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La crisi infinita


1. Il 12 ottobre del 2008, a crisi economica conclamata, apparve su La Repubblica una vignetta di Altan, nella quale uno dei personaggi soliti diceva all’altro: “questa crisi ci renderà più buoni; e l’altro: “a patto che non passi”. Con lungimiranza Altan ci avvertiva che quanto stava succedendo non era da prendere sottogamba, sarebbe durata a lungo, e avrebbe spazzato via l’illusione che il benessere sarebbe durato per sempre. E così è stato, se è vero che ancora oggi, a distanza di oltre un lustro, siamo qui a chiederci quando, e se, la crisi finirà. Abbiamo speso questo fior di argomenti per spiegare cause, discutere previsioni, spiare luci in fondo al tunnel, puntare indici accusatori,  discutere presunte devianze dei mercati, senza venire a capo di nulla. All’inizio di quest’anno molti hanno dichiarato che si era alla svolta, ma si sbagliavano: la crisi è ancora in corso, e la migliore testimonianza è la flessione degli indicatori più significativi di quasi tutti i paesi, ad eccezione di Stati Uniti e Gran Bretagna, che sarebbero fuori dalla crisi, e Grecia, Spagna e Irlanda in ripresa, grazie ad una corretta esecuzione delle ‘raccomandazioni’ del Fondo Monetario Internazionale, della BCE  e della Commissione Economica Europea. Ma a che punto siamo davvero, visto il terremoto delle borse mondiali del 15 settembre e del 27 ottobre? Per rispondere, dovremmo sapere con più certezza cos’è una crisi economica, da dove origina, che effetti produce e come se ne esce. Noi non siamo titolati per dare risposte scientifiche. Ma possiamo ugualmente ragionare secondo il senso comune. 2. C’è crisi quando il processo circolare investimenti/produzione/consumo/… investimenti… si blocca. E perché può bloccarsi? Perché una o più fasi di quelle descritte si fermano. La produzione, intesa come trasformazione del capitale investito, può fermarsi o per mancanza di investimenti, o per mancanza di consumi. Il consumo si ferma quando non c’è produzione, o quando i consumatori non hanno reddito sufficiente da spendere. Il risparmio non si realizza, quando i redditi sono spesi interamente in consumi. Queste ovvietà ci dicono che produzione, consumi e risparmi sono determinati all’interno del processo. L’investimento, invece, ha determinanti diversi. Secondo l’economia classica l’investimento è determinato dal risparmio che si consegue alla fine del processo. Dunque, anche l’investimento ha determinanti interni del processo. Con l’avvento delle teorie keynesiane cambia tutto. Secondo Keynes l’investimento è determinato sostanzialmente da due fattori esterni al processo, che sono: il tasso d’interesse praticato dai possessori del capitale (sostanzialmente, le banche) e le aspettative attese dall’investitore. Le aspettative sono di fondamentale importanza per la continuità del processo, e se sono davvero fondate, sono i determinanti ultimi dell’investimento, a prescindere dal livello del tasso d’interesse. La differenza fra le due teorie non è neutra rispetto ad una crisi.3. Le fasi interne di un processo intuitivamente sono meglio governabili di quelle esterne. Se si blocca una fase interna, chi gestisce ha tutte le conoscenze e gli strumenti per intervenire; se invece si blocca una fase esterna, si devono azionare fattori all’infuori del processo, con rischio d’insuccesso, per la non sicura conoscenza di uno o più fattori. Questa considerazione autorizza a ritenere che la vera causa delle crisi economiche è da rinvenire nel blocco dell’investimento. E autorizza, altresì, a ritenere che dall’investimento bisogna partire per vincere una crisi.Chiediamoci ora perché non si investe. Anche qui dobbiamo interpellare le due teorie menzionate. Secondo la teoria classica, oggi neoliberista, tutti gli fenomeni economici sono determinati dal gioco della domanda dell’offerta sui mercati. Quindi, anche il fenomeno investimento ha questo determinante: si investe, se c’è incontro fra domanda (d’investimento) e offerta (d’investimento). La prima è naturale conseguenza del buon funzionamento (efficienza) del processo; l’offerta è rappresentata dal risparmio conseguito alla fine del processo. Secondo i neoliberisti, insomma, se il mercato è efficiente, domanda e offerta s’incontrano sempre, e l’investimento si realizza; se non succede è perché il mercato è inefficiente. Ma l’inefficienza è temporanea, perché il mercato ha strumenti di autoregolazione, idonee a far vincere su una crisi. Secondo la scuola Keynesiana le cose stanno diversamente. E stanno come le riassumiamo in pillole. Per Keynes, essendo le decisioni d’investimento esterne al processo, a prescindere dall’efficienza del mercato, domanda e offerta possono non incontrarsi, o almeno essere sfasate, per condizioni non favorevoli: può non esserci domanda, può mancare il credito o, infine, possono esserci aspettative negative. Per i Keynesiani, in altri termini, il processo può andare comunque in crisi, perché il mercato non ha meccanismi automatici di aggiustamento.4. La crisi in corso, ormai solo europea, non si sblocca perché le misure anticrisi, ormai solo austerità, non contemplano gli investimenti come intervento prioritario e, comunque non stanno dando frutti. Quanto al ricorso a misure di tipo Keynesiano, cioè investimenti massicci e mirati, ancorché temporanei, manco a parlarne; quelli pubblici, farebbero crescere il debito, e violrerebbero i trattati europei, quelli privati non sarebbero remunerativi. Eppure, basterebbe un semplice ragionamento per decidere interventi keynesiani. L'austerità forse a lungo termine potrebbe dare risultati; diciamo che continuando a fare austerità, a lungo termine forse dalla crisi si uscirebbe; a lungo termine, però, potrebbero intervenire aventi capaci di rendere nulli i sacrifici, e saremmo punto e da capo. E non è escluso che, come diceva Keynes, a lungo termine, potremmo essere tutti morti. Misure  keynesiane, al contrario, avrebbero effetti più ravvicinati. E il debito conseguente potrebbe essere ripagato, insieme a quello esistente, con  parte dell’incremento del PIL portato da queste misure. Perché non ci si pensa? Perché oggigiorno le risorse sono fatte quasi interamente di ‘finanza’ e la finanza non ama guadagnare a lungo o medio termine con il credito commerciale. Si faccia pure austerità, ma noi finanza, abituati a lauti guadagni sulle piattaforme delle borse, non abbiamo tempo e risorse da destinare agli investimenti. Quando tutti avranno fatto i compiti a casa (liberalizzazione del lavoro, giustizia cooperante, pochissime tasse ecc. ecc.) allora, magari…  E perché forse ancora la crisi non ci ha fatto più buoni, come pronosticava Altan nella vignetta, cioè, abbastanza ‘con le pezze al sedere’, da avere voglia di imbracciare un forcone.