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Pensieri pungenti sul reale. Di Michele Paolini Paoletti (alias: ilpungolo)« Messaggio #132 | il Bello della Domenica » |
Munich, ovvero della pace impossibile
“Siamo uomini tragici, con le mani da macellai e il cuore gentile”. E’ questa la frase, pronunciata da uno dei personaggi più ambigui del film, che forse sintetizza meglio un film complesso come 'Munich', l’ennesima grande opera di Steven Spielberg. Un film cupo, livido, un abisso di male dove la pioggia perennemente battente non lava né purifica nulla. Anzi, le macchie di sangue scuro galleggiano sulle strade umide e si rapprendono sui muri di hotel scavati dalle bombe. E’ un grande film questo 'Munich' di Steven Spielberg e non solo perché ha momenti di cinema “nero” straordinario, come la sequenza iniziale, straniante, durante la quale lo spettatore, spaesato, assiste impotente ai fatti di Monaco e, più in generale, tutte le sequenze degli attentati israeliani, vivide di suspense e tensione. Ma perché pone con forza il problema della pace più che astrattamente nel mondo, nel cuore dell’uomo. Perché è riduttivo ritenere 'Munich un film che ripercorre in chiave filopalestinese le vicende successive a Monaco. Ed è nel contempo riduttivo e ingenuo, pensare all’ultimo film di Speilberg come a un tentativo di razionalizzare o giustificare gli attentati palestinesi e israeliani. 'Munich', come tutte le grandi opere, parla d’altro e può essere analizzato su più livelli. Non è diverso, per esempio da un film sottovalutato come 'La guerra dei mondi'. Là, un padre (Tom Cruise) protagonista assoluto, in lotta contro forse del male spietate, che attaccano improvvisamente e non fanno prigionieri (i tripodi, scambiati dalla figlia di lui per terroristi). Un padre che combatte e lotta per qualcuno, non per un’idea astratta. Per i figli e per il proprio popolo, in vista di una ricompensa che, qui e ora, ha i connotati dell’abbraccio caldo di una famiglia e di una casa. Qui, in 'Munich', il protagonista è lo stesso. Eric Bana, Avner nel film, dopo aver assistito impotente all’attacco terrorista, scende in campo e lotta. E uccide. Per la figlia che la moglie porta nel suo grembo, e per il proprio popolo. E’ un padre, Avner, e la sua paternità è sottolineata, quasi sancita, nella dura sequenza nel finale dell’atto sessuale mostrato in parallelo con il flashback dei Monaco. La vita contro la morte, quindi. Un nuova vita, contro i tripodi maledetti che uccidono senza pietà. Ma, a ben guardare, tutto il cinema recente di Steven Spielberg parla di padri e di domande. 'A.I. – Intelligenza artificiale' poneva con forza il problema del nesso tra figlio e un Padre-Creatore; Prova a prendermi continuava sulla stessa linea, con protagonista un ragazzo (Leonardo Di Caprio) in ostinata e scostante ricerca di una figura stabile, adulta. Alla ricerca di un padre. E ancora, Tom Cruise, padre separato, con problemi grossi coi figli, chiamato a difendere la propria famiglia da esseri immondi. Una vera e propria ossessione quella di Spielberg per i padri e figli (si pensi quanto i padri c’entrino in film meno recenti come 'Salvate il soldato Ryan', 'E.T.', 'Amistad', 'Il colore viola', persino 'Lo squalo' con la figura paterna e fragile di Roy Scheider). Un’ossessione che spesso si fa domanda di significato, nel caso di 'A.I'. o 'Prova a prendermi', domanda di giustizia nel caso de 'La guerra dei mondi' e 'Munich'. Perché è un vero e ineliminabile desiderio di giustizia quello che muove Avner nell’accettare la missione affidatagli dal governo israeliano. Una giustizia che si colora immediatamente del colore del sangue e della vendetta. "Uccidere - diceva Clint Eastwood in uno dei suoi film più belli, 'Gli spietati'- è una cosa difficile. Significa prendere un uomo e toglierli tutto quello che ha e che sogna di avere”. E così, Avner, diventa da rabbioso e spietato vendicatore delle offese, un eroe fragile, a cui tremano le mani quando deve dare il segnale per lo scoppio di una bomba. Un uomo che riconosce l’orrore dell’assassinio, per quanto legalizzato. La vita non si tocca, sembra dirci Spielberg. Non si tocca, neanche se il cuore al centro del mirino è quello di un assassino terrorista che ha ucciso undici innocenti. Ed è un orrore uccidere. Perché, dall’altra parte, c’è gente come te. Ci sono degli uomini. Dei padri, teneri con i figli anche se con le mani insanguinate da macellai. Il tema della pace, quindi, perché Avner che vuole giustizia, si rende conto, alla fine di questo lungo e terribile percorso, fatto di corpi straziati e carne maciullata, fatto di compagni caduti, fatto di umanità troncate, che non c’è ragione di Stato che tenga, che non c’è schema politico o ideologico che possa giustificare l’assassinio di un uomo. Che, del resto, genera altri inevitabili assassini fino al nuovo e terribile Olocausto (le Torri Gemelle del finale). Spielberg, nell’unica intervista rilasciata, prima dell’uscita del film, ha dichiarato che 'Munich' "è una preghiera per la pace”. Vero. 'Munich' è un grido alla pace lanciato da un laico. E a cui niente e nessuno, in questa terra insanguinata, né lo Stato né l’ideologia né la volontà personale, potrà rispondere.
Simone Fortunato - Sentieri del cinema
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il 25/03/2009 alle 05:11
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