Socialismo

Tutto come prima? Una riflessione sul "general intellect"


  La crisi che stiamo attraversando pare essere percepita come una parentesi passeggera in quello che era il migliore dei mondi possibili. Non serve che analisti ed economisti sostengano che “tutto non sarà più come prima”, che il modello iperliberistico abbia dimostrato tutti i suoi limiti, che non si intraveda un modello alternativo ma solo correttivi contradditori. Le coscienze del sentire comune non si rendono conto della situazione in cui ci troviamo. Anche nel mondo degli intellettuali c’è molta analisi sulla crisi irrimediabile della sinistra, e non, invece un’analisi di questa crisi del capitalismo e sulle sue devastanti conseguenze.Viene sottovalutato ciò che sta succedendo negli Stati Uniti, dove i tre colossi dell’automobile stanno miseramente fallendo, cosa impensabile solo qualche mese fa. L’automobile, lo status symbol del secolo scorso trascina nel suo fallimento il sogno americano.Il feticismo delle merci ha raggiunto il suo apice. Il valore di scambio ipostatizzato nella sua essenza metafisica, lo strumento finanziario, ha svolto per un ventennio la sua dittatura scardinando ogni rapporto sociale e ricreando una nuova forma di schiavitù. Ma la schiavitù dei lavoratori è percepita come naturale, come scritta nelle leggi della natura e non come conseguenza del modello capitalistico. Ma se ora quel modello è in crisi, non è il momento di chiedersi come farlo evolvere, come sostituirlo?Le preoccupazioni della borghesia sono rivolte alla coesione sociale; Sacconi rivendica come “preveggenza” l’aver introdotto gli ammortizzatori sociali a crisi avanzata, e non si rende conto del grave ritardo rispetto al momento in cui avrebbero dovuto essere introdotti ovvero al momento dell’’approvazione della legge così detta Biagi. I fatti di Torino e altri sintomi preoccupano, ma se da una parte vanno condannati, dall’altra parte non si può che dire che chi è causa del suo mal pianga sé stesso.Sacconi ancora sostiene che la “moderazione salariale” del protocollo Ciampi del 1993 ha portato a questi livelli salariali e a questa crisi da domanda (caro Lanfranco, Sacconi ha ribadito che la nostra è crisi da domanda). Ma Sacconi ha nascosto quello che sosteneva il CNEL: il trade-off, lo scambio politico del protocollo era tra moderazione salariale e reinvestimento dei conseguenti profitti in tecnologia e produttività. Ma gli imprenditori, i fannulloni al cubo, invece di reinvestire in tecnologia e produttività (complice la soppressione della DIT) hanno investito in derivati finanziari, facendo fallire quel compromesso politico e portandoci a questo punto.E vorrebbero ancora comprensione e solidarietà, per il bene del paese, per gli interessi supremi della nazione? Certo che non avranno da noi nessuna comprensione e nessuna solidarietà.Non imboccheremo certo la strada della violenza, ma quella della proposta dialettica sarà il nostro diuturno impegno.La mala distribuzione generata dal comportamento degli imprenditori non va combattuta solo con riduzione di imposte e di contributi: vanno aumentati i salari! Non certo con un atto legislativo e non certo con un aumento nominale riassorbito dalla inflazione, ma proponendo un modello di gestione dell’economia dove il lavoro sia al centro e non una componente residuale delle decisioni altrui.Quote di profitto distribuito ai lavoratori non risolvono il problema, ma marcano ancor di più la subalternità del mondo del lavoro alle decisioni di un mondo altro da sé. La sussistenza del mondo del lavoro verrebbe così a dipendere dalla capacità (o meno) degli imprenditori di essere all’altezza del compito sociale cui sono stati chiamati. La loro incapacità si riverserebbe ancora una volta in più sul mondo del lavoro.Siamo noi che dobbiamo avere una proposta, che dobbiamo essere sul campo per rilanciare (sfidando lo scetticismo di M. Salvatori) la sfida socialista.Da dove partire? Su cosa riflettere? Mettere la scienza al centro del modello di sviluppo.Questo che è il punto centrale della mia proposta richiede una citazione autorevole che sta a monte del mio ragionamento e della mia proposta: mi riferisco ai Grundrisse di Marx.Nei Grundrisse, affrontando il tema della produzione industriale avanzata il filosofo di Treviri  abbozza un superamento delle categorie smithiane – terra, capitale e lavoro – considerando che nella produzione moderna l’intervento del sapere, le conquiste della scienza, la diffusione dei saperi trasformano il modo di produzione facendolo dipendere da un nuovo fattore produttivo che è il general intellect, che si presenta come il maggior fattore produttivo moderno.L’operaio non è più l’agente principale della produzione ma si pone a fianco del processo stesso come sorvegliante e regolatore. “Non è né il tempo di lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e del dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale, in una parola è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza.”Al di là delle elucubrazioni sociologico-ideologiche che i vari Braudel, Guattari e Negri hanno fatto di questi passaggi negli anni 70, tra le quali la ricerca di tempo libero come risultato rivoluzionario del macchinismo, quando invece assistiamo alla detassazione degli straordinari e l’autorizzazione dell’ Europa a lavorare sino a 60 ore. Al di là delle categorizzazioni dei sociologi,   rimane l’affermazione materialistica di Marx: “Il furto del lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna (quella dei suoi tempi) si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa”.In pratica, fatte le dovute riflessioni, il salto quantico che propongo come linea per il pensiero socialista, è quello di porre come soggetto centrale della nostra politica il nuovo lavoro, scientifico, qualificato, attore della produttività, considerando i lavoratori non “scientifici” come un residuo del vecchio modello di produzione oggetto di emancipazione non certo di fungere come classe generale.L’obiettivo in termini marxiani è quello di prendere coscienza che l’operaio scientifico “nel cui cervello risiede il sapere accumulato dalla società” rappresenta un nuovo protagonismo nel processo produttivo, evitando che la scienza sia sussunta dal capitale diventando sapere morto incluso, incapsulato nelle macchine.Il fatto  è che gli sviluppi scientifici non si trasferiscono nel prodotto lavorato, se non come aumentata produttività, ma rimangono nel cervello di chi quello sviluppo scientifico ha pensato, rimangono cioè come valore d’uso del lavoratore collettivo scientifico.Nel momento in cui si va alla rideterminazione dei contratti di lavoro, che Confindustria vorrebbe trasformare in contratti individuali, con la protezione del nuovo clima politico, va ribadito un nuovo protagonismo dei lavoratori scientifici come punto di riferimento per i nuovi contratti. E molto del mondo precario, delle partite iva vanno ricondotte a questo soggetto di riferimento.Insomma in un momento di crisi del capitalismo, di crescente peso della scienza nella battaglia per la competitività, occorre trovare un referente nuovo del protagonismo della classe del lavoro. Negli anni 70, con la lotta per la “prima parte dei contratti” si tentò un salto di questo tipo, con la politica dell’EUR. Oggi il nuovo salto quantico si ripresenta  come superamento di un certo garantismo sindacale, di tutela assistenziale con aspetti di sindacalismo compassionevole e come nuovo protagonismo nella lotta di classe. Renato Gatti