Socialismo

Economia e secessionismo


 Ci sono cose molto condivisibili nell’articolo di Vincenzo Russo a proposito della nuova presa di posizione leghista sul costo della vita nel Sud e sull’auspicato ritorno alle gabbie salariali.            Come al solito l’approccio leghista è gretto e perentorio; il declino culturale del nostro Paese ha le sue radici nel rifiuto dell’analisi e nelle soluzioni cieche, pronte ed assolute. Il gusto del ragionamento, del convincere e farsi convincere, dello sviscerare problemi e questioni, nell’evidenziare contraddizioni e anomalie è un piacere che si è perso, travolto dal volgare “marketing elettorale” che ha contagiato e  distrutto il tessuto democratico di questo Paese.            Se Bossi a Pontida dichiara che “La vita al nord è più cara che al Sud. Questa estate la Lega si batterà per i salari legati al costo della vita. Abbiamo preso il federalismo e ora è questa la battaglia che vogliamo fare” occorre analizzare uno per uno questi elementi.            “La vita al nord è più cara che al Sud” è un’affermazione testimoniata da una recente rilevazione fatta dall’Istat che ha calcolato nel 16% il differenziale tra i due indici. Ciò che Bossi non fa è di chiedersi il perché di ciò e cosa può fare lui, che è ministro della Repubblica per ridurre questo gap, posto che lo voglia fare. Ma poiché questo non pare il suo obiettivo c’è da pensare che il suo scopo, antico e mai accantonato, sia quello di evidenziare ancora di più le differenze per puntare alla secessione del Nord. Bossi infatti ed intelligentemente non auspica una riduzione dei salari al Sud (cosa che Confindustria si è precipitata a proporre) ma un aumento dei salari al Nord! Proposta che nel “marketing elettorale” vale parecchi voti. Andando però a scavare tra i dati pubblicati, si scopre che la maggior componente di questo differenziale è dovuto al costo della casa. Le cause di questo differenziale sono tante (qualità dell’abitazione, abusivismo e speculazione, morfologia dei centri abitati, servizi pubblici connessi, affollamento abitativo etc).  Non su tutte può intervenire l’azione del governo, ma su alcune cause la politica può e dovrebbe fare molto. Un primo punto è quello dell’edilizia economico- popolare, abbandonata da un ventennio e solo di recente ripresa dal governo Prodi e che il governo Berlusconi ha ridotto di un fattore da 5 a 3. Nel passato, vedasi l’esempio di Roma, l’alleanza tra governo locale e palazzinari ha privilegiato l’edilizia privata rispetto a “fanfaniani” piani di edilizia pubblica.Un secondo punto consiste nel rendersi conto che il costo casa è enormemente influenzato dalla rendita ricardiana. Non è vero che il prezzo di mercato è indiscutibile. Adam Smith stesso parlava di un prezzo basato sul valore-lavoro (ivi incluso il lavoro dell’imprenditore) più un giusto compenso per il capitale. Tutti i superprofitti speculativi non guadagnati ma frutto dell’”income by appropriation” sono errori del mercato e cause prime delle bolle speculative e della fragilità dell’iperliberismo. L’ossimoro della definizione di bolla (quando il prezzo di mercato è più alto del prezzo vero, ma il prezzo vero è quello di mercato)  è lì a testimoniare la necessità di un ritorno alla teoria valore-lavoro, o a logiche diverse da quelle del pensiero unico che ha egemonizzato la cultura economica negli ultimi anni.  Ci pensò, anni fa, Fiorentino Sullo, ci hanno pensato le grandi cooperative tedesche, i grandi piani di edilizia popolare. Tutti tentativi di un pensiero “anticapitalistico” sbaragliati dal ventennio turbocapitalistico, ma che potrebbero e dovrebbero tornare a riavere una loro legittimità dopo il fallimento dei “subprimes”.Ma Bossi non è uno che guarda a queste sottigliezze, gli preme di più lanciare il messaggio che l’attuazione del federalismo fiscale farà cessare ogni velleità perequativa, ma sarà l’occasione di una revanche dei nordisti.Ecco quindi che il “teorico” del governo Berlusconi fa una affermazione storica “Questa estate la Lega si batterà per i salari legati al costo della vita”.  Questo sarebbe un ritorno inatteso alla “scala mobile”. Ricordo la battaglia di Craxi con il decreto di san Valentino, il referendum proposto e perso dal PCI in difesa della “contingenza” (e per il PCI fu l’inizio di una involuzione anche se in verità il PCI si batteva contro l’ingerenza del governo in fatti sindacali, ma nella sostanza era un arroccamento corporativo). Ora che anche la sinistra si è convinta che il metro del salario non è il costo della vita ma la produttività, il senatore padano ribalta tutto.Non ribalta però l’idea che debba essere l’esecutivo a determinare per legge, o comunque autoritariamente, i livelli delle retribuzioni, disconoscendo quindi ogni valore non solo alle libertà sindacali ma al meccanismo stesso del mercato. La proposta di Bossi richiama alla mente il “salario di sussistenza” di marxiana memoria e non ci sarà da stupirsi se l’imprenditoria provinciale e familistica che rappresenta buona parte dell’imprenditoria del nostro paese, comincerà a cavalcare questa battaglia. Il poujadismo della Lega è la forza di questo partito ed è la causa prima del declino progressivo del nostro Paese.Bene quindi, come fa Vincenzo Russo, auspicare che i sindacati, accantonata una sterile divisione, si muovano per una strategia comune che non riguarda solo il problema del Mezzogiorno, ma riguarda soprattutto il problema della produttività, bandiera del riformismo socialista e strumento di emancipazione protagonista del mondo del lavoro.Bossi non dice che già ora il costo del lavoro nel Mezzogiorno è circa l’81% del costo del lavoro del Centro-Nord; parametro che non a caso è lo stesso relativo alla produttività (con l’eccezione del lavoro pubblico che ha costo omogeneo al Sud come al Nord). L’abbaglio, strumentale, che Bossi cavalca ignora il tema della produttività, che è l’elemento cardine e dove il nostro paese continua ad essere maglia nera.Travolti dal populismo, dal pressappochismo e dalla superficialità strumentale, ci avviamo ad una lenta eutanasia di valori, di pensiero, di vita democratica all’insegna dello sfascio.  Renato Gatti