Socialismo

LETTURA POLITICA DELLA CRISI ECONOMICA ATTUALE (parte prima)


.La lettura dei giornali ed i dibattiti che si susseguono sulle reti televisive evidenziano un fatto strano: la grave crisi economica che stiamo attraversando è il frutto amaro delle politiche della destra, ma nessuno sembra volerlo chiarire e denunciare. Non lo denuncia neppure una larga parte della sinistra, e i molti liberal o pseudo tali, volti piuttosto ad ammonire che ora non è tempo di trovare le colpe, ma di cercare le soluzioni. Fingendo di dimenticare che, senza un’approfondita analisi tecnico-politica di ciò che avvenuto e del perché è avvenuto, si rischia di affidare le soluzioni della crisi agli stessi che l’hanno determinata. E ciò non è proprio la soluzione migliore. O, forse, è proprio perché una parte rilevante della sinistra si è fatta, in questi ultimi anni, troppo sedurre dal pensiero neoliberista allontanandosi, in modo pericoloso, dai propri valori e dalla propria cultura. Sarà bene rifletterci perché, se è vero che la storia non si ripete mai eguale, è però vero che essa insegna molto per affrontare l’oggi ed il domani. La crisi economica attuale è il risultato delle scelte politiche avviate negli USA, verso la fine degli anni 70. In quegli anni, stavano attraversando una grave crisi economica, ma soprattutto d’immagine. Con il presidente Carter erano ridicolizzati nell’Iran di Komeini ed in difficoltà in molti altri paesi dell’Africa e dell’America latina e, sotto il profilo economico e dell’innovazione tecnologica venivano superati dal Giappone e dai paesi asiatici. I potentati economici e militari di Washington ritenevano che questa “crisi” americana fosse il risultato delle politiche deboli ed arrendevoli dei presidenti democratici che avevano indebolito le istituzioni e lo spirito americano e, con il supporto di economisti di politologi e di grandi reti televisive di destra, decisero di passare al contrattacco, di rilanciare il patriottismo americano e di ritornare al liberismo più puro, liberando i famosi “spiriti animali” del mercato come unico motore dello sviluppo; liberando l’America da tutti quei lacci e lacciuoli dell’intervento dello Stato che, a loro parere, non avevano fatto altro che indebolire l’immagine forte del popolo americano. Si incominciò così con Reagan nel 1980 in America e con la Thatcher, l’anno prima, in Gran Bretagna, proclamando che lo Stato non era la soluzione dei problemi ma era esso stesso il problema, con i suoi costi e la sua invadenza burocratica e solo il ritorno al libero mercato, liberato da ingerenze stataliste, e soprattutto dalle tasse, avrebbe rimesso in moto l’economia, portato ricchezza a tutti e ad una nuova stagione di potere per il mondo occidentale ed anglosassone in primis.  Si resero tuttavia subito conto che riducendo le tasse, per lanciare l’economia, e non aumentando i salari, per rendere competitive le imprese americane, si sarebbe sottratto allo Stato la sua funzione di ridistributore di reddito, attraverso i servizi dati alle persone, e ciò avrebbe portato a far perdere il consenso anche dei propri elettori. Sulla spinta di influenti economisti, fautori del libero mercato, decisero allora di spostare la funzione di “ridistributore di reddito” dallo Stato al sistema bancario, spingendo le banche ad una massiccia politica di concessione del credito oltre ogni corretto limite di garanzie.   Il sistema bancario, conscio dei rischi che ciò comportava ma anche attratto dai lautissimi guadagni, chiese in controcambio di una simile operazione, piena di rischi, di poter operare con maggiori libertà e minori controlli, per non assumersi la totale responsabilità di crediti non sempre garantiti e la ottenne attraverso un minor controllo delle autorità centrali sulle operazioni finanziarie e attraverso la messa sul mercato di nuovi prodotti finanziari che, in modo molto poco trasparente, miscelavano e trasferivano il rischio enorme dei debiti non garantiti (i famosi titoli tossici) non sulla singola banca ma su più soggetti (dispersione del rischio) e, attraverso il mercato finanziario e borsistico, sugli stessi cittadini.  Iniziò così l’epoca di un’enorme follia economico-finanziaria dove tutti sembravano avere un qualche interesse. Le banche d’affari, e soprattutto i loro dirigenti, guadagnando somme enormi attraverso l’agio sulle transazioni, avevano interesse a far girare sempre più soldi. Le imprese ottenevano facile credito perché da un lato i consumi di beni, ed in particolar modo di beni superflui, e di immagine più che di sostanza, aumentavano a dismisura in una sorta di edonismo consumistico, dall’altro lato le buste paga dei loro lavoratori restavano sostanzialmente invariate mentre il loro potere di acquisto veniva fasullamente incrementate con il facile credito (credito facile in cambio di aumenti di salario). Così i lavoratori, drogati dal facile credito, diventavano a poco a poco solo consumatori e, circolando molto danaro a credito, si interessavano meno all’andamento dei loro salari effettivi che o aumentavano di poco o, messi in crisi dalla delocalizzazione delle loro imprese, non aumentavano affatto. Ma tutto era a credito garantito non da ricchezza solida ma da una bolla enorme di cambiali, spesso garantiti dal valore di immobili che erano anch’essi gonfiati. Tutto insomma era diventato una sorta di inconscio ultimo ballo sul Titanic al quale erano stati ingannevolmente chiamati anche i passeggeri di seconda e terza e quarta classe. Così la ruota della nuova economia turbocapitalista si rimise a girare in modo sempre più frenetico, per quasi trent’anni, distribuendo ricchi profitti a pochi e finta ricchezza ai più (perché a credito); convinse tanti della sua bontà, compresa una parte importante della sinistra europea, come Blair e Schroeder e in Italia gran parte della dirigenza dei Ds, che, temendo contraccolpi elettorali – la gente voleva sempre più consumi per sentirsi ricca, altroché prediche - abbandonarono i fondamentali della cultura socialdemocratica (solidarietà, comportamento rigoroso, economia sociale di mercato, ferreo ruolo dello Stato nel regolare l’economia e distribuire il reddito, chiara connotazione a difesa dei lavoratori quale parte più debole della società, mantenimento sotto il controllo dello stato dei beni pubblici primari, ecc.) e cominciarono a parlare di terza via socialista che altro non era se non l’accettazione della nuova ondata liberista del meno stato e più mercato.  Pochi si avvidero subito che un grande processo di trasformazione profonda, antropologica, del mondo occidentale era oramai avviato: al rigore, alla coscienza del rischio, al passo non più lungo della gamba, allo sviluppo lento ma graduale basato su beni utili e durevoli era subentrata l’ideologia di uno sviluppo frenetico dove il lavoratore dipendente trasformandosi sempre più in semplice consumatore perdeva il proprio radicamento classista la propria cultura identitaria e diveniva sempre più preda del moloc consumista. Il capitalismo si stava trasformando in un “Mostro mite” come più nel 2008 lo definì, nel titolo di un suo bel libro, Raffaele Simone. Caduta la cortina di ferro e scioltasi nel 1991 l’URSS, il turbocapitalismo è ora pronto ad invadere il resto del mondo perché esso ha bisogno di continuamente espandersi per non mostrare il suo bluff iniziale di una finta ricchezza costruita sul debito che alimenta debito, e rovinare, dunque, su se stesso.  E la Sinistra dove era?Già nei primi anni ’70 non a caso un poeta, per quella strana capacità dei poeti di anticipare i tempi, Pasolini, in uno scritto nel quale cercava di chiarire il senso e la profonda differenza tra i termini di “sviluppo” e “progresso” aveva preconizzato i grandi rischi cui si avviavano i partiti di sinistra per la loro insufficienza a comprendere le ideologie che si celavano dietro a semplici termini come sviluppo e progresso spesso usati come sinonimi. Se lo sviluppo - che in quanto semplice risultato di produzione e consumo di merci è proprio della cultura della destra perché funzionale ai produttori – finirà per attrarre nella sua orbita - che è ideologia consumistica - i lavoratori senza essere accompagnato, per insistente lavoro culturale della sinistra, dal “Progresso” – che in quanto nozione ideale (politica e sociale) è propria della sinistra -, allora per la sinistra diverrà difficile recuperare il tempo perduto perché l’ideologia consumista, insita nello sviluppo, con il suo offrire qui e subito beni di consumo e finta ricchezza, avrà di fatto messo in ombra l’idea di progresso come idea di classe. Ma indubbiamente era difficile per chi non era poeta, come Pasolini, ma politico (che ragiona quindi nei termini brevi dei tempi elettorali), intuire già allora la gravità della rivoluzione antropologica che la destra stava, volutamente, mettendo in atto e contrastare quella cultura che generava uno sviluppo che pareva inarrestabile, in un processo di continua “distruzione creatrice” secondo la felice definizione di capitalismo data da Schumpeter. Ma non era però neppure impossibile se, già nella prima metà degli anni ’90, un economista francese, Michel Albert, commissario al Piano francese con Mitterand presidente e accademico di Francia, scriveva un libro (Capitalismo contro capitalismo) per spiegare che il futuro del mondo si sarebbe deciso non nello scontro tra capitalismo e comunismo, come ancora gran parte della sinistra si attardava a pensare, ma tra il neocapitalismo conservatore americano di Reagan, fondato sui valori individuali, la massimizzazione dei profitti a breve termine, lo strapotere dei mercati finanziari e il modello di capitalismo europeo, basato sull’economia sociale di mercato, il consenso sociale e le prospettive finanziarie a lungo termine.  L’ondata liberista, che sembrava allora così vincente da impedire di valutare gli inganni ed i rischi su cui si fondava, fece si che pure a sinistra, da parte di chi teneva il potere all’interno dei partiti di sinistra, si incominciò a ritenere che il socialismo aveva esaurito la sua spinta propulsiva ed era oramai incapace di dare risposte ai nuovi bisogni - ideologia obsoleta del secolo passato si dirà ad un certo punto – e che dunque altro non restava che accettare la libera cultura del mercato come vincente e cercare solo di ridurne le maggiori asperità: imitarla nella riduzione del potere dello Stato, nell’adeguarsi alla cultura individualista e della meritocrazia individuale a scapito di quella collettiva, nella riduzione delle tasse, nella privatizzazione di tutti i beni anche di quelli che erano alla base dei principi di solidarietà o che garantivano forti entrate per lo Stato.  Privatizzare fu lo slogan anche di molta parte della sinistra e vetero comunisti e vetero socialisti furono considerati i fautori della difesa del modello sociale europeo. Anche se ancora nel 2004 studiosi di economia sociale come Rifkin, da americano, giravano il mondo per spiegare come “il sogno europeo”, titolo di un suo libro, basato sull’economia sociale e sul consenso fosse molto più attuale e vincente, rispetto al sogno neocapitalista americano, perché più morale agli occhi del mondo globalizzato. Il non essersi sufficientemente fermati ad analizzare questi processi non ha consentito per tempo, alle sinistre, di comprendere ciò che stava avvenendo nel capitalismo anglosassone e comprendere meglio i valori del modello socio-politico-economico europeo, realizzato in gran parte in Europa, dopo la seconda guerra mondiale, con il determinante contributo dato dalla socialdemocrazia a partire dal suo ri-fondativo congresso del ’59 a Bad Godesberg. Ma a sinistra sembravano prevalere i fautori della terza via, gli ideologi del tramonto delle ideologie del ‘900 e del valore della contrapposizione tra destra e sinistra e che, in nome di ciò, predicavano il superamento delle ideologie, a partire da quelle della sinistra, fingendo di non accorgersi che invece la destra era tutt’altro che tramontata, ma ben presente e sempre più vincente. Lo scoppiare della crisi economica trova dunque gran parte della sinistra non solo totalmente impreparata sotto il profilo culturale ed ideologico a contrastare il processo culturale e politico che sta alla base della crisi, e che è processo di destra, ma addirittura in parte corresponsabile o comunque tiepida nel denunciare quel progetto, per aver troppo presto abbandonato i suoi valori e le sue pratiche.  Non si spiegherebbe in altro modo l’insistenza, anche da parte di autorevoli  esponenti della sinistra, nel voler confinare le cause della crisi all’interno di sole tecnalità finanziarie o nella scarsezza di regole del mercato finanziario o, peggio ancora, nella sola presenza di pochi manager avidi o di farabutti come Tanzi in Italia o Madoff in America, anziché cercarne le cause politiche.  Due posizioni appaiono prevalere a sinistra. Una rilevante parte della dirigenza della sinistra, per lo più autodefinitasi riformista, in Italia come in Gran Bretagna ed in Germania, non vuole ammettere di aver sbagliato nel non vedere  che tutto ciò che sta ora accadendo sulle economie mondiali è il frutto dell’esplosione fallimentare, prevedibile, di un enorme processo politico e culturale messo in atto dalla peggiore destra capitalistica americana che si era posta l’obiettivo di sconfiggere non solo il comunismo sovietico ma anche  quello che per essa era il pensiero debole dell’occidente rappresentato dal modello socialista europeo. E per batterlo aveva scelto la via ad essa più consona: dimostrare la superiorità del modello individualista e del totale libero mercato su ogni pretesa di solidarismo e di mercato sociale. Per farlo doveva procedere ad una vera e propria rivoluzione culturale che, attraverso il forte coinvolgimento dei mass media (giornali ma soprattutto televisioni e cinema che imponevano i nuovi modelli culturali) la finta ricchezza del facile credito l’esplosione dei consumi individuali spesso superflui eliminando i consumi ed i servizi collettivi a favore di quelli individuali (automobili anziché treni), trasformasse antropologicamente i singoli cittadini, di tutto il mondo, in folli consumatori e produttori, prigionieri di una grande giostra (creativa e distruttiva) dalla quale era però vietato scendere pena l’arresto di tutto il sistema. Scardinare il solidarismo collettivistico insito nel pensiero non solo comunista, ma anche socialista, era il grande obiettivo di Reagan, della Thatcher e dei loro successori. L’altra parte minoritaria della sinistra, definitasi radicale, pur avvertendo i rischi di quel sistema di potere così apparentemente accattivante, anziché studiarlo a fondo e contrastarlo, nel quotidiano, sotto il profilo culturale e politico preferiva, e preferisce, fare ad esso una opposizione ideologica (il comunismo contro il capitalismo) opponendovi il mito dell’uscita dal capitalismo (ossia dal mercato) rendendosi incomprensibile a quelle stesse masse alle quali dice di rivolgersi. Masse che, come ricordava Pasolini già nei primi anni ’70, vivono in se stesse sempre più acutamente la contraddizione tra l’idea di progresso (valori+benessere), presente nelle loro coscienze di classe, e l’idea consumistica di sviluppo ancora più presente, luccicante ed estremamente accattivante, nella quotidianità dell’esistenza (il Mostro mite del libro di R. Simone).