto di più, e il rapporto DP/PIL lambirebbe quota (mitica) 60%.
 

 
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E poi dicono che i professori non sono pe(n)santi

Post n°110 pubblicato il 23 Maggio 2013 da smittino

1. Al tempo del governo Monti il ministro Elsa Fornero ha varato una riforma del lavoro che, oltre a non favorire l’occupazione, ha prodotto un esercito di senza lavoro e senza pensione (esodati), ancora non quantificato.
Nell’euforia del momento, esperti e politici hanno fatto commenti diversi, ma nessuno ha discusso fino in fondo, merito e conseguenze.
Adesso che il governo Monti  non è che uno spiacevole ricordo, in tanti additano la riforma Fornero come causa della mancanza di lavoro. Fra questi Pietro Ichino, giuslavorista e, a tempo perso, eclettico uomo politico.

 2. In una puntata del talk-show del mattino di La 7, qualche giorno fa il professore ha sostenuto, parola più, parola meno, che una riforma del lavoro era necessaria, ma quella pensata e realizzata dalla ministra Elsa Fornero ha “infartuato” il rapporto di lavoro, avendo aggiunto all’incertezza della flessibilità in uscita, quella della flessibilità in entrata; e le due incertezze insieme avrebbero reso più difficile (infartuato) la gestione del rapporto dilavoro. Con la conseguenza che il lavoro continua a latitare. Di qui, l’urgenza di riformare la riforma Fornero.
Come riformarla, il professore un giorno, forse, un giorno ce lo dirà. Noi intanto ci domandiamo:
a. La ministro Elsa Fornero era, ed è professoressa di Economia Politica presso l’Università di Torino, nonché esperta di problemi della previdenza. Verosimilmente, quando ha lavorato alla sua riforma, ha usato conoscenze specifiche esperte. Possibile che non abbia saputo dosare le due flessibilità classiche del rapporto di lavoro?
b. La conta degli esodati era di competenza della ministra, o non piuttosto delle sue strutture e della stessa INPS? E visto che i dati, comunque reperiti, erano risultati manifestamente irreali, non si poteva ricorrere a una specie di avviso pubblico, col quale invitare i diretti interessati ad attivarsi?
c. Il professor Ichino ha soluzioni pronte per un diverso dosaggio delle due flessibilità, o deve ancora studiare? 

3. La ex ministra Fornero, avendo sposato la causa dell’austerità, sui problemi del lavoro ha fatto quello che poteva fare, cioè, teoria. E il fenomeno degli esodati è stato un risultato inintenzionale.
Il professor Ichino, vedendo che per l’austerità nel Partito Democratico tirava brutta aria, si è aggregato a Monti, cioè a colui che ha avallato la riforma Fornero: cosa potrebbe mai pensare,/dire,/fare di diverso dalla ex ministra? A mio giudizio, potrebbe solo proporre un atra teoria, con le medesime conseguenze.
Il ministro del lavoro in carica è scettico sulla reale possibilità di creare nell’immediato posti di lavoro. Come tanti altri ormai, a partire dal premio nobel per l’economia Paul Krugman, ritiene che per nuovi posti di lavoro ci vogliano investimenti. Ritiene, cioè, quello che né la professoressa Fornero, né il professor Ichino hanno pensato: la prima nella stesura della legge; il secondo nel parlare televisivo che s'interessa la riforma. 

4. Professori, il lavoro manca, perché mancano investimenti e gli investimenti mancano perché c’è l’ impegno internazionale dell’austerità.
E voi... non avete usato la brillantina linetti.    

 

 
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