Socialismo

Post N°60


..Il parere del CNELLo spostamento dai salari ai profitti .          Nella nostra tesi “il grande complotto” dei reaganomics, la polarizzazione della distribuzione dei redditi, il non aumento dei salari, l’attribuzione dei guadagni di produttività ai profitti piuttosto che ai salari, l’aumento della disuguaglianza provocano una stagnazione della domanda.         A tale stagnazione della domanda interna corrisponde in Italia la mancata crescita del Pil, mentre negli USA hanno messo in moto un sistema di drogaggio della domanda spingendo oltre ogni limite, con tecniche finanziarie di inaudita creatività, il credito alle famiglie che ha pompato la crescita fino al momento in cui la bolla è scoppiata mettendo in crisi l’economia mondiale.          Ma esaminiamo un po’ più da vicino gli elementi che consideriamo alla base della crisi italiana.         Riporto dal rapporto della 1° commissione del CNEL alcune considerazioni in proposito.         “Da molti anni in tutti i paesi avanzati c’è un forte fenomeno di redistribuzione, così la quota dei redditi da lavoro si riduce mentre cresce quella dei profitti. L’aumento della quota dei profitti è da considerarsi come un “nuovo scambio politico” tra dipendenti e imprese, nel quale la maggior remunerazione del capitale è una sorta di contributo straordinario che i dipendenti pagano alle imprese per consentire al sistema economico di organizzarsi e sostenere l’urto combinato delle nuove tecnologie e dei nuovi concorrenti del mercato globale.         Nel caso italiano si è avuta una forte crescita della quota profitti, ma il nostro problema non sta tanto nel fatto di tale aumento (che è un trend mondiale) ma nella inefficacia di tale aumento, infatti mentre negli altri paesi tale fenomeno ha inciso proporzionalmente sull’aumento del PIL, da noi gli effetti positivi non si sono visti, raggiungendo così il peggior risultato tra i paesi “avanzati” nella elasticità della crescita del PIL all’aumento della quota profitti.         Causa di ciò” è il fatto che l’aumento della quota profitti “ non è bastato ad assicurare che le imprese si riorganizzassero e si rafforzassero alla luce delle nuove tecnologie, del prezzo del petrolio, dei nuovi concorrenti.”         “Uno dei principali problemi macroeconomici evidenziati da questa analisi è che se un Paese procede alla riforma del mercato del lavoro, con effetti di raffreddamento della dinamica retributiva e flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, senza aver adeguatamente liberalizzato il mercato dei prodotti, e aver quindi ottenuto una adeguata pressione concorrenziale sui prezzi e margini, le conseguenze sulla distribuzione del reddito e sulla crescita saranno perverse poiché la quota del lavoro declinerà, le imprese protette acquisiranno margini per posporre l’impegno a migliorare la produttività e la dinamica dei prezzi rimarrà relativamente elevata. Si ariverà così alla EROSIONE DEL POTERE DI ACQUISTO DEI SALARI e quindi al rallentamento della domanda interna.         “Bisogna quindi arrivare ad una stabilità della distribuzione primaria del reddito nonché ad abbassare il livello della quota profitti poiché eccedente rispetto al normale funzionamento dell’economia: il Governo e la parte datoriale si dovranno impegnare nella riqualificazione e nella riorganizzazione degli ambienti di lavoro, con il sostegno e la partecipazione attiva del sindacato.”          Lo shift da salari a profitti quindi, partito come un nuovo compromesso neocorporativo tramite il quale i lavoratori dipendenti affidavano all’impresa maggiori profitti al fine di incrementare la loro produttività ha fallito il suo scopo causando conseguenze perverse: lo shift c’è stato ma le conseguenze sono state che da una parte sono ristagnati i salari e quindi i consumi, dall’altra parte le imprese non hanno fatto le innovazioni necessarie aiutate dal basso costo della mano d’opera e quindi incentivate a posporre l’impegno a migliorare la produttività.          Ma la sperequazione che si è e si sta realizzando nella distribuzione del reddito può essere evidenziata anche dai dati Mediobanca relativi ai bilanci di 1.828 imprese dell’industria e del terziario. Secondo questa rilevazione dal 1990 al 1999 il fatturato in termini monetari è cresciuto del 56%, il valore aggiunto del 44%, l’utile netto dal 413% e il costo del lavoro solo del 19%. Questi andamenti evidenziano l’entità della sperequazione distributiva tutta a favore dei profitti. Il che, potrebbe anche non essere negativo se una politica dei redditi equilibrata, impegnasse a investire tali maggiori profitti in investimenti che hanno la duplice positiva capacità di aumentare la produzione di beni d’investimento (in questa fase storica investimenti in ICT) e quindi aumentare occupazione e massa salariale, e d’altro canto contribuirebbero ad aumentare la produttività dei prodotti e dei processi, permettendo l’aumento dei salari a parità di clup (costo del lavoro per unità di prodotto). Al contrario l’aumento delle quote di profitto hanno indebolito la quota salariale e quindi la domanda per consumi interni, e si è tradotto in una crescita di investimenti finanziari, che sempre secondo i dati Mediobanca, sono cresciuti dal 1991 al 1999 del 412%, mentre gli investimenti tecnici sono cresciuti in termini monetari del solo 7% (praticamente in termini reali si sono contratti).          Tale spostamento verso gli investimenti finanziari è frutto di tre componenti:a)     Culturale. Non è forse la stessa politica della Comunità europea e di molti stati membri a sostenere indirettamente l’idea che il lavoro produce poco valore aggiunto mentre i capitali (in particolare quelli finanziari) possono contribuire maggiormente allo sviluppo del Paese?b)    Redditività. In effetti, finchè è durato il ciclo positivo la redditività degli investimenti finanziari è stata maggiore di quella degli investimenti in produzione. Si pensi che l’indice Dow Jones per la borsa di New York è cresciuto dal 1979 al  2007 da 1000 a 14.500c)     Le politiche fiscali favoriscono smaccatamente l’investimento finanziario. I profitti reinvestiti in azienda sono tassati da Ires ed Irap (27,5 + 3,90 = 31,4%) il  40% del dividendo residuo (100-31,4 = 68,6; 68,6 * 40%= 27,44) è assoggettato a irpef  ad aliquota progressiva (max 40%) 27,44 *,40= 11 per un netto di 68,6-11= 57,6. Un investimento finanziario è tassato alla fonte per il 12,5 con un netto di 87,5.   ..Renato Gatti  Dottore Commercialista- esperto in economia aziendale