Socialismo

Sulle teorie del valore


 
   Perché una cosa vale quello che vale? E come fa una cosa ad aumentare di valore? A queste domande hanno cercato di rispondere gli economisti con diverse teorie, fondamentalmente due: quella del “valore-lavoro” e quella del “valore di mercato”.             Adam Smith, Ricardo e Marx            Questi economisti classici hanno elaborato la teoria del valore-lavoro secondo la quale il valore di un bene è pari al lavoro che a detto bene è stato applicato direttamente ovvero indirettamente utilizzando altri beni o macchine.            Adam Smith è il primo che arriva a questo risultato attraverso una serie di passaggi logici, a volte soltanto impliciti, in cui ogni merce prodotta è collegata alla quantità di lavoro direttamente necessaria a produrla e ad un insieme di merci utilizzate nella sua produzione; queste ultime sono a loro volta ridotte a quantità di lavoro e ad un insieme di quantità fisiche di mezzi di produzione. L’operazione è ripetuta diminuendo a ciascun passaggio il residuo di mezzi di produzione prodotti. In questo modo il sistema economico è visto come un insieme di settori che collegano i fattori originari ai beni di consumo finali.            Ricardo si chiede tuttavia del perché se ogni componente immesso in un prodotto è stato scambiato con un fornitore (di merci, di servizi o di lavoro) pagando un corrispettivo equivalente, la somma dei costi pagati sia inferiore al ricavo ottenuto. Se cioè tutti i componenti di un prodotto (terra, capitale, lavoro) sono stati pagati al loro valore equivalente (ivi compresa la valorizzazione del lavoro dell’imprenditore) non si capisce perché il ricavo, che un altro scambio con equivalenti sia maggiore della somma dei componenti.            Marx risolve l’interrogativo di Ricardo osservando che Ricardo confonde l’equivalente del lavoro con il salario, mentre se mettesse al posto del salario il valore del lavoro l’equazione tornerebbe; il plusvalore del ricavo sui valori degli equivalenti (valorizzando il lavoro come salaria) è la fonte del differenziale che Ricardo cercava. Poiché L (lavoro) è pari a s (salario) più p plusvalore (prodotto dal lavoratore ma di cui si appropria il capitale) nella formula ricardiana:   1. 0   t (terra) + c (capitale) + s (salari) < r (ricavo)basta sostituire a s il valore di L ovvero aggiungere il valore di s per risolvere l’equazione:1.      1  t + c + L = t + c + s + p = rLa teoria del lavoro-valore è quindi la teoria classica che si oppone al valore quale “valore di mercato”. Si noti che secondo questa teoria un bene, un prodotto, non può cambiare di valore; gli addendi sono quelli e la somma è immutabileAttenzione tuttavia al fatto che il valore lavoro incorporato in un bene non è quello effettivamente incorporato ma quello socialmente necessario, determinato dal livello tecnologico in essere. Ecco che un bene prodotto con vecchie tecnologie può perdere valore a causa di una minor quantità di lavoro socialmente necessaria inclusa nel valore del bene.Il valore di mercatoGià Marx, nei suoi studi aveva distinto il valore d’uso dal valore di scambio, quel valore cioè che si generava nell’economia di scambio, dove invece il valore era dato dall’incontro tra domanda e offerta. Certo l’offerta non avrebbe mai accettato un valore di scambio inferiore al “valore-lavoro” ma la prevalenza della domanda sull’offerta può portare ad un valore di scambio superiore al valore-lavoro.Quindi secondo questa teoria un bene, un prodotto può cambiare di valore a seconda dell’intensità dei rapporti tra domanda e offerta. Secondo i marginalisti all’aumentare del prezzo i venditori sono disponibili a offrire maggiori quantità di beni (anche i fornitori meno efficienti possono trovare conveniente vendere a prezzi più alti); al diminuire del prezzo aumentano i consumatori con potere d’acquisto inferiore e quindi aumenta la domanda. L’incontro tra le due curve, una discendente ed una in salita individuerà il punto di equilibrio rappresentato dal “valore di mercato”.  Secondo questo assunto il “vero” valore è il  valore di mercato, mutabile nel tempo e determinato dalla libera concorrenza tra produttori e consumatori. (Ci sono “eccellenti eccezioni”, ad esempio Alitalia ha ceduto i suoi assets a Cai a valori di mercato. Peccato che il successivo articolo di legge definisse come “valori di mercato” quelli determinati dalla stima di una banca, tra l’altro posseduta, in parte, dal compratore).L’ossimoro del valore di mercatoQuando si parla di bolla speculativa ci scontriamo con un ossimoro di impossibile soluzione filosofica. Se il vero valore è per definizione “il valore di mercato”Se la definizione di bolla speculativa è quella per la quale il valore di un bene è eccessivamente sopravvalutato rispetto al “valore vero” Allora per sostituzione si afferma che “in presenza di bolla speculativa il valore di mercato (che è il valore vero) di un bene è eccessivamente sopravvalutato rispetto al “valore vero” (che è il valore di mercato”. La contraddizione è evidente.Riportiamo dall’ultimo libro di Padoa Schioppa quanto l’autore afferma al proposito a pagina 50.“Nella finanza la forza del vero può essere temporaneamente soverchiata dall’inverarsi del falso, cioè dell’opinione prevalente. Ciò accade, del resto, anche in altri campi della vita sociale, in particolare della politica , dove la manipolazione è di casa. La bolla si esaurisce quando la forza del reale si è imposta alla prepotenza del virtuale, quando il rapporto tra il vero e ciò che – a torto- è ritenuto vero si è finalmente rovesciato. A un certo punto ciò che è vero prende il sopravvento su ciò che si ritiene vero: la realtà piega l’opinione fallace”.Si sarà capito che il falso, ciò che non è vero è il valore di mercato e che ciò che è intimamente vero – la realtà- non si sa cosa sia. Qual è quel valore vero più vero del valore di mercato?La domanda resta senza risposta, o Padoa Schioppa pensa al valore-lavoro?La filosofia contabileLa filosofia contabile statunitense, responsabile tra l’altro della crisi del 2007, è talmente convinta del “valore di mercato” che ha stabilito, a suo tempo, che i titoli finanziari debbono essere valutati al loro valore di mercato del momento in cui si redige un bilancio. E’ il principio “mark to market”. Per la legge italiana invece i titoli finanziari vanno valutati al loro costo di acquisto e svalutati al minor valore di mercato in presenza di permanente perdita di valore.Non vi è dubbio che in momenti di crescita delle borse (11 anni consecutivi fino al 2007) chi adotta il “mark to market” come criterio contabile realizza plusvalenze che, come dicono quelli i cui bonuses dipendono dal valore dei titoli, “creano valore per l’azienda”. Un concetto strano quello della “creazione del valore”, degno di un paese che si oppone a Darwin in favore al creazionismo. Chi invece adotta il codice civile italiano (e i criteri europei) non può realizzare plusvalenze ma prudenzialmente deve registrare perdite in caso di svalutazioni permanenti.Oggi in tempo di crisi, gli accountants statunitensi prendono atto che le aziende che avevano a loro tempo rivalutato i titoli al loro “fair value” sono costrette a registrare enormi perdite per allinearsi al nuovo, catastrofico “mark to market”. Ma, pragmatici come sono, si sono inventati una nuova regola e cioè che se per almeno il 51% non è intenzione del possessore di vendere i titoli svalutati, la minor valutazione,  sarà imputata ai “retained earnings” (ovvero agli utili degli anni precedenti) fino all’importo della rivalutazione allora fatta e a conto economico per l’eventuale ulteriore svalutazione. Un trucchetto, cui gli europei si oppongono, ma non Tremonti, per fare apparire la questione un po’ meno peggio di quanto sia.Il fatto è che in questi giorni lo Sfas (Standard financial accounting statement) 115 permette alle aziende americane di non portare a conto economico ciò che l’europeo Ias (International accounting standard) 39 obbliga invece di fare.Le considerazioni finaliDopo che Pigou ha introdotto la psicologia nell’economia, una rivoluzione simile a quella in cui la statistica è diventata parte essenziale della fisica quantistica, l’economia ha perso le sue certezze ottocentesche.Pare comunque che il capitalismo non abbia alla sua base categorie ben definite; anzi con la categoria “valore” evidenzia una contraddizione a quanto pare insanabile.Non è che con ciò abbiamo superato il capitalismo e nel nostro piccolo fatto la nostra rivoluzione. Ma i soloni del liberismo dovrebbero fare una riflessione sulla fragilità della loro dottrina.  Renato Gatti