Creato da smittino il 22/10/2006
Il lato oscuro dell'economia

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il fatto del giorno 2

17/10/2011
Contnua l'altalena delle borse.

11/10/2011
Strano: le agenzie di rating declassano i debiti, sovrani e non, e le borse salgono. Non dovrebbe essere il contrario?
Macché: si tratta dei giochini della speculazione. Tutto quello che si scrive sulla correlazione negativa o positiva fra valutazioni dei rating e andamento delle borse è acqua fresca.

10/10/2011
Ieri Kenneth Rogof (Harward) ha scritto che la c.d. tobin tax sulle transazioni finanziarie è deletaria perché oltre a a produrre un calo del gettito, cioè un calo delle transzioni di borsa, eroderebbbe il volume dei capitali, e gli stessi lavoratori finirebbero per patirne le conseuenze. Io ne dubito. Sulla prima tesi mi chiedo cosa dovrebbero farci gli investitori con i fondi che continuano a detenere dopo la tassa? Circa la seconda, dieci parole: il capitale non è determinato dalle tasse sul suo impego.

22/5/2011
Anche l'Italia è sotto osservazione delle agenzie di rating. Temo che sia il preludio di un prossimo attacco speculativo.

2/5/2011
Ieri primo maggio di negozi aperti e di santi, mentre la disoccipazione giovanile è al 29%. 

11/4/2011
Le Banche troppo grandi non possono fallire, perché il loro fallimento sarebbe di sistema. Se hanno problmi sono soccorse dagli Stati. Ma è proprio questa certezza la causa che spinge queste banche ad assumere rischi altissimi. Per cui il loro possibile fallimento è sempre in agguato.

21/3/2011
Comunque finisca, la guerra libica avrà conseguenze negative per l'Italia: se Gheddafi resterà in sella, si farà baciare anche i piedi; se cadrà dovremo vedercela con gli immigrati e, probabilmente, con il terrorismo.

16/3/2011
I giapponesi hanno i mezzi e forse ce la faranno a ricostruire. Ma in occidente non si pagherà nessun prezzo? Ne dubito.

3/3/2011
Ho l'impresione che il mondo occidentale, in nome della rel-politic, (leggi petrolio), stia abbandonando gli insorti libici al proprio destino di oppressi. Se sarà verificato, sarà un massacro.

 

 

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Il fatto del giorno 1

24/2/2011
Il giornale tedesco BILD ha scritto qualche giorno fa: Mario Draghi non deve essere il nuovo governatore della Banca Centrale Europea; quando lui era il vice presidente, della banca Goldman Sachs, questa ha coadiuvato la Grecia a costruire il pateracchio del suo debito pubblico che tutta l'Europa sta ora pagando.

15/2/2011
Un signore, che è Presidente del Consiglio dei Ministri, è stato rinviato a giudizio per gravi reati. Mi sarebbe piaciuto che le due circostanze non fossero state contemporanee.

13/2/2010
Il popolo egiziano s'è svegliato ed ha conquistato la libertà. Mi ha ricordato l'Ode a Walt Whitman di F.G.Lorca che si conclude con questi due versi: "...si sveglia ogni cen'anni/quando il popolo si sveglia".

3/2/2010
Stamattina il TG1 ha fatto dire al presidente del Consiglio: presenteremo un piano per far crescere il paese del 3% e forse anche del 4%, in 5/a. Tralasciando il futuro del verbo 'presentare', c'è qualche economista che ritiene che il piano sia credibile?

27/1/201
L'EFSF ha lanciato con successo la prima emissione di titoli propri, per reperire i fondi di soccorso all'Irlanda: per 5 mln richiesti c'è stata una domanda maggiore di circa quattro volte. Speriamo che sia così anche nel caso di prossime, probabili emissioni.

4/1/2001
Il sole 24 Ore oggi titola: "Dalle PMI (Piccole e Medie Imprese) una spinta al PIL".
Meno male, visto che quello legato alla finanza è come 'il raggio verde': quando si vede è un'illusione.

1/1/2011 
Gli interessi sui titoli italiani aumentano. Sembra una buona notizia, ma non lo è. Quando gli interessi salgono, significa che i compratori, temendo un default, pretendono di più.

20/1/2011 
Pagano le proprietà o le utilità, i risparmi o le spese?

7/1/2011 
Il banchiere è uno che vi presta l'omrello quando c'é il sole e lo rivuole indietro appena incomincia a piovere (Mark Twain).

 

 

 

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Il credito che manca.

Post n°109 pubblicato il 08 Aprile 2013 da smittino

1. In un articolo apparso su Il Sole 24 Ore del 7 aprile Luigi Guiso e Guido Tabellini hanno volto il seguente ragionamento.
La contrazione del credito non è transitoria, e durerà per anni, perché le banche devono:
- ricostruire il capitale;
- ridurre la leva finanziaria;
- ristrutturare, per far salire la produttività.
Ma la crisi è anche un’opportunità. Se le imprese, invece di finanziarsi presso le banche, ricorressero al mercato dei capitali, si otterrebbero i seguenti vantaggi:
- imprese  più capitalizzate e meno rischiose;
- aumenterebbero le ‘obbligazioni corporate’;
- aumenterebbe il business bancario legato al collocamento delle stesse;
- si liberebbero risorse (bancarie) con le quali finanziare le imprese piccole.
Ma perché tutto ciò non si verifica?
Perché non ci sono grandi investitori istituzionali disposti a sottoscrivere “strumenti di credito in grosse quantità”.
Eppure in Italia vi è un notevole spazio per grandi investitori istituzionali. Basta agire su “due linee”:
- l’incremento dei fondi pensione;
- la promozione dei fondi comuni.
L’incremento dei fondi pensione passa per:
- l’incoraggiamento all’aggregazione di quelli esistenti, troppo piccoli per essere capaci di ‘giocare ‘ sulla diversificazione del rischio’ e per fare fruttuose analisi di mercato;
- la promozione delle adesione dei lavoratori, oggi ferme al 25% dei lavoratori attivi per mancanza d’informazione.

2. Luigi Guiso e Guido Tabellini non hanno bisogno di presentazione. Il primo è Axa professor of Husehold and Finance presso l’Einaudi Institute of Economics and Finance e il secondo un bocconiano doc. Ma, come tanti ‘tecnici’ bravi in teoria:
- non si occupano di discutere le cause della contrazione del credito che loro stessi elencano, e le attuali esigenze delle banche sono assunte come dato intangibile, o meglio, variabile indipendente;
- non considerano le questioni implicate  dalle delle loro proposte; o le sottovalutano.
Ma, poi, c’è che da chiedersi: è davvero pensabile per l'Italia una proposta come quella formulata?
Vediamo.
Le attuali esigenze delle banche (ricostruzione del capitale, riduzione dei debiti, e ristrutturazione per aumentare la produttività), lo sappiamo, sono state causate da politiche del credito del tutto subordinate a gestioni finanziarie forsennate. Per rispondere a queste esigenze non ci sono mezzi diversi da quelli che - come vedremo - potrebbero/dovrebbero fornire i lavoratori e piccoli risparmiatori?
Io penso che ci sarebbero. Basterebbe definire regole per:
- scoraggiare l’attività speculativa delle banche;
- indirizzare il credito bancario verso attività di economia reale, individuate con appositi studi previsivi di settore;
- definire il concetto di ‘giusto profitto bancario’.

3. E veniamo ad alcune considerazion sulla proposta complessiva.
I fondi pensione sono alimentati da risparmi dei lavoratori in quanto tali che, anziché essere destinati ai bisogni della vita, sono impegnati per costruire una pensione, primaria o aggiuntiva. Per raggiungere lo scopo per il quale sono, le disponibilità di questi fondi devono essere investiti. Guiso e Tabellini dicono che dovrebbero essere investiti in obbligazioni corporate, così succederebbe quanto da loro previsto. E aggiungono: i due tipi di fondi dovrebbero crescere, perché quelli esistenti sono poca cosa.
Domande.
- Ma perché i fondi pensione dovrebbero investire nelle imprese che da tempo non producono reddito, e non invece nella finanza per un lucro sicuro?
- E ammesso che decidessero di investire nelle imprese, che fine farebbero i soldi nel caso in cui le imprese andassero a quotarsi in borsa, e essere in balia della cosiddetta ‘volatilità’?
- Ma poi: è un caso che in Italia i fondi pensione scarseggiano, o non è, piuttosto, la conseguenza un po’ di quest’ultimo timore, e un po’ del fatto che a una pensione tramite un fondo dovrebbero ricorrere lavoratori con redditi inferiori a mille euro mensili?
I Fondi comuni sono la somma di quote raccolte per lo più fra piccoli risparmiatori e gestiti/investiti da apposite società di gestione. Una vera e propria industria che, in maggior parte, è appannaggio di banche. Se non che l’industria dei fondi Comuni è anch’essa piccola come i Fondi Pensione, e dovrebbe svilupparsi. Ne deriva che le banche per poter giovarsi del benefico effetto dell’industria dei Fondi Comuni, dovrebbero svilupparli. Maqui incontrerebbero l’ostacolo del conflitto d’interesse: da un lato la banca deve reperire denaro come banca, da un altro lato dovrebbe incentivare il proprio Fondo Comune.
Secondo Guiso e Tabellini il conflitto si risolverebbe se le banche si separassero dai loro Fondi Comuni.
Qui non c’è da domandarsi nulla, perché si sa, di fronte ai ‘se’, le domande sono oziose.

4. Ricapitolando.
Secondo i due illustri economisti il credito manca, e mancherà per lungo tempo, perché le banche non possono erogarlo. Le imprese, per finanziarsi, dovrebbero ricorrere a finanziamenti alternativi. I finanziamenti alternativi principali sarebbero quelli dei Fondi Pensioni e dei Fondi Comuni, che, però sono asfittici, per le ragione che lo stessi spiegano. Bisognerebbe promuoverli.
Dove questi fondi dovrebbero trovare le risorse per ingrandirsi i due non dicono.
Noi pensiamo ancora che per questo problema, e per tutti gli altri implicati, occorrono nuove regole, non solo per il ccredito, ma anche per la finanza e per l’economia nel suo insieme.  

 

 

 
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Maledette tasse.

Post n°108 pubblicato il 20 Febbraio 2013 da smittino

1. La teoria, dalla cultura classica alla cultura dei lumi, ha spiegato lo Stato in vari modi, sicché nel tempo esso ha assunto connotazioni diverse.
Come categoria storico-scientifica, è stato - ed è -  oggetto di studio di molte discipline (filosofia, politica, diritto), e via via che ciascuna di esse ha aggiunto/aggiunge conoscenze marginali, altre sono nate, e nascono, per essere complementari e/o sostitutive delle prime (sociologia, organizzazione, economia). Si deduce che lo Stato è una realtà consolidata, è vivente ed è duratura.
Per il diritto lo Stato è l’organizzazione di un popolo, sopra un territorio, sul quale esercita una potestà d’imperio originaria. Ove risulti verificata l’esistenza di questi tre elementi - popolo, organizzazione e territorio - c’è Stato.
Allo Stato il diritto riconosce personalità giuridica, cioè, capacità di gestione delle attività necessarie per il raggiungimento dei fini che persegue.
Essendo lo Stato un organizzazione pubblica, pubblica è la personalità, e pubblici sono i fini.
Le attività dello Stato consistono in una serie di atti che, insieme, ne rappresentano la gestione. 
Nell’aspetto formale, la gestione dello Stato è nota come amministrazione (pubblica); materialmente è attività economica (pubblica), dal e si risolve in due distinte tipologie di atti: reperimento di mezzi economicamente apprezzabili e impiego di tali mezzi per il raggiungimento dei fini.
Queste assunzioni lasciano comprendere, ed è ‘senso comune’, che:
- lo Stato è persona giuridica che vive in una comunità, e interagisce con essa;
- fra le altre, in forza della sua potestà d’imperio, è la persona giuridica preinente;
- persegue fini propri, distinti da quelli dei cittadini subordinati;
- è soggetto economico, nel senso che pone in essere di atti mirati al procacciamento di risorse, da impiegare per raggiungere fini legittimi.

2. Nelle scienze sociali si è sempre discusso quali debbano essere i limiti - se limiti ci possono essere - dell’attività economica dallo Stato. Nella scienza economica, in particolare, si parla di limiti all’intervento dello Stato in economia.
La discussione ha dato luogo alle due note visioni dello ‘stato agnostico’ e dello ‘stato interventista’.
Lo Stato agnostico (a-gnostico, cioè, che non sa)è quasi estraneo all’economia. Al massimo si interessa della difesa esterna, della sicurezza interna e, magari, di pochi servizi di prima necessità, nel campo dell’educazione, della sanità, della mobilità, e in ogni caso non in forma imprenditoriale. Lo Stato agnostico è meglio noto come ‘Stato liberista’.
Lo Stato interventista è soggetto economico, al pari degli altri, e contempla due forme d’intervento: quello più soft, di tipo socialdemocratico, e quello hard di tipo socialista.
Le rapide considerazioni accennate, implicano il dilemma: stato agnostico, o stato interventista?
La scelta spetta al popolo.

3. Un popolo che pensa di far meglio da sé, piuttosto che con l’ausilio dello Stato, è per lo Stato agnostico. L’esempio storico più significativo di questa tipologia è il popolo americano, che ha sempre ritenuto, e tutt’oggi sostiene, che l’intrusione dello Stato nell’economia non solo non favorisce lo sviluppo, ma rappresenta, e sopra tutto, uno strumento di distruzione della loro personalità umana. Persino presidenti  con idee progressiste,  non hanno esitato ad invitare gli americani a chiedersi quanto erano disposti a fare per l’America, piuttosto che chiedere quanto l’America avrebbe fatto per loro.
Al contrario, un popolo che ritiene che solo con lo Stato si può avere sviluppo, individuale e della società, propende per lo Stato interventista. E qui gli esempi da fare sarebbero tanti, secondo che l’intervento statale sia prevalente (socialismo), o dirigista (come  nei paesi scandinavi).
In concreto, la differenza fra Stato agnostico e Stato interventista è notevole. Ridotta in pillole, può essere riassunta come segue.
Ponendosi pochi fini, lo Stato agnostico svolge poche funzioni, e necessità di risorse ridotte. Al contrario del secondo che, ponendosi fini, praticamente illimitati, tutti quelli che ritiene debbano e/o possano essere d’interesse comune, ha bisogno di risorse più consistenti, e crescenti a misura del progresso civile e sociale.
In entrambi i casi, sono in evidenza le risorse, che sono reperite presso i cittadini, sotto forma di tributi (imposte, tasse e contributi),  e che, nel loro insieme, costituiscono il c.d. prelievo fiscale, o, volgarmente detto, le  ‘tasse’.

4. Poiché sono connaturate a qualunque Stato, (agnostico e interventista che sia), perché sono tanto avversate dai contribuenti italiani?
La domanda è volutamente ingenua, e la risposta più ovvia dovrebbe essere: le tasse sono troppe o, come si dice, la ‘pressione fiscale' è troppo alta.
Ma perché diamo una risposta al condizionale? Semplice: perché si tratterebbe di una risposta non corretta.
Vediamo perché.
Intanto, da quanto fin qui è stato considerato, dovrebbe essere evidente che l’entità del prelievo fiscale è strettamente correlata alla posizione assunta dallo Stato nel continuum che va dallo Stato agnostico allo stato interventista: maggiori sono i fini e le funzioni dello Stato, e maggiori saranno le risorse occorrenti. Detto in altri termini, lo Stato agnostico ha bisogno di minori risorse rispetto allo  Stato interventista, ma svolge meno funzioni, cioè, eroga meno servizi; il contrario per lo Stato interventista.  La conclusione è che le tasse non si possono giudicare dalla loro entità assoluta, ma da questa, in relazione ai servizi che lo Stato eroga. Al più si può discutere della legittimazione di uno Stato a essere interventista, piuttosto che agnostico. Ma questo è tema altro, è va risolto in altra sede (quella politica), prima del giudizio sulla tassazione.
Ma c’è di più.
Si può anche convenire che privilegiando lo Stato agnostico, i cittadini pagherebbero meno tasse, ma bisognerebbe tenere in conto almeno due conseguenze su cui varrebbe la pena riflettere.
La prima è che in clima di Stato agnostico i cittadini dovrebbero provvedere a proprie spese ad una serie di bisogni diversi dalla difesa esterna e della sicurezza interna e, magari, delle comunicazioni. I cittadini, cioè, dovrebbero pagarsi da soli: salute, istruzione, viabilità, trasporti, nel senso che dovrebbero costruirsi ospedali, scuole, strade, treni ,ecc.
L’altra conseguenza, probabilmente di maggiore interesse, è di stretto calcolo economico. E qui, per essere comprensibili, affidiamoci ad un esempio.  Tizio deve operarsi d’appendicite. Le spese mediche ammontano a 20.000 €, e deve provvedere da sé. Durante un anno 10.000 persone devono operarsi d’appendicite e, insieme, spenderanno 200.000.000 di €. Siamo sicuri che, concentrando tutte le operazioni di appendicite in un’unica struttura si spenderebbe una cifra uguale, o addirittura superiore, a 200.000.000? Io penso proprio di no. Con ciò sostenendo che la spesa per servizi, in forma pubblica consente ‘economie di scala’, cioè risparmi, che la forma privata non consente.

5. Conclusione.
Prima di dare addosso alle tasse, cerchiamo di stabilire:
- se possono considerarsi legittime,
- in base  quali parametri se ne può decidere la misura,
- quanto spenderemmo noi, per servizi essenziali, in assenza del pubblico,
- che livello di civiltà sarebbe quello in cui le persone dovessero vivere non sapendo come curarsi, o come migliorarsi culturalmente.
Le questioni elencate necessitano di analisi approfondite, e scelte circostanziate.
In un prossimo intervento ritorneremo sulle analisi. Quanto alle scelte da fare successivamente, cerdiamo la mano alla politica.

 
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Quando si dice austerità.

Post n°107 pubblicato il 02 Febbraio 2013 da smittino

1. Al festival della Scienza di Roma (17 - 20 gennaio 2012) Amartya Sen ha tenuto una conferenza sul tema: ‘Infelicità ed Istituzioni Europee’, cominciando con una domanda: “Perché questo contrasto tra la vita limitata delle maggior parte delle donne e degli uomini e le grandi imprese che riescono a compiere?” Perché, insomma”le nostre potenzialità di vere una vita buona di essere appagati, felici, liberi di scegliere il tipo di vita che vogliamo eccedono di lunga quelle che riusciamo a realizzare”?
La vulnerabilità umana ha diverse cause - egli ha sostenuto - “ma sarebbe difficile capire la condizione degli esseri umani coinvolti in questa tragedia - la chiama così - senza studiare come vi abbia contribuito, in modi diversi, il malfunzionamento delle istituzioni che ne governano la vita, il ruolo dei mercati e delle istituzioni a essi collegati, ma anche le istituzioni statali e delle autorità regionali. Nella brutale recessione che il mondo, e l’Europa in particolare, sta attraversando c’è un numero enorme di persone disoccupate, dai redditi drasticamente ridotti che non possono permettersi beni e servizi essenziali e hanno poca libertà di gestire la propria vita, mentre altre prosperano” .
Di quì un’altra domanda, strettamente legata alla prima: perché l’Europa si trova in queste condizioni?

2. Amartya Sen ha risposto e non ha fatto sconti.
Per due problemi - ha  detto - : “l’inflessibilità della moneta unica nella zona euro e la gestione della recessione attraverso le politiche di austerità, scelte da potenti leader politici e finanziari europei”.
Poi, entrando nel merito, ha continuato. La crisi iniziata nel 2008 è cominciata in America e si è trasferita in Europa. L’America quasi da subito ha pensato di affrontarla in termini di aiuto ai mercati, in primis quelli finanziari. L’Europa, al contrario ha adottato “una filosofia immensamente contro-produttiva”: l’austerità. E’ difficile vedere nell’austerità la via d’uscita.  Non è neanche utile per ridurre il debito pubblico. E’ una politica fallimentare oggi in Europa, come lo è stata in America negli anni trenta. Molto meglio sarebbe stata, e sarebbe ancora, una politica di rapida crescita, di tipo Keynesiano, che non lo scempio attuale. E dire che nella storia del mondo abbondano… le prove che l’austerità non è stata mai risolutiva, mentre politiche di investimenti intensivi, specialmente in presenza di risorse inutilizzate ha dato buoni frutti.

3. Poi Sen ha voluto volare alto, e senza mezzi termini ha affermato che con le responsabilità civili di oggi, non ci possiamo accontentare solo di venire a capo della violenta crisi che ci opprime, rimettendo in piedi il sistema così com'era allo stato pre-crisi. “Sarebbe sensato - ha argomentato - avvalerci delle buone ragioni di Keynes, ormai fanno parte del pensiero economico comune (anche se sono ignote ai leader europei), ma per quanto riguarda la totale inadeguatezza dell’austerità ce ne sono altre.  Dobbiamo andare oltre Keynes e chiederci a che cosa serve la spesa pubblica. E qui è il filosofo che parla.
In un mondo civile la spesa pubblica non può essere soltanto uno strumento sofferto di stabilizzazione o ristabilizzazione del ciclo economico, piuttosto, ma diciamo pure anche, essa deve contribuire a salvaguardare e soddisfare i bisogni delle persone. L’economia del benessere può - come insegnava A.C. Pigou - e, in ogni caso, deve essere considerata compatibile con il libero mercato.

4. Che dire: i liberisti di ogni colore sono pagati.  

 
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Il senno di poi.

Post n°106 pubblicato il 15 Gennaio 2013 da smittino

1. Tassi d’interesse prossimi allo zero e conseguente impossibilità di fare politica monetaria a compensazione della politica fiscale; un sistema finanziario che ha impedito di fare assegnamento sui redditi futuri; grandi risorse inutilizzate; politiche di aggiustamento sincronizzate a livello continentale: questi i fattori - propri della crisi dell’euro - hanno fatto sottostimare i moltiplicatori delle misure adottate dai governi per contrastarla.
E’ la conclusione di uno studio di Olivier Blanchard, capo economista, e Daniel Leigh, capo del dipartimento ricerca, del Fondo Monetario Internazionale. Il titolo già spiegherebbe  il contenuto  (“Errori Previsionali di crescita e moltiplicatori fiscali”) se non fosse che quel ‘moltiplicatori fiscali’ va reso meno oscuro, almeno per noi poco avvezzi al gergo economicistico.

2. Moltiplicatore fiscale è il rapporto fra una misura antideficit pubblico e il suo effetto sulla crescita. In parole povere: l’effetto, per esempio, di una manovra di bilancio sul PIL.
Le misure suggerite da Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea e Unione Europea (la c.d. Troica) sono state calibrate su un moltiplicatore 0,5, valutando cioè che, tagliando il deficit di un punto, la crescita sarebbe calata di mezzo punto. Lo studio Blanchard-Daniel oggi ha scoperto che la valutazione era errata perché, in effetti, il moltiplicatore è  stato non 0,5 ma 1,5, cioè 1 punto netto in più. Con il risultato che le misure anticrisi adottate, anziché migliorare l’economia dell’eurozona, l’hanno spinta nella depressione che viviamo.

3. Dunque, è chiaro: le tristi conseguenze della crisi che viviamo è frutto di un errore di valutazione della Troica, e però l’errore era inevitabile, dal momento che troppi fattori hanno offuscato le capacità valutative dei preposti.
Ma consideriamoli un po’ questi fattori.
Il primo: impossibilità di fare una politica monetaria in grado di contrastare i tagli, a causa dei bassi tassi d’interesse.
Ma chi aveva portato i tassi d’interesse prossimi allo zero? Belzebù? O il Governatore della Banca Centrale, cioè un pezzo della Troica e non proprio il meno importante? E allora, la politica complessivamente adottata era quella giusta? O, semplicemente, la stessa politica non si sarebbe‘trasmessa’, come più volte ha ripetuto Draghi, per il differente livello dei tassi interesse fra paesi virtuosi (Germania) e paesi spendaccioni (Grecia, Portogallo ecc.)?
Il secondo: non poter fare assegnamento sui redditi futuri, vale a dire non poter contare su un risparmio sicuro, al fine di modulare i consumi nel tempo.
Ma non è stata forse ala speculazione a distruggere il risparmio? E nulla si poteva fare per frenare la sua cieca attività.
Il terzo: esistenza di risorse inutilizzate,  cioè, disponibilità di impianti e forza lavoro inoccupate.
E che cosa ha impedito il loro utilizzo, se non una preconcetta avversione ad una politica economica di tipo Keynesiano, la sola, per dirla con Krugman , che per esperienza storica ci ha fatto uscire dalle crisi?
Infine il quarto: politiche di aggiustamento sincronizzate a livello continentale; che più o meno significa: compiti a casa, cioè, austerità per tutti. Dando per scontato che, a dispetto delle diverse strutture economiche, tutti i paesi avevano bisogno delle stesse misure anticrisi.

4. Se queste brevi considerazioni sono pertinenti, c’è da chiedersi quale sia il livello di operatività della Troica e quali siano le disponibilità cognitive dei suoi operatori. Errori come quello descritto sono ordinaria amministrazione per chi opera con oggetti complicati? O sono errori imperdonabili? E le valutazioni fatte nello studio di Blnchard e Daniel depongono per una correzione di orientamenti, o semplicemente, come dire: lavoro accademico?
E noi facciamo male a pensare: a chi siamo affidati?    

 
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Se le idee scaturiscono dal pensiero.

Post n°105 pubblicato il 29 Dicembre 2012 da smittino

1. Nel suo intervento su ‘Il Sole 24 Ore’ di oggi Paul Krungman, seppure in maniera succinta come è solito, svolge il seguente suggestivo ragionamento.
Si dice che spesso gli economisti sbagliano previsioni. E’ vero. Ma altrettanto spesso è vero che un errore non è sufficiente a far pensare ad una loro generica incapacità di fare il loro mestiere. Quello che, forse, si può dire,  con maggiore approssimazione alla verità, è che molti economisti ragionano più sulla teoria, che non sulle esperienza concrete, ancorché non conformi, o non del tutto conformi, alla teoria.
In una crisi economica, se si interviene con misure espansive, cioè fornendo liquidità ai mercati, a prescindere dalla disponibilità di forze produttive inutilizzate (impianti, manodopera ecc.), quasi certamente, anzi molto probabilmente, si va incontro a un processo inflattivo. Ma se le misure espansive incrociano situazioni di disponibilità di forza produttiva inutilizzata, l’inflazione non scatta. Ne abbiamo un esempio nella crisi corrente: da quando è scoppiata, banche centrali e stati hanno inondato i mercati di liquidità, ma l’inflazione non si vede. Anzi, il timore è per il contrario, e, cioè, per la deflazione. Basterebbe prendere atta di questa verità, e la via per l’uscita dalla crisi sarebbe già imboccata.

2. Come, si potrebbe dire.
L’inflazione non scatta, perché la liquidità di cui si parla giace nelle casse delle banche che l’hanno utilizzata, o in quelle delle banche centrali che la tengono a disposizione: il tutto per paura dell’inflazione. Se si credesse invece che ci sono impianti produttivi fermi e forte disoccupazione, si metterebbe in moto il processo virtuoso: ripresa del credito, investimenti, lavoro, produzione, crescita e sviluppo, necessario per vincere questa crisi.

3. Perché non si crede a questo.
Perché la teoria monetarista (quella della cosiddetta scuola di Chicago)non lo prevede, e la teoria keynesiana che l’ha dimostrato (nella la crisi del ’29, ma non solo), non soddisfa i desiderata dei mercati, cioè, del capitalismo, per dirla con Galbrighth.
In conclusione Krugman ritiene che il vero errore che commettono alcuni economisti è quello di fidarsi più delle teorie acquisite, che non dell’esperienza, per definirne di nuove. Senza mai farsi tentare dal dubbio e, conseguentemente, senza mai aver voglia di correggersi.

 

 

 
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Rating e magistratura.

Post n°104 pubblicato il 16 Novembre 2012 da smittino

1. Tra il 10 e il 18 gennaio di quest’anno le agenzie di rating Standard and Poors’s e Fitch - a mercati aperti - hanno rilasciato informazioni su un imminente declassamento del debito pubblico italiano, che hanno provocato un forte schock di borsa. Sulla notizia, la Procura della Repubblica di Trani ha avviato indagini per abuso d’informazioni privilegiate e conseguente manipolazione del mercato. Qualche giorno fa, la stessa procura ha chiesto il rinvio a giudizio dei responsabili delle due agenzie. Quale che saranno il seguito e la conclusione del procedimento, siamo in presenza di una buona notizia: d’oggi in poi, questi strani ‘trinciagiudizi’, fin’ora non soggetti a controllo, sapranno che, almeno in Italia, dovranno rispondere almeno alla magistratura.

2. Oltre a quelle nominate, con Moody’s sono tre le agenzie di rating nel mondo che, su richiesta, o di propria iniziativa, fanno valutazioni (di debiti privati, dei debiti pubblici, dell’intere economie dei paesi ecc. ecc.) sulle quali, poi, sono prese tante decisioni di politica economica: credito, investimenti, gestione di fondi pensionistici, e molte altre, anche politiche, che non è il caso di elencare partitamente. Il che lascia intendere, senza troppe spiegazioni, quanto delicata e trasparente dovrebbe essere la loro attività. E’ invece, a giudicare da tanti esempi rilevati, e censurati specialmente in America, ma anche dal caso rilevato dalla Procura di Trani, è pachidermica e oscura. L’ipotesi di reato formulata dalla magistratura è che le due agenzie hanno fatto dichiarazioni circa un imminente declassamento dell’Italia, mentre l’attività di borsa era in svolgimento. Perché le due agenzie non potevano dare in anticipo le informazioni per le quali sono indagate? Per quello che segue.

3. Volendo accedere all’idea che le dichiarazioni fossero corrette nel merito, comunque erano inopportune nei tempi. Se un operatore di borsa sta trattando titoli del debito pubblico di un paese, e all’improvviso viene a conoscenza che la valutazione di quei titoli è in ribasso, è possibile che cambia strategia, e stravolge l’andamento generale delle contrattazioni, con danno per i risparmiatori? Ma c’è di più: perché dare informazioni (privilegiate) in anticipo, su ciò che dovrà succedere in futuro, quando i fatti potrebbero, poi, suggerire decisioni affatto diverse? E’ quello che la magistratura e noi cittadini abbiamo diritto di sapere.Il provvedimento giudiziario ha indotto l’agenzia Fitch a minacciare fulmini e saette: se non le saranno date assicurazioni che fatti del genere non si verificheranno in futuro, abbandonerà l’Italia. Ignara che si tratta di minacce a vuoto: il nostro sistema giurisdizionale non garantisce a nessuno, italiano, o straniero che agisce sul nostro territorio, ‘immunità d’indagine’. Anzi, proprio l’indagine è una garanzia della tutela che si cerca.

4. E’ curioso che, tuttavia, che in coincidenza con l’iniziativa della Procura di Trani, ci siano state una dichiarazione del Ministro delle Finanze, e una presa di pozione della Consob (organo di vigilanza della borsa) di sapore allarmistico.Il Ministro, in una audizione della Commissione Finanze del Senato, ha dichiarato che le agenzie di rating, nel privato, hanno una funzione “giusta”, per quanto riguarda il pubblico, bisogna predisporre delle barriere contro, ma “finché non abbiamo un sistema alternativo collaudato…” non si può fare granché, senza rischiare un collasso della sorveglianza.La Consob (come da voci giornalistiche), richiesta di ritirare la licenza a Fitch, ha precisato che l’agenzia non è censurabile, in quanto avrebbe fatto soltanto una comunicazione strettamente istituzionale.Chi è la ‘suocera’ che deve intendere?

 
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Ancora la storia di 'lacci e lacciuoli'.

Post n°103 pubblicato il 10 Novembre 2012 da smittino

1. In occasione di un seminario di studi organizzato dalla Confindustria nel lontano 1970, Guido Carli (Governatore della Banca d’Italia, Presidente di Confindustria, Presidente dell’Università LUISS) coniò l’espressione ‘lacci e lacciuoli’, per indicare gli ostacoli che impedivano alla nostra economia di avere un andamento virtuoso. Le due parole, con lo stesso significato, erano già state usate da Luigi Einaudi (economista e primo Presidente della Repubblica Italiana).
Carli non parlava a tutti e, personaggio qual era, pretendeva che l’espressione fosse da sola sufficiente a far capire di cosa parlava, e non ha mai fatto una lista né di lacci, né di lacciuoli.
Gli epigoni, forse per non sbagliare, hanno tradotto l’espressione con: “riforme da fare”, senza spiegare quali riforme di dovessero fare.
Ai giorni nostri, chiunque mastichi di politica, per non parlare degli economisti, non apre bocca se non fa riferimento alle riforme necessarie per uscire dalla crisi. Anche loro, ovviamente, non ne citano mai una.

2. Al tempo di Carli il grosso dell’economia, specialmente quella del vecchio continente, era agricoltura e industria, e la finanza moderna muoveva i primi in America e nella city di Londra, senza turbare i nostri sonni.
A partire dalla fine degli anni ’70, quando l’amministrazione americana di Nixon ha dichiarato l’inconvertibiltà del dollaro, anche noi abbiamo cominciato a far conoscenza con la finanza. Si trattava ancora di un fenomeno, come dire: estero.
Con la globalizzazione, e la liberalizzazione del movimento internazionale dei capitali - accreditata in Italia con frasi tipo: ‘più stato, meno mercato’ -  la finanza ha sovvertito il significato dell’economia  del mondo intero, al punto che, quando oggi se ne parla, molti credono la finanza sia il tutto, e l’industria, e di più l’agricoltura, siano cosa altra.
Che ruolo hanno avuto i lacci e i lacciuoli, - o, se si vuole, le riforme - in questo lungo processo, che è stato storico, politico ed economico insieme? Sono stati rimossi i lacci e i lacciuoli? Sono state fatte le riforme? E lo stato attuale (di crisi) dell’economia ha collegamenti con queste salvifiche misure?

3. Secondo Carli, allora, e tutti i liberisti che hanno concordato e concordano con lui oggi, i lacci e i lacciuoli erano e sono:
- per il sistema delle imprese, i pretesi diritti dei lavoratori, la bassa produttività del lavoro, la regolamentazione delle condizioni di lavoro, la mediazione sindacale nelle relazioni industriali, il costo del denaro, e via specificando;
- per il sistema paese, l’alto debito pubblico, l’alta spesa per gli interessi su di esso, la spesa elevata per pensioni e assistenza medica, l’eccessivo costo della pubblica amministrazione, l’inefficienza della stessa, la mancanza di infrastrutture, la mancanza di privatizzazioni e liberalizzazioni, ecc. ecc.
Ciascuno di questi lacci e lacciuoli doveva - per i  contemporanei, deve - essere rimosso con una o più riforme ad hoc. Non si è fatto in passato, e abbiamo avuto un’economi asfittica; se non si fa da ora in poi, saremo destinati ad una crisi perenne.

4. Domanda:  ma dagli anni ’70 in qua non è stato fatto proprio nulla in termini di riforme? La risposta è no. Chiunque leggesse questa nota sa che da allora ad oggi si sono fatte tante riforme: dal precariato, agli interessi ad una cifra, da una sanità, ormai a pagamento, a pensioni di fame, da una pubblica amministrazione ridotta all’osso, alla privatizzazione di tutto il privatizzabile.
Non lo sanno invece coloro che, secondo me, ne hanno fatto, e ne fanno, un paravento per non voler spiegare diversamente, ieri i motivi del pessimo andamento dell’ economia, oggi i motivi della crisi. Persino l’attuale governatore della Banca Centrale Europea, in un recente intervento ha usato l’espressione ‘lacci e lacciuoli’, per meglio sostenere che dalla risi si esce solo se si fanno le riforme.
Perdiamo tempo.
Io credo che la nostra economia effettivamente non abbia mai brillato. Ma non perche soffrisse lacci e lacciuoli. Non ha brillato in passato perché, quando era agricoltura e industria era poco competitiva, per carenza d’innovazione di processo, ma soprattutto di prodotto; la Fiat, con le sue brutte automobili ne è l’esempio lampante. Non brilla oggi perché, nel mondo della finanza, ha un ruolo oggettivamente marginale, a causa del limitato orizzonte che le è concesso (dall’Europa?).
In presenza di una crisi, che è depressione, la via di uscita non sono le ricette monetariste che si propongono: stringere la cinghia, non spendere, non investire. Se questo si fa, non si crea lavoro. E se non si lavoro ci si immiserisce sempre di più. Anche se la finanza, come quotidianamente ci dicono le borse mondiali, continua tranquillamente a prosperare. La storia insegna che dalle crisi si è sempre usciti con gli investimenti. Anche a debito. Perché se gli investimenti a debito sono quelli giusti, producono la ricchezza necessaria per pagare i debiti contratti per farli, e quelli accumulati in precedenza.
Detta in termini meno aggressivi, in una situazione di crisi come quella che siamo costretti a vivere, se mancano gli investimenti privati, per tutto quello che sappiamo, è lo Stato che deve farsene temporaneamente carico. A crisi finita, lo Stato, poi, riprende il suo ruolo di regolatore neutro. E’ questa la lezione che abbiamo imparato da J.M.Keynes, e per la quale siamo usciti dalle miserie prodotte dalla prima e dalla seconda guerra mondiale.
Non tenerne conto è suicida. Se l’Europa non ce lo consente, ebbene: usciamo dall’Europa.

 
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L'ultimo libro di P.Krugman.

Post n°102 pubblicato il 06 Novembre 2012 da smittino

1. Con il suo ultimo libro ‘Fuori da questa crisi, adesso!’, Paul Krugman, premio nobel per l’economia 2008, ha fatto ancora una volta centro. In controtendenza, sosiene che l’intellighenzia che ancora cerca le cause della crisi economica in atto, fa un lavoro, improduttivo, e più interessante sarebbe pensare a come dalla crisi si esce. Egli ci prova con questo libro.
La tesi di fondo, incastonata in un panorama vastissimo di tesi e informazioni, è che essendo, quella corrente, una ‘crisi di domanda ‘- e non ‘di offerta’, come si crede - per venirne a capo, in qualche modo, bisogna ritornare ad una moderna ‘ricetta Keynesiana’. Nnella speranza che il termine non sia ancora scaduto, visto che la carenza di domanda ha prodotto la volatilizzazione della fiducia (nessuno si fida di nessuno, il credito è scomparso, non si fanno investimenti) e una disoccupazione in continuo aumento.

2. Dire altro sull’ultima opera - necessaria - di Krugman, significherebbe fargli torto, essendo quasi impossibile sintetizzarne il contenuto. Meglio leggere il libro.
Tuttavia, per chi non lo dovesse farlo, perché, magari, ha scarsa dimestichezza con la ‘scienza triste’, aggiungo solo le seguenti rapide notazioni, che, comunque, avrebbero bisogno di essere più approfondite.
‘Crisi da domanda’ per gli economisti significa cattivo andamento dell’economia, a causa della mancanza, o almeno della carenza di:
- investimenti di capitale in attività produttive, capaci di creare posti di lavoro, che diano salari e stipendi da spendere;
- spesa di salari e stipendi (consumi) che garantiscono la continuità produttiva.
‘Crisi di offerta’,  invece, per gli economisti significa che il cattivo andamento dell’economia dipende da condizioni  non favorevoli agli investimenti, e crearle occorre ridurre la presenza pubblica in economia, il debito pubblico  e i tassi di interesse.
‘Ricetta keynesiana’ (da J.M.Keynes, economista al tempo fra la prima e la seconda guerra mondiale), significa che quando c’è carenza d’investimenti (privati),  si deve sopperire con investimenti pubblici; anche quando il debito pubblico è alto. Perché solo così si rimette in moto il processo produttivo inceppato, e solo così c’è anche la possibilità di far crescere il famoso PIL,  e migliorare il suo rapporto col debito.

3. Con questa nota, però, volevo  accennare ad argomento contenuto nel libro, che, secondo me, deve essere spunto per altre riflessioni. Krugman si chiede: “…c’è un processo di causazione diretta… tra disuguaglianza del reddito e crisi finanziaria?...”.  In proposito ci sono due tesi (scientifiche).
La prima è che quando la ricchezza si concentra in poche mani, poiché le classi medie spendono di meno e i ricchi non possono spendere più del ‘loro’ necessario, si ha un calo della domanda complessiva. Donde la crisi da domanda e quello che consegue.
L’altra tesi è che, con la concentrazione di ricchezza, i ricchi spendono sempre più, e le classi sottostanti, a cascata, si indebitano, nel tentativo di imitare gli stili di vita dei ricchi. Donde l’aumento del debito, la crisi , ecc.
Ma c’è una terza tesi, che è di Krugman, secondo la quale tutto è frutto di azione politica, cioè, delle scelte, che la politica fa, o non fa. La deregolamentazione, per esempio, è stata una delle cause principali della crisi; ma anche dell’arricchimento delle poche persone che hanno avuto la via spianata per concentrare le risorse (copiose) nella facile finanza, piuttosto che nella dura industria.
E , qui, l’autore si fa triste: “…torna a suonarci nelle orecchie la celebre frase di Upton Sinclair:  - è difficile indurre un uomo a capire una determinata cosa quando il suo salario dipende dal fatto di non capirla - “.

 
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Chi difende i mercati?

Post n°101 pubblicato il 23 Settembre 2012 da smittino

 

1. L’autunno appena arrivato ci dà tre informazioni. La crisi economica iniziata nel 2008 è ancora con noi, e sta spiegando gli effetti  nefasti che tutti paventavamo: disoccupazione crescente, aumento dei prezzi  e delle tariffe, calo dei  redditi e dei risparmi, perdita del potere d’acquisto, sparizione del credito (credit crunch), e l’elenco potrebbe continuare.  Le misure adottate, fra immissione di liquidità nei mercati e regole, non hanno prodotto altro effetto, se non quello di procrastinare la resa dei conti. Dalla crisi non si esce se non si decidono politiche capaci di dare una ‘guida’ ai mercati, affinché gli stessi, nel perseguire i loro obiettivi, non distruggano la ricchezza.

2. Sul contenuto delle prime due informazioni, in cinque anni s’è scritto tanto che altre considerazioni non aggiungerebbero conoscenza. E’ appena il caso di ricordare che fra Banca Centrale Americana (Federal Reserve) e Banca Centrale Europea (European Central Bank) sono stati immessi nei mercati migliaia di miliardi di dollari e di euro, perché le banche fornissero credito alle imprese, e queste hanno pensato bene di utilizzare gli aiuti per aggiustare i propri conti, riservando alle imprese qualche spicciolo; inoltre, le poche regole scritte, tipo quelle americane che prevedevano il ritorno alla distinzione fra banche ordinarie, dedite all’erogazione del credito, e banche d’affari, interessate agli investimenti, sono rimaste  sostanzialmente inapplicate (Marco Valsania e Kenneth Rogoff in ‘Il Sole 24 Ore’ del 21/9/2012).
La terza informazione, invece, merita attenzione perché, da qualche tempo, è tema di studio di opinionisti ed esperti scientifici, i quali, vedendo che il capitalismo finanziario è ritenuto responsabile della crisi, si affrettano a giocare d’anticipo, per scongiurare sul nascere idee e/o iniziative politiche preordinate/i a 'svilire' la valenza dei c.d. mercati come regolatori del benessere (economico).
Si riportano in proposito le tesi di Jean Petitot, espresse in un conferenza tenuta giorni fà presso il Centro Einaudi.

3. “Il liberalismo non è un’innovazione essenzialmente anglosassone… è stato elaborato in tutta Europa…” , per cui è suo patrimonio, come dire: genetico; è “un’universalità meta-politica e meta-culturale…  un metodo della libertà…, nel senso Einaudiano”. Se il liberalismo così inteso risulta di difficile accesso, la difficoltà “deriva da un’incomprensione del modo in cui può funzionare un ordine complesso in una società auto-organizzata…”,  scontato che ogni società moderna sia un ordine complesso. La complessità delle società moderne rende obsoleti le comunità (retaggio arcaico del passato) e il “costruttivismo razionalista (dirigista o pianificatore)”, perché “la complessità è evolutiva in un senso evoluzionista forte (quasi darwiniano)”. E ancora: “la complessità è sempre accentrata”; si auto-organizza con “meccanismi d’intelligenza distribuita”, e non può essere sottoposta a controlli; “il controllo politico della società e dell’economia si basa su un errore scientifico”.
A sostegno di queste tesi è facile lavoro per Petitot evidenziare la contraddizione palese in cui sarebbero immersi i detrattori del liberalismo.  Coloro che non comprendono, egli sostiene, che il liberalismo è una ‘qualità’ intrinseca delle società complesse, cioè, delle società auto-organizzate, non fanno fatica, invece,  a difendere l’intangibilità di altri sistemi complessi, quali quelli naturali; eppure si tratta di sistemi autoregolantesi, al pari di quelli sociali.
Come è evidente, si tratta di argomenti a favore del liberalismo e non proprio del liberismo economico, che  Petitot tiene distinti. Su alcuni di essi (l’evoluzione darwiniana,  il funzionamento dell’intelligenza distribuita, il controllo politico sulle società e sul’economia), tuttavia, si potrebbe tanto discutere. Ma non sono quelli che c’interessano. C’interessa, invece, leggere meglio alcuni altri che, sembra, gli abbiano preso la mano.

a) Il liberalismo è un’universalità meta-politica e meta-culturale. E’ un’affermazione evidentemente ‘forte’. Vediamo quanto è sostenibile.
Se il liberalismo è il sistema di idee nato con il giusnaturalismo continentale europeo, e affermatosi  sotto l’influsso dell’utilitarismo  inglese (Gunnar Myrdal), si fa fatica a pensare che sia un’universalità meta-politica; al contrario, sembra più giusto attribuirgli  un’ancora paternità politica precisa: il giusnaturalismo e l’utilitarismo, appunto. E maggiormente più giusto sembra ritenere che esso tuttora conviva e si evolva con la politica.
Inoltre: idee che nascono, si sviluppano e durano secoli, con effetti mutevoli e considerazioni diverse, che influenzano i comportamenti delle persone e delle istituzioni, sono da considerare meta-culturali o, non piuttosto, immanenti nelle società, ancorché complesse? Credo si debba propendere per la seconda opzione.
b) Le società complesse si autoregolano e le comunità e il dirigismo sono obsoleti.
E’ noto che il diritto moderno è fondato sul diritto romano.  Ubi societas, ibi jus” è parte del più completo brocardo della cultura giuridica latina, “Ubi homo, ibi societas, ergo, ubi homo jus”, che tradotto significa: dove c’è l’uomo, c’è organizzazione sociale e , di conseguenza, ci sono regole.
Se questa è la matrice culturale delle società moderne, e non credo solo europee, in che senso, solo perché complesse rispetto a quelle del passato remoto, si auto-organizzano? Nel senso che esistono, operano e si conservano senza regole? Non mi pare questo il suggerimento della storia e della quotidiana esperienza empirica, e le leggi codificate non sono scelte dispotiche di rozzi oppressori dei popoli.
Ma ove il discorso delle regole non dovesse convincere, come si pensa di poter sistemare il fenomeno dello scambio, che ab immerbilis caratterizza le relazioni  umane e sociali? Non è forse la necessità dello scambio, autorevole convinzione degli economisti classici e neoclassici,  migliore liberalismo di ogni tempo, che ha dato luogo alle comunità? E che c’entra il dirigismo con scambio e comunità! Ma poi: l’illuminismo, con tutto ciò che ha significato per le civiltà moderne, come interferisce con idee come l’auto-organizzazione?
c)  I detrattori del liberalismo non fanno fatica  a difendere l’intangibilità di altri sistemi complessi, come i sistemi naturali; eppure si tratta di sistemi autoregolantesi, al pari di quelli sociali.
E’ questa una convinzione che ha appassionato tanti studiosi, che hanno cercato, e cercano di dimostrare, che i sistemi sociali soggiacciono a leggi, al pari dei sistemi naturali. Per tutti vale la pena di citare Giuseppe Palomba, formatosi alla London Schoo of Economics, insegnante negli anni ’60 all’Università di Napoli, che aveva intitolato il suo manuale di economia politica ‘Fisica Ecomica’, e che in un saggio apparso in quel tempo sulla rivista del Banco di Napoli ha sostenuto che l’Economia Politica, al pari della Fisica, conoscesse nove leggi equivalenti.
Tralasciando i risultati cui è pervenuto il dibattito sul dilemma soggettivismo-oggettivismo scientifico, è acquisito che una scienza è tale se è indagabile con metodo avalutativo, sia sperimentabile in laboratorio e dia risultati stabili (leggi) . Ove tutto ciò non ricorre non si ha scienza. La difficoltà di riguardare come scienza i fenomeni sociali risiede proprio nel fatto che quando si va ad indagarli, è difficile prescindere dalle premesse di valore, e più difficile ancora risulta la sperimentazione in laboratorio. E se si parla di scienze sociali, intanto se ne parla, in quanto si fa riferimento a ‘cosa altra’ rispetto alle scienze naturali. Assimilare i sistemi sociali ai sistemi naturali appare quasi un espediente per sostenere tesi.

4. Se queste osservazioni possono essere rivolte al pensiero di Petitot, c’è da chiedersi perché un pensatore della sua caratura si sia prestato a tanto rischio.  Egli, probabilmente, risponderebbe che ha solo espresso sue idee su una categoria storico-filosofica, il liberalismo, e non teme osservazioni, perché ben distingue  fra liberalismo e liberismo. Che dire: sarebbe una bella risposta se nella sua esposizione non ci fosse un riferimento al ‘lassaiz- fair’. Purtroppo questo riferimento c’è, e crea scompiglio in chi s’interroga sul bisogno di chiarezza in tema.
Il laissez-faire, nato come idea e principio liberale, è stato catturato dall’economia liberista, un tempo giudicata ‘volgare’, ed oggi ne è quasi la metafora. Se non ché, quando Adam Smith coniò l’espressione, non l’immaginò  come regola di funzionamento dell’economia volgare, ma come presidio del mercato perfetto, non viziato, come dirà più tardi Joseph Stiglitz, premio nobel 2001  per l’economia, da asimmetrie informative. Ma Petitot, verosimilmente sa tutto questo. Perciò, se pensiamo che egli, chiamato a parlare in un’istituzione che per mission ammicca col liberismo, abbia ammiccato anche lui, forse non siamo del tutto fuori luogo. E non siamo, altresì , fuor luogo se pensiamo che abbia agito al servizio di una causa: la difesa dei c.d. mercati, prima che si profili una loro sconfessione definitiva. Purtroppo, c’è da scommettere che la sua autorevolezza, e la sua distinzione/non distinzione fra liberalismo e liberismo, alla fine prevarranno.

 
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Il coraggio di 'costruire' un cigno roseo.

Post n°100 pubblicato il 13 Settembre 2012 da smittino

1. All’inizio dell’estate, e per tutto luglio, l’andamento negativo dell’economia e della borsa hanno suggerito a fior di economisti, non solo italiani, che in agosto, classico periodo di transazioni spericolate, favorite dalle distrazioni delle vacanze, ci poteva  essere lo shot dawn finale e, di conseguenza,  la dissolvenza dell’euro e dell’Europa. Il mese ‘fatidico’ è ormai passato, e non solo non ci sono avvisaglie degli eventi paventati, quanto, addirittura , se ne intravedono altri di segno contrario, quali l’andamento dei debiti pubblici mondiali, in controtendenza rispetto alle previsioni di gennaio, la disoccupazione, in particolare quella americana, non peggiorata, le borse, anche spagnole ed italiane, che alzano la testa, gli investimenti esteri verso l’Europa, specie quelli cinesi, in considerevole ripresa. Tra l’altro tutti, mercati compresi, sono in effervescenza per le positive decisioni della Corte di Giustizia tedesca su Fiscal Compact e Fondi salva stati, atteso che potrebbero/dovrebbero costituire il punto di svolta definitivo per l’intera politica economica europea.
Tutto bene, dunque, e zero  in competenza agli economisti? Non proprio. Perché le vicende dell’attuale passaggio della ormai ultraquinquennale crisi economica non sono proprio brillanti. Tuttavia, necessitano di spiegazioni di più ampio respiro, rispetto ai giudizi cabalistici di breve termine degli esperti, e l’andamento complessivo dell’economia non è definito da un mese di transazioni borsistiche, quali che siano.

2. E’ ormai acquisito che la crisi europea è naturale evoluzione di quella che ha avuto inizio in America nell’estate2007, quando i mutuatari sub-prime non sono stati più in grado di pagare le rate,  i titoli che le banche vi avevano costruito sopra hanno perso valore fino a diventare spazzatura (junk-bond),  gli attivi delle banche stesse si sono sgonfiati, una importante banca è fallita (Lheman Brothers) e molte hanno corso lo stesso pericolo. Il peggio è stato evitato dai salvataggi delle banche da parte dello stato e dalla immissione di liquidità nei mercati da parte della Banca Centrale (i famosi ‘quantitative easing’, uno e due).
Persa l’opportunità di lauti guadagni sui mutui sub-prime e sugli innumerevoli strumenti derivati (CDO, CDS, FUTURES e tante altre diavolerie oscure di cui molti parlano, spesso senza cognizione), la ‘Finanza Alta’ ha spostato l’attenzione sui debiti pubblici dei paesi del vecchio continente, specialmente su quelli di livello pari, o superiori al 100% del PIL, che, purtroppo, non avendo un governo e una banca centrale pronti a proteggerli, più facilmente si prestano ad operazioni speculative, direi anche, reiterabili nel tempo. Con pochi passaggi, come nell’esempio seguente.
a. Scelto il paese più debole, le grandi organizzazioni finanziarie (banche d’affari, i vari fondi nascosti, più noti come hedge-fund)  comprano i suoi titoli, che per  la bassa affidabilità, sono venduti a prezzi contenuti e alti rendimenti;
b. in seconda battuta stipulano un contratto con un’assicurazione (o ne comprano uno già circolante in borsa), col quale è stabilito che se i titoli appena comprati perdono valore, l’assicurazione paga la perdita;
c. terzo passaggio, corrono in borsa a vendere, o meglio, a svendere i titoli, in modo che il prezzo, cioè il valore, precipiti; con precipitare del valore, tutti coloro che hanno titoli simili corrono a vendere, provocando un ulteriore deprezzamento degli stessi;
d. a questo punto si chiede all’assicurazione di coprire la perdita subita.

3. Anche se gli strumenti a disposizione della speculazione sono tanti, altri e di diversa natura, quello dell’esempio riportato, noto con il nome di ‘short selling’, rende l’idea di come l’operare dell’alta finanza abbia poco a che fare con la scienza economica: questa spiega le relazioni, causali e non, che legano gli eventi economici; quelli della finanza sono eventi unicamente determinati dalle decisioni di traders interessati alla ricchezza fine a sé stessa. Ne deriva che, essendo oggigiorno la finanza la più importante espressione dell’economia, i cultori della ‘scienza triste’, né riescono a spiegare gli eventi economici (?), né, a maggior ragione, riescono ad azzeccare previsioni sull’andamento degli stessi. La finanza non è spiegabile con alcuna legge scientifica.

4. L’attuale stadio della crisi economica europea, che si trascina, ormai, da due anni in un’area monetaria senza stato e senza banca centrale, induce a ritenere che l’andazzo , a meno della comparsa di un cigno nero (un evento straordinario), sempre possibile nei momenti di crisi, potrebbe durare all’infinito. Con le tristi conseguenze che tutti conosciamo. Se dovessimo raccontarci la storia, ricorderemmo che, in condizioni molto simili a quelle attuali, un cigno nero (l’attentato di Serajevo) ha causato la prima guerra mondiale, e un altro (l’avvento al potere di Hitler) ha portato alla seconda. Se invece la storia vogliamo ricordarla per trarne insegnamento, dobbiamo fare in modo che adesso il cigno nero sia un nuovo patto fra i popoli e gli stati europei, per costruire gli Stati Uniti d’Europa, che abbiano la forza politica e finanziaria occorrente per tagliare le unghie alla speculazione e  promuovere gli investimenti, l’occupazione e lo sviluppo , non solo economico, che mancano all’appello ormai da tanto tempo.    

 
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E pensare che ci fu Orazio.

Post n°99 pubblicato il 09 Gennaio 2012 da smittino

1. Nella III Satira del Libro Secondo, parlando di un non meglio identificato Staberio Orazio scrive:  ”… Gli eredi hanno inciso sulla tomba l’ammontare del patrimonio”, perché così richiesti dal defunto, pena una certa quantità di costose e inaccettabili incombenze. “A cosa, dunque, pensava (Staberio) quando volle che gli eredi scolpissero sulla pietra la somma del patrimonio?... Finché visse, credette la povertà un enorme difetto… Se gli fosse capitato di morire meno ricco, anche solo di un centesimo, gli sarebbe sembrato d’essere un buono a nulla”.
Poi prosegue con un giudizio. Partendo da un paragone fra Staberio e il greco Aristippo, - anche questo non meglio sconosciuto - che durante un viaggio in nave ordinò ai suoi servi di gettare via l’oro che trasportavano, per alleggerire il carico, afferma che se il primo era da biasimare per la sua avarizia, il secondo lo era ugualmente perchè, quanto meno, dissennato.  E siccome questo giudizio gli parve un'inezia, volle spiegarsi meglio,
Così
.

2. “Se uno compra cetre e, compratele,le raccoglie tutte assieme, senza esser dedito all’esercizio della cetra né di alcuna altra musica; e trincetti compra uno che non è calzolaio;  se uno, alieno di commercio, compra vele da nave…”, facile pensare che si tratta di pazzi.  E “… In che cosa è diverso da costoro chi conserva oro e denari e non sa trarre profitto da quel che ha messo assieme e ha paura di toccarlo come fosse sacrilegio?”  La risposta sembrerebbe scontata. E invece la gente  pensa che si tratti di comportamenti  normali perché “… la gran parte degli uomini è tormentata dal medesimo male”.
E Allora?
Allora, conclude Orazio, la giusta soluzione del dilemma arricchimento- depauperamento sta nel mezzo:  tu, bramoso di ricchezze, bada di non accrescerle oltre il limite di sicurezza; tu dissennato, invece, cerca di non assottigliarle senza un valida ragione.

3. Mi chiedo perché, queste riflessioni, che l'accademia pur si gloria di ricordare come saggezza della cultura classica, sono, oggigiorno, sconosciute alla scienza economica moderna.
La probabile risposta è che tutto il pensiero moderno o ignora la cultura classica, o semplicemente la giudica ‘roba’ del passato.
Col risultato, purtroppo, che, per esmpio, i c.d. mercati sono considerati i signori dell’economia e della finanza - e che, quindi, hanno ragione a guardare alla ricchezza come ad una categoria fine a sé stessa ed in continua espansione - e le persone in carne ed ossa, che la ricchezza la producono, devono accettare di costiuire il ‘fatto residuo’ di quella espansione.
Non mi sembra un grande risultato di civiltà.
Non aggiungo altro. Argomentazioni più articolate su una possibile soluzione da ‘giusta misura’ della finanza moderna, sono contenute nei post precedenti, ai quali rimando.                                                         

 
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Il mio blog...

Post n°98 pubblicato il 15 Dicembre 2011 da smittino

...è muto.
Non ho più voglia di spiegrmi la logica che ci ha portato al collasso economico. Non c'è nulla di serio da capire: l'attuale andamento della finanza è speculazione pura, e coloro che la praticano sono niente altro che criminali.
Andrebbero condannati al massimo della pena codificata in ciascuno degli stati in cui operano.
Ma dov'è il giudice!

 

 
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Sulla nuova crisi.

Post n°97 pubblicato il 10 Ottobre 2011 da smittino

1. Come paventavo l’estate scorsa, nel nostro paese e nel mondo intero è successo tutto. Siamo di nuovo in crisi economica, col rischio di scivolare in una depressione, di cui ancora non s’immaginano dimensione e forma. I debiti pubblici (nazionale, europeo ed americano) sono sempre più insostenibili, l’occupazione non cresce, la liquidità scarseggia, e le istituzioni politiche annaspano, ovvero,  come pensa qualcuno, ci hanno assuefatti alla triste differenza fra intenzioni annunciate e realizzazione dei propositi. 
Siamo in presenza di una crisi nuova, o si tratta della continuazione di quella che abbiamo sofferto nel biennio 2007 - 2009?. Le opinioni sono tante e discordanti. A me sembra che nessuno abbia voglia di are chiarezza, per non dovere poi agire di conseguenza. E così navighiamo a vista nella nebbia, sperando che qualche miracolo ne attenui l’opacità.

2. Ragionando sugli avvenimenti che si sono succeduti nel tempo, in un’approssimazione rozza potremmo pensare che la crisi in corso sia la logica conseguenza del modo come si è affrontata quella del 2007 - 2008, sia per misure adottate, che per misure mancate.
Misure adottate. La memoria ci ricorda che per bloccare la crisi 2007 - 2009, gli stati e le banche centrali hanno fornito alle banche commerciali un’ingente quantità di denaro, perché garantissero alle imprese il credito necessario per finanziare nuovi investimenti produttivi, in vista di una ripresa dell’occupazione, della crescita e della ripresa. E’ successo purtroppo che, ricevuti i fondi, le banche, invece di far fluire il credito, li hanno investiti in borsa, e/o presso la stesse banche centrali, lucrando guadagni più sicuri e cospicui. Di conseguenza i nuovi investimenti sono mancati e di conseguenza sono mancati l’occupazione e il resto. Quest’assurda operazione ha prodotto due risultati esiziali per i debiti pubblici:
- da un lato - avendo dovuto gli stati trovare i fondi da dare alle banche, ricorrendo a prestiti - ha fatto aumentare notevolmente i loro debiti totali (effetto diretto).
- da un altro lato, non essendoci stati i nuovi investimenti attesi e, quindi, i nuovi posti di lavoro e la ripresa, non si è avuto lo sperato incremento delle entrate tributarie che bilanciasse l’aumento del debito (effetto indiretto).
Misure mancate. Nel fornire i fondi alle banche, gli stati non hanno predisposto i controlli necessari per assicurarsi che gli stessi fondi fossero destinati al credito alle imprese. Al contrario - e in tanti lo pensano - essendo le persone che ‘praticano’ gli stati le stesse che ‘praticano’ le banche, non c’era neanche l’interesse a farlo. In altri termini, le misure adottate sono state volutamente dirette a salvaguardare le banche, piuttosto che l’interesse più generale.

3. Ma, è questa una spiegazione che soddisfa?
Se non ci ponessimo il problema del perché sono state adottate certe misure e non ne sono state altre, potremmo accontentarci. E invece noi non ci accontentiamo, perché pensiamo che si possa dare una spiegazione più suggestiva.
Eccola.
Per tutti gli anni 90 e fino allo scoppio della crisi 2007 - 2008 i mercati hanno avuto una liquidità pressoché senza limiti. Al punto che è stato possibile erogare credito a soggetti che si sapeva in partenza non avrebbero potuto restituirli (i famosi mutui sub-prime). Ma, per gli erogatori nulla di straordinario: i mutui sub-prime, come è avvenuto, sarebbero stati impacchettati e venduti (l’operazione  prese il nome di cartolarizzazione) evitando, così, il rischio delle insolvenze. I compratori di questi mutui a loro volta hanno fatto la stessa cosa, di talché prestiti praticamente senza alcuna garanzia di restituzione sono passati di mano in mano, facendo aumentare il volume di una ricchezza effimera che, poi, è durata solo fino a quando il meccanismo ha funzionato. Quando i beneficiari dei mutui sub-prime hanno cominciato a non onorare le rate, semplicemente perché disoccupati, è cominciato il processo a ritroso, e la ricchezza apparente accumulata si è sgonfiata come un palloncino di plastica bucato, dando luogo alla crisi che abbiamo attraversato e speravamo di avere alle spalle.

4. E invece alle spalle c’era ancora ‘il nemico’.
Venuta meno, per gli speculatori, la possibilità di destreggiarsi con le cartolarizzazioni, è stato attivato un nuovo sistema: l’attacco diretto i debiti degli stati (debiti sovrani) e a quelli delle imprese, ivi comprese le stesse imprese bancarie.
Il nuovo meccanismo, al di là delle omelie più o meno esperte, può essere sintetizzato come segue.
Partendo dal dato incontrovertibile che la crisi 2007 - 2008 ha abbassato il grado di solvibilità di tutti i debitori (stati e imprese comprese) le agenzie di rating - che poi altro non sono che uffici di poche importanti banche - hanno cominciato a dichiarare a rischio di insolvenza i debiti pubblici di alcuni stati (in ordine: Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna Stati Uniti, Italia e…poi vedremo) e quelle di alcune imprese. Di conseguenza, hanno abbassato il loro merito di credito (o rating, come si dice in gergo).  L’abbassamento dei rating ha ingenerato negli investitori (diciamo non speculatori) aspettative negative. E loro, ovviamente, stanno correndo a disfarsi il più presto possibile dei titoli degli stati o delle imprese ritenute a rischio di insolvenza. Questo comportamento è l’attuale causa delle perdite di borsa. E se alcuni giorni le borse guadagnano, è perché gli operatori (speculatori), dati i bassi prezzi, hanno interesse a comprare, per avere un monte titoli (in gergo si parla di ‘copertura’) da offrire in garanzia, quando devono ricorrere a prestiti.
Ma, allora con la crisi in corso anche gli speculatori non se la passano bene?
Per niente.
Con il pretesto dell’altalena delle borse, gli speculatori stipulano contratti assicurativi (i famosi CDS o credit default swap), che garantiscono dalle eventuali perdite. Già questo fa capire che gli speculatori o guadagnano quando le borse salgono, o non perdono quando vanno giù.  Ma, c’è di più. I CDS per la loro numerosità, danno luogo a un mercato a sé, e si vendono e si comprano come se fossero ciambelle, procurando guadagni stratosferici, indipendentemente da come va l’economia nel suo complesso.
A questo punto è possibile accreditare quello che pensano molti opinionisti, e cioè, che l’altalena delle borse sia provocata di proposito, per speculare più facilmente nel mercato dei CDS: un mercato complesso e accessibile solo a specialisti sofisticati quali sono gli speculatori.

5. A noi qui interessa sapere che per questo gioco perverso siamo di nuovo in una crisi che, per tanti aspetti, è più pericolosa di quella precedente. Perché se allora si pensava che interventi mirati avrebbero sbarrato la strada alla finanza speculativa, oggi non possiamo più pensarlo. Oggi sappiamo che le crisi che si succedono sono volute. Nonostante questa consapevolezza siamo assuefatti all’idea che i mercati sono la variabile indipendente, che non si può modificare: nel bene e nel male, senza mai tentare di spiegare seriamente in che cosa consista il bene che proviene dalla speculazione dei mercati finanziari.
Ma, attenzione a ritenersi estranei: finché la finanza la farà da padrona, prima o poi una crisi ci chiamerà a pagare il conto.
E non sarà il conto dell’aperitivo.

 

 
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Purtroppo...

Post n°96 pubblicato il 02 Agosto 2011 da smittino

 

...mi ero illuso: sta accadendo tutto. Manca ancora l'epilogo. A settembre.

 

 
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Aspettavo...

Post n°95 pubblicato il 05 Luglio 2011 da smittino

...che dopo i roboanti tuoni delle agenzie di rating sul nostro debito pubblico fossimo stati messi sotto attacco della speculazione. Non è accaduto, o non è ancora accaduto? C'è da aspettare. Allora godiamoci le vacanza. Con qualche buon libro. A settembre.

 
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Crisi e investimenti mancati

Post n°94 pubblicato il 14 Giugno 2011 da smittino

1. Qualche giorno fa un economista prestigioso ha scritto che
a.  alto debito pubblico e crescita non vanno d’accordo perché:
- per la crescita occorrono investimenti,
- in tempi di crisi, o immediatamente dopo, quelli pubblici sono condizionati dal pericolo di espansione del debito (pubblico),
- ne deriva che il debito (pubblico) impedisce la crescita.
b. Poi ha aggiunto che, sempre  in tempi di crisi o dopo, anche gli investimenti privati ristagnano perché:
- non si ha certezza del ritorno sperato;
- non ci sono le condizioni di competitività  necessaria per favorire le esportazioni , e i consumi interni a causa della bassa produttività, soffrono i bassi redditi ad essi destinati.
Un bell’imbroglio.
Come se ne esce, si è chiesto l’economista, senza rispondersi?
Ma ha concluso: tutto dipende dalle politiche pubbliche ad hoc - che per ora  mancano - e dal comportamento del mercato.
C’è da chiedersi perché un economista prestigioso non abbia saputo darsi una risposta, magari a rischio di sbagliare. Secondo me se l’è impedito.
Precisamente quando, nel suo ragionamento, ha accettato l’idea che sia dannoso qualunque aumento del debito pubblico e quando ha ripetuto acriticamente il lait-motiv secondo cui il livello dei redditi da destinare a consumo debbano essere vincolati al livello della produttività del sistema.
Le cose possono essere raccontate diversamente.

2. Anche in tempi di crisi sono possibili investimenti pubblici finanziati a debito. Purché, naturalmente, tali investimenti siano immediatamente diretti a creare posti di lavoro, che è ciò che manca, e non a salvare la finanza, come è avvenuto in questi anni, senza che siano stati fatti grandi passi avanti per vincere la crisi 2007-2008. Nuovi posti di lavoro sono lo start della ripresa e della crescita; i salvataggi della finanza, come si è verificato, possono non esserlo.
Per quanto riguarda la questione secondo la quale investimenti privati sono condizionati dal livello della produttività, perché da essa dipndeno i redditi da destinare a consumi, ripeto qui quanto ho già scritto in precedenza: l’aumento della produttività di un sistema non è senza limiti. E poi, ogni aumento di produttività in un paese si ottiene a danno di un altro, sicché alla fine per il sistema globale il risultato è a somma  tendente allo zero.
Se è così - e così è - come si fa a far dipendere gli investimenti dal livello del debito pubblico e dalle vicende della produttività, sapendo che essi, gli investimenti intendo, sono necessari per la crescita?

3. A mio avvisto la tesi da sostenere è un’altra. E, cioè, la seguente.
Gli investimenti necessari per la crescita devono essere comunque possibili:
- quelli pubblici, a carico del debito pubblico, da destinare alla creazione di posti di lavoro;
- quelli privati, anche a debito, da utilizzare per migliorare la tecnologia produttiva (di processo e/o di prodotto), convinti che solo così si possa ottenere un aumento di produttività.
Perché siano efficaci, però devono essere rispettate le due seguenti condizioni:
- il prodotto dell’impresa deve essere distribuito fra profitti e salari secondo quote favorevoli  a quest’ultimi;
- la quota destinata ai profitti deve essere reinvestiva nell’impresa e non nel circuito finanziario, dove è destinata a disperdersi.
E’ questo l’unico vero modo per mettere in moto un meccanismo virtuoso per la crescita.    

 
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Ci risiamo.

Post n°93 pubblicato il 01 Maggio 2011 da smittino

1. Passata la Pasqua è scattato l’allarme: la speculazione è di nuovo attiva nei mercato finanziari, come se la crisi economica 2007 - 2008 non ci fosse stata. E’ il racconto che fanno in questi giorni i quotidiani, con titoli del tipo:  ‘Che cosa c’è sotto l’iceberg’; ‘Gli uomini d’oro dei titoli opachi’; ‘Banche ombra da 16 mila miliardi di dollari’; ‘Allarme swap da 2.500 miliardi’.
Di che si tratta?
Esattamente di quello che paventavo due anni fa, quando, si discuteva di come fronteggiare la crisi e, soprattutto, di come uscirne.

2. All’epoca, acquisito che la crisi era di sistema, era cioè di tutta la finanza, gli stati si sono caricati di debiti per fornire liquidità alle banche affinché queste alimentassero i canali del credito necessario ad avviare la ripresa. Intascate le provvidenze, le banche invece di dare credito, in parte le hanno utilizzate per impinguare i bilanci, in parte per farci operazioni speculative e lucrare guadagni. Così la crisi e le sue conseguenze sono rimaste irrisolte.
Fino a qualche mese fa si pensava  che nuove regole avrebbero scongiurato la possibilità di altre crisi. Invece sembra che non sarà così. Di regole nessuno vuole sentir parlare: in America le norme attuative del c.d. ‘Dodd-FranK Wall Street Reform and Consumer Protection act’ stentano a decollare; in Europa tutto si perde nelle continue estenuanti riunioni degli organismi europei. Intanto, a sentire i giornali, la speculazione è ricominciata.
Ma cosa dicono esattamente i giornali?

3. Non ci avventureremo  a considerare quanto riferiscono sui tecnicismi della finanza, in primo luogo perché ne sappiamo già troppo ed in secondo luogo perché non sono i tecnicismi che ci interessano. Ci limiteremo ad accennare ai termini dell’allarme lanciato.
In generale i giornali scrivono che ‘la musica è ripresa, con la stessa orchestra e gli stessi direttori di prima’. Sono solo ‘cambiate le note e gli spartiti’. Fuor di metafora, dicono che gli speculatori che hanno causato la crisi 2007 - 2008 (grandi banche, hedge fund, assicurazioni) hanno ripreso la loro nefasta attività e, per ‘nascondersi’ (sic!) hanno solo cambiato nome ali strumenti di lavoro. Al posto di Mbs e Cdo, prodotti finanziari derivati sostanzialmente poggiati sui famigerati debiti ‘sub prime’ oggi usano gli Etf, che sono prodotti derivati di nuova generazione il cui valore segue quello di un indice prescelto (azionario, obbligazionario, valutario o sulle materie prime). E ne hanno inondato i mercati. Si pensi che solo negli USA gli ETF valgono 1.000 mld di $, nel resto del mondo circa 300 mld di $, per un totale 1.300 mld di $. Una cifra da capogiro che non lascia per nulla tranquilli.

4. I mercati, infatti, stanno cominciando ad interrogarsi su questa montagna di ‘denaro di carta’, perché sanno che durerà ed avrà valore finché chi ‘lavora con le monete’ ci crederà. Quando qualcosa andrà storto, ad esempio quando la fiducia che le ‘cose vanno bene’ verrà meno, allora sarà una nuova crisi. Probabilmente più devastante di quella passata, dal momento che ancora non è passata del tutto e la nuova farà massa critica con quel che di essa ancora rimane.
Se sono i mercati - cioè gli speculatori, sia detto senza tanti infingimenti - a preoccuparsi, a maggior ragione dobbiamo preoccuparci noi, gente cui il denaro serve per far la spesa  e quasi null’altro. Per questo ritengo che bene fa chi grida all’allarme (Mario Draghi ed il suo Financial Stability Board, Il Sole 24 Ore e il suo nuovo, intelligente direttore Roberto Napoletano). A noi non ci resta che sperare che non si ripeta il dramma del 2007 - 2008.

 

 
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Le informazioni della BCE

Post n°92 pubblicato il 11 Aprile 2011 da smittino

1. Gli economisti liberisti sono i mentori del libero mercato, come sistema produttivo efficiente e di crescita. Fra essi, però, tanti sostengono che perché il mercato, o i mercati come usa dire al plurale quando si fa riferimento a quelli settoriali, funzioni/funzionino, deve essere garantita una conoscenza paritaria delle informazioni, da parte dei  c.d. competitors, cioè gli operatori. Se questi non hanno le stesse informazioni, il mercato/i mercati, non funziona/non funzionano.
Joseph Stiglitz ha meritato il premio nobel per l’economia per i suoi studi sulle c.d. ‘informazioni asimmetriche’.

2. Il mercato di settore più conosciuto è quello della finanza, nel quale si contrattano denaro e altre liquidità (titoli pubblici e privati, derivati ecc.).  E’ agevole comprendere che per la delicatezza essere connaturata, questo mercato dovrebbe garantire il massimo della simmetria delle informazioni. Che detta il altri termini forse elementari, ma più esplicativi del concetto, vuol dire che dovrebbe essere più trasparente.
Ebbene, a giudicare da quanto ho letto qualche giorno fa, sembra proprio che l’asimmetria delle informazioni dei mercati finanziari europei è, per così dire, istituzionale.

3. Le banche centrali, com’è noto, sono istituzioni incaricate della vigilanza sui mercati finanziari, per finalità politicamente definite. L’obiettivo principale assegnato alla  Banca Centrale Europea (BCE) è quello di tenere sotto controllo i prezzi, per evitare o contenere spinte inflazionistiche.
La BCE, dunque, per mission istituzionale è chiamata a conoscere e detenere informazioni sull’andamento del mercato finanziario domestico. Se vuole ben operare, deve conoscere e detenere informazioni anche sul mercati extraeuropei. Ed è quello che succede.
La BCE, al pari delle altre banche centrali, dispone di tre strumenti operativi:
- la manovra dei tassi;
- le operazioni mercato aperto;
- la manovra della riserva bancaria.
Col terzo la banca centrale determina il rapporto fra riserva - che le banche ordinarie devono detenere - e i depositi in essere: è scarsamente usato e serve a far aumentare o diminuire il credito. Il secondo si ha quando la stessa banca centrale acquista o vende titoli sul mercato: è usato per aumentare o diminuire la liquidità. Il primo è quello ricorrente: alzando  o abbassando i tassi la, BCE diminuisce o aumenta la circolazione monetaria; nel primo caso c’è un freno dei prezzi, nel secondo i prezzi possono correre.

4.Qualche giorno fa la BCE ha alzato di 1/2% i tassi. Come è solito fare, per dare informazioni di prima mano sullo stato dei mercati, il governatore ha tenuto una conferenza stampa per spiegare i motivi della decisione, nella quale ha parlato per codici.
Leggete cosa ha detto, secondo quanto è stato riportato in un articolo specialistico (Il Sole 24 Ore, 8/4).
Innanzi tutto, “a differenza di altre banche centrali, la BCE si è sempre tenuta le mani libere e non ha mai preso impegni”. Poi:
- ha accuratamente evitato la parola ‘vigilance’ (vigilanza);
- ha usato la parola ‘alert’ (allerta), non dissimile, ma più neutra e con minori implicazioni;
- due volte ha usato l’espressione in codice ‘to monitor very closely’ (per monitorare da vicino) i prezzi;
- ha anche evitato la parola ‘appropriate’, riferita ai riferita ai tassi, che avrebbe rivelato l’intenzione di non toccarli;
- in compenso ha usato la parola ‘accomodative’ (accomodante), riferendola alla politica monetaria complessivamente intesa.
Secondo l'esperto che ha firmato l'articolo, è stata una comunicazione molto chiara, che lascia intendere che la BCE alzerà i tassi ancora in futuro.
E’ vero! Ma solo per l'esperto e per pochi altri conoscitori del modo di parlare di chi avrebbe l’obbligo della chiarezza e, invece, ‘vuole tenersi le mani libere e non vuole prendere impegni’. Per la gente comune è un linguaggio incomprensibile. Per questa gente le informazioni sull’andamento dei mercati finanziari - per come sono date, saranno tutt’altro che simmetriche, rispetto a quelle che hanno coloro (i padroni della finanza) che a quel linguaggio sono avvezzi.
ll tutto con buona pace del libero mercato e del liberismo.  

  

 
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I nodi vengono al petine.

Post n°91 pubblicato il 06 Aprile 2011 da smittino

1. A ridosso della crisi, che teoricamente è in via di estinzione, gli Stati e le Banche Centrali hanno inondato le Banche di liquidità perché non finissero come Lehman Brothers. Era implicito che, con gli aiuti ricevuti, queste mantenessero fluidi i canali del credito per far ripartire investimenti, occupazione, domanda, crescita, ecc.
Come previsto le, Banche, invece di riattivare il credito, hanno investito i fondi ottenuti nei più vantaggiosi titoli degli Stati, e oggi già si profilano le prime avvisaglie di un pericoloso cortocircuito che potrebbe essere l’avvio di una prossima crisi.

2. E’ notizia di questi giorni che le principali banche europee sono sotto esame: con il sistema dei cosiddetti ‘stress test’ le autorità di vigilanza vogliono verificare il loro stato di salute; vogliono, cioè vedere di cosa consistono i loro attivi patrimoniali e in che misura sono in grado di fronteggiare una nuova eventuale crisi. Per questo motivo stanno a turno ricapitalizzando. Ma siccome i privati non sono pronti a dar fiducia alla cieca, quasi certamente interverrà la ‘mano pubblica’. La quale, per intervenire, deve a sua volta indebitarsi. Il che significa che i debiti pubblici degli Stati, pressoché tutti, avranno una spinta all’insù.
Mentre tutto questo avviene, La Banca Centrale Europea (BCE) ha cominciato ad aumentare gradualmente i tassi d’interesse, allo scopo, si dice, di frenare per tempo l’inflazione che si accompagna alla timida ripresa in atto.
E’ davvero così? Per niente!  Anzi un aumento dei tassi d’interesse in questo momento potrebbe frenare una ripresa appena all’inizio. E, poi, un’inflazione del 2,5% circa non fa paura a nessuno, perché, in caso di peggioramento, ci sarebbe comunque tempo per porvi rimedio.
La verità probabilmente è un’altra. La BCE  - che, è vero, con la politica monetaria dovrebbe tenere sotto controllo i prezzi, cioè l’inflazione - al momento è su tutte le furie: se i debiti pubblici aumentano senza misura, innanzi tutto, prima o poi, trascinano l’inflazione; ma, alla fine, chi pagherà?
E non può restarsene ferma a guardare.
Per questo ha in cantiere una manovra dei tassi d’interesse, che dovrebbe durare per un bel po’ di tempo. Così ragionando: l’aumento dei tassi d’interesse, facendo aumentare gli interessi sui debiti pubblici, dovrebbe convincere gli  Stati a frenare la corsa all’indebitamento.
Vedremo se sarà così.

3. Sta di fatto che la corsa degli Stati all’indebitamento è pericolosa.  Ma in questo momento è pericoloso anche l’aumento degli interessi.  Perché anch’esso è un aumento del debito pubblico. Insieme potrebbero dar luogo al cortocircuito che si paventava all’inizio.

 
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Che fine ha fatto la globalizzazione?

Post n°90 pubblicato il 02 Aprile 2011 da smittino

1. All’inizio degli ’80 del secolo scorso, le “forti integrazioni  degli scambi commerciali internazionali, la crescente dipendenza dei paesi gli uni dagli altri e l’affermazione delle imprese multinazionali” (Vikipedia - 2.4.2010) ha dato luogo al termine ‘globalizzazione’.  Da allora, fino all’inizio della crisi recente  non con c’è stato un dibattito, un convegno, una discussione pubblica o privata, in cui la ‘globalizzazione’ non abbia fatto capolino a proposito ed a sproposito, e se qualcuno non se ne ricordava era considerato culturalmente inadeguato.
Personalmente penso che la scoperta dell’America, ed il mercantilismo che è seguito, siano state le prime forme di globalizzazione. Ma all’epoca, e per molto tempo ancora dopo, la parola non c’era, ed il fenomeno evidentemente è stato denominato diversamente.
Ma non facciamone una questione storica, o solo nominalistica.

2. IL punto è che, da quando la globalizzazione è diventata di moda come tale, paesi come l’Italia, ma non solo, hanno conosciuto nuove teorizzazioni in tema di liberismo economico e, soprattutto, di finanza (libera circolazione dei capitali), che hanno prodotto 'coplicazioni' di non poco conto.
Su questo secondo aspetto, per esempio, qualcuno dovrebbe ricordare ciò che è avvenuto nella prima metà degli anni ’70, sempre del secolo scorso, quando è stata varata la legge che - fra le altre cose - ha sancito il c.d. ‘divorzio ‘ fra Tesoro dello Stato e Banca d’Italia. Prima di questa legge, tutti i titoli (BOT, BTP, CCT) che il Tesoro non riusciva a collocare sul mercato  venivano comprati dalla Banca; con la nuova legge alla Banca è stato vietato di comprarli e per lo Stato e per gli Italiani sono state lacrime e sangue; inoltre i capitali sono stati lasciati liberi di andare per il mondo alla ricerca dei rendimenti migliori, depauperando il pese.
Quanto al neo-liberismo economico va ricordato che proprio in base alle nuove teorizzazioni  (“meno Stato e più mercato”), sempre in paesi come l’Italia, è stato svenduto il patrimonio pubblico (ENEL, POSTE, FERROVIE ecc.) ed è stato smantellato il controllo pubblico del credito. Tutto  è avvenuto sull’idea che:
a. i mercati liberi sarebbero stati  più efficienti  e, quindi, non avrebbero dato luogo a crisi;
b. la libera circolazione dei capitali avrebbe garantito la migliore allocazione degli stessi;
c. il divorzio avrebbe favorito il risanamento delle finanze pubbliche.
Le cose sono andate diversamente: c’è stata la crisi 2007 - 2009, i capitali sono diventati carta e il debito pubblico è passato dal 60-70% di allora al 120% di oggi.
Non mi sembra che occorrano altri particolari commenti su quello che è successo.

3. Forse proprio per effetto della crisi, la mitizzazione della globalizzazione e, con essa,  dei liberismo e della finanza, oggi  sembrano essere pallidi ricordi: nessuno più ne parla. Anzi, sembra che stia addirittura spirando il vento del protezionismo. In Francia da un po’ è attivo l’FSI (Fondo Strategico per gli investimenti), che ha il compito di intervenire per salvare aziende o settori in difficoltà e che, per questo, potrebbero stuzzicare gli appetiti dei capitali vaganti. In Italia si sta pensando di copiarlo, facendo assegnamento sul supporto, o sull’assunzione diretta, della Cassa Depositi e Prestiti, che ancora è per gran parte a capitale pubblico.
E’ possibile che ci stiamo un po’ sglobbalizzando?

 

 
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