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The Wrestler (Darren Aronofsky, 2009)

Post n°96 pubblicato il 09 Marzo 2009 da blogiulia
 

Locandina The Wrestler

Negli anni '80 Randy "The Ram" Robinson era un eroe del wrestling all'apice della carriera. A venti anni di distanza lavora in un grande magazzino e pratica la lotta nei fine settimana per la gioia dei (pochi) fan che gli sono rimasti.

Comincio subito col dire che alcune volte non capisco le scelte dei grandi festival del cinema. Spesso non incontrano il favore del pubblico, altre volte sì. Questa è una di quelle volte in cui sembra che il film sia piaciuto anche al pubblico... ma non a me. So di essere controtendenza e non vi nego che un po' mi dispiace. Sentirsi in accordo con i grandi critici del cinema è un onore. Mi è capitato con I segreti di Brokeback Mountain o con The Millionaire, o con Forrest Gump, o con Pulp Fiction. Questa volta non è successo e vorrei spiegarvi perché.
La prima parte del film mostra la vita da wrestler professionista di Randy: una vita da sbandato, drogato dalla folla, dalla fama, pompato dagli ormoni, "un pezzo di carne maciullata" che combatte ancora sul ring nonostante l'età. La rappresentazione quasi distaccata di un'esistenza borderline, fatta di una violenza finta nel movente ma reale nel dolore fisico. Un'esistenza condivisa da Cassidy (una Marisa Tomei davvero brava), la spogliarellista di un night - non troppo apprezzata dai clienti perché non più giovanissima - che sogna una vita diversa insieme al figlio di 9 anni.
Aronofsky mette in scena questa premessa con il distacco quasi documentaristico della camera a mano, che simula la presenza di un soggetto presente e osservante ma esterno. Questo significa, inevitabilmente, che per la prima mezzora lo spettatore è costretto a seguire un'enorme immagine traballante. Capisco le intenzioni del regista, ma non capisco come non si possa tenere conto del fastidio oggettivo che ciò arrechi.
Nella prima parte, inoltre, sono concentrate le scene più violente del film, in cui Randy affronta degli incontri ai limiti dell'umano. L'effetto disgusto è forte e rimane incubato nello spettatore fino alla fine, togliendo la possibilità di appezzare le scene più emotivamente toccanti e il risvolto psicologico che la seconda parte del film tenta di affrontare.
Il secondo tempo, infatti, evidenzia l'alienazione sociale di Randy, la sua solitudine e l'impossibilità per lui di vivere una vita lontano dal wrestling. Qualsiasi tentativo di riscatto è concesso soltanto al Randy lottatore di wrestling e non al Robinson padre, commesso di un supermercato o amante.
Questa parte, potenzialmente interessante, finisce per scadere in evidenti luoghi comuni già più volte trattati dal cinema: il padre assente e disattento, la brava madre che di notte si trasforma nella provocante spogliarellista...
Se all'inizio il disgusto era dato dalle scene violente, adesso il disgusto si era spostato sulla società americana: orrende folle inneggianti alla violenza, squallidi consumatori di cibi nauseabondi.
Altro discorso merita l'interpretazione di Mickey Rourke. Anche in questo caso, acclamato, premiato (Golden Globe), dichiarato finalmente risorto... davvero incomprensibile la capacità di scovare un'emozione o un'interpretazione degna di nota nell'ammasso informe che è il volto di quest'uomo. Anche solo distinguere le lacrime che sgorgano dagli occhi ridotti a due fessure è stata per me un'impresa impossibile.
Bella la canzone sui titoli di coda di Bruce Spingsteen premiata con il Golden Globe. Almeno su questo sono d'accordo.

Voto 4.5

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blogiulia
blogiulia il 16/03/09 alle 01:17 via WEB
UHAUHAUHAUAH!!! :D
 
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