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pensieri sparsi...

solo per me!

 

 

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CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA....

Post n°94 pubblicato il 07 Gennaio 2008 da allua25

Ho bisogno di scrivere adesso, subito. Ho bisogno di mettere ordine. Pensare non mi basta più. I pensieri volano, mi sfuggono, partono da un’immagine e si perdono nei meandri dei ricordi, mi confondono, saettano in direzioni lontane dalla verità, sono episodici. Ho bisogno di far chiarezza dentro di me per non impazzire, di appropriarmi di una percezione univoca degli eventi che non sia da interpretare, che non sia un falso suggerimento o una blanda convinzione. Io devo scrivere, io devo fare discorsi prolissi, prolungati, promiscui, che dei pensieri sono la miglior faccia, devo farlo per me. Non so neppure da dove cominciare, perché da qualunque punto o momento io parta le storie che mi racconto sono due, a volte tre. Adesso altre immagini si affollano e penso che non abbia senso neppure ricostruire. I miei perché non avranno risposta. Ma devo farlo. Devo, perché devo dire basta, perché devo non impazzire, perché devo smettere di piangere, di tormentarmi, di colpevolizzare, di amare. Devo. E allora parto dall’inizio, dalla mia verità, perché è quello che ho vissuto io, che ho provato io, che ho sentito io che conta veramente adesso e non ciò che cercano di propinarmi gli altri. E allora parto dal 13 Gennaio dello scorso anno. Nuovo posto di lavoro, accettato dopo molte titubanze. Arrivo e lui era lì, in piedi, una mano nella tasca del  giubbotto di pelle nera, una sigaretta nell’altra, i capelli lunghetti, un ricciolo davanti agli occhi e lo sguardo perso nel vuoto. Non immaginavo che avrei rivisto questa scena molte e molte altre volte ancora. “Carino- pensai- ma anche stronzo”. Non ricordo come accadde che ci presentammo o che parlammo, ma ricordo il tavolino di un chioschetto e i caffè consumati parlando del più e del meno. “E’ una persona interessante, da frequentare” pensavo e al contempo mi chiudevo e a volte diventavo antipatica perché non potevo sbagliare, non di nuovo. Ricordo che una volta, in quello stesso periodo, parlando di noi, dissi: “Per ora sono serena, pensa che non verso una lacrima da 4 anni”. Lui sorrise, poi portò il dito sulle labbra e rispose: “Non lo dire, qualcuno lassù potrebbe sentirti”. E sorrisi anch’io. Mi resi conto di volergli bene, perché era tenero, simpatico, educato, intelligente, sensibile, buono. Perché eravamo in sintonia e non mi succedeva da tanto di essere in sintonia con qualcuno. Ma non mi fidavo lo stesso. Non lo so perché. Sentivo l’esigenza di allontanare da me e da lui l’idea che potesse piacermi. Lo definii “ compagno delle ore buche”, solo questo. Mi innervosivano gli altri che dicevano “state troppo bene insieme, fate tenerezza”. Mi affrettavo a smorzare le chiacchiere con un “Siamo solo colleghi e poi lui è più piccolo”. Quanta intelligenza nei pensieri di allora, quando si vive tutto con distacco.

Fu dopo circa un mese che uscimmo insieme con un altro collega, ora amico. Ricordo che ero imbarazzata, che non riuscivo a guardarlo negli occhi e preferivo parlare col suo amico. Riconoscevo in lui una parte di me, una sensibilità simile, una solitudine atavica. Ammiravo il suo coraggio di esternare le proprie emozioni, mentre io ero così freddamente controllata. Mi imbarazzava il suo modo di guardarmi, di leggermi dentro. In silenzio, avevo capito che lui aveva capito che mi nascondevo da me stessa. Lui aveva capito e non era necessario dire nulla. Si arrabbiò tanto quella sera. Lasciò me e il suo amico al tavolo e uscì fuori a fumare una sigaretta. Io lo seguii, lo guardai ed ebbi l’impulso di abbracciarlo, di baciarlo, di chiedergli scusa. Non feci niente di tutto ciò. Fumai la sigaretta in silenzio, col nodo alla gola perché mi resi conto in quell’istante di essermi innamorata e di non poter tornare più indietro. Al ritorno, in macchina c’era il cd di Capossela. Io ero seduta dietro e ricordo lo sconforto che mi prese e il martellare dei miei pensieri. “Non può essere, non può essere” mi ripetevo e Vinicio cantava “Accolita di rancorosi” e lui guidava e le sue dita tamburellavano sullo sterzo a ritmo di musica. Passarono 15 giorni di chiacchierate e caffè al solito chioschetto, di battute e frecciate, prima che uscissimo di nuovo insieme. Era il 30 Marzo. Una passeggiata al porto, una leggera pioggerella, un pranzo luculliano che difficilmente dimenticherò, lui che mi prende per mano. Un bar, lui un whisky, io un bayles. Lui che fa discorsi su di noi, belli. Poi silenzio, lo sguardo nel vuoto e le sue parole: “Io sono attratto da te, ma sono fidanzato” Non so che faccia abbia potuto fare io facendo finta che non m’importasse, ma sentii come un pugno allo stomaco. Avevo immaginato e mi ero illusa di poterlo frequentare, di poter costruire qualcosa insieme. E invece…ci alzammo, facemmo qualche passo, lui si voltò di scatto e mi baciò sulle labbra. Un po’ in macchina a parlare, ad abbracciarci e baciarci. Ma non era come avevo immaginato. Tutto era rovinato fra noi ed io piangevo dentro e questo non poteva vederlo. Per più di due mesi non ci rivolgemmo parola. Feci qualche tentativo per far pace, ma non servì a nulla e non capivo neppure perché si era giunti a quel punto. Lo guardavo ogni giorno mentre mi dava le spalle, gli passavo davanti senza salutarlo o ci guardavamo freddamente da lontano. E tutte le volte avrei voluto abbracciarlo e dirgli “torniamo indietro, cancelliamo tutto, ricominciamo” e tutte le volte lo ignoravo e mi ripetevo che era meglio così e mi rassegnavo e mi allontanavo a poco a poco. Facemmo pace alla fine di Giugno grazie ad un’uscita col collega-amico. Il mare, una passeggiata, una cena. Poche parole e pochi sguardi. Ed io ero ormai rassegnata e anche serena. Era arrivata l’estate, cominciavano le uscite, i programmi per le vacanze. Avevo conosciuto gente nuova. Mi sentivo distante da lui. Ogni tanto un sms giusto per non perdere i contatti, ma lo sentivo fuori dalla mia vita.

È il 26 luglio quando usciamo di nuovo insieme, stavolta in quattro. Da quel giorno tutto è cambiato, è cominciato qualcosa o forse è stato solo l’inizio della fine. Non lo so, ma fu una bella uscita. Lui era veramente bello quella sera, era sorridente, non era taciturno, era allegro. Quando mi guardava i suoi occhi erano vivi e non era necessario andare oltre con le parole. Eravamo di nuovo in sintonia. Io non mi facevo domande, non avevo paura. Eravamo noi due insieme, eravamo belli e stavamo bene. Lui mi diceva di dargli tempo, per conoscermi, per capire. Era giusto. Sotto casa mia gli feci solo una domanda: “pensi di poterti innamorare di me?” e lui mi abbracciò fortissimo e dandomi baci disse: “Certo che posso, sì che posso, posso”. Gli avrei dato il tempo allora, tutto quello che voleva, perché quell’abbraccio e le sue vibrazioni valevano più di mille parole. Io non stavo perdendo tempo e lui non ne avrebbe fatto perdere a me. Era sincero e mi sono fidata. Ho messo da parte la mia vita passata, i miei errori, le mie paure e mi sono persa in quell’abbraccio, sentendomi protetta e al sicuro. I due mesi successivi non sono stati affatto semplici. Ci sentivamo ogni giorno, ci dicevamo cose bellissime, ci sentivamo vicini pur essendo lontani. Ma non eravamo così vicini perché comunque lui non era libero. Ricordo quando eravamo insieme e arrivavano le telefonate di lei. Io ci restavo male perché mi rendevo conto solo in quei momenti che non stavamo insieme e lui stava male perché si sentiva in colpa per entrambe. In questa fase abbiamo trascorso dei momenti molto belli. Andai due volte da lui e , nonostante alcune incomprensioni e qualche lite, siamo stati bene. Mi portava ogni sera in un pub e lì stavamo a chiacchierare su due sgabelli, a bere, ad abbracciarci e baciarci. Lì ci siamo raccontati. Lì mi ha parlato di sé, del suo passato ed io coglievo le sfumature delle sue sofferenze. Lo capivo e mi sentivo vicina a lui come se lo fossi sempre stata. Ero felice ed orgogliosa di stargli accanto e avevo la sensazione che anche lui lo fosse, che con me si sentisse meno solo. Abbiamo ascoltato la sua musica insieme, al buio, a casa sua. L’ho visto piangere e mi ha permesso di asciugargli le lacrime, mentre sottovoce mi sussurrava:” sei la persona che aspettavo”. Le sensazioni più forti di questo periodo le provai un pomeriggio all’inaugurazione del negozio di un suo amico. Non abbiamo fatto niente di particolare, ma io avevo l’impressione che gli altri ci guardassero e pensassero che stavamo bene. Perché io mi sentivo così. Perché lui mi guardava ed era contento. Per un attimo mi sono proiettata in un futuro immaginario ed improbabile di noi due insieme a giocare con una bimba. Giorni dopo di nuovo insieme. Al lungomare, quando mi abbracciò e mi disse “Io ti amo, ti amo davvero” o di notte davanti al nostro posto di lavoro, dove c’eravamo conosciuti, dietro quella cancellata che ci escludeva da quel passato troppo vicino che mi mancava terribilmente. E noi due vicini fra pensieri contrastanti. Non immaginavo che neppure 15 giorni dopo saremmo stati di nuovo lì. Ero felice di vederlo ogni giorno, anche se non potevo sfiorargli neppure la mano. Ero felice di vederlo entusiasta del suo lavoro. Ero felice di vederlo sereno e sorridente. Ma mi mancavano i momenti solo nostri, mi pesava essere solo una collega. Io ero nervosa e lui mi rinfacciava il fatto che, nonostante il tempo passato insieme, io non avessi voluto fare l’amore con lui. E non perché non mi fidassi, semplicemente non ci riuscivo. Mi bloccava il fatto che lui non fosse libero. Desideravo abbandonarmi completamente a lui e dargli tutta me stessa, ma non ne ero capace e lui me lo rinfacciava. Quei giorni passati insieme al lavoro non furono come li immaginavo. Pensavo che ci fosse stata data una possibilità dal destino, che qualcuno là in alto ci avesse concesso un periodo per stare insieme e conoscerci. Avrei voluto passare più tempo con lui, dormire insieme, portargli la colazione a letto, cucinare per lui, guardare un film e….insomma, avrei voluto essere la sua ragazza. E invece ci allontanavamo e le telefonate diventavano strane ed io lo vedevo irrequieto. Avrei voluto coccolarlo e non me lo permetteva. E poi all’improvviso la svolta: s’innamora di un’altra. Sulle mie prime reazioni ho già scritto e non voglio ritornare sull’argomento assolutamente. Stavo male perché mi mancava da morire e mi sentivo sola, ma mi consolava vederlo sereno. È durata poco. Ero arrabbiata, perché vedevo lui stare male. Avrei voluto telefonare a lei e dirle che persona splendida stava perdendo. Avrei voluto soffrire io per mille volte, fare mie tutte le sue sofferenze e vederlo di nuovo sorridere. Perché lui è meraviglioso quando sorride e lo fa sempre troppo poco. Potevo solo stargli vicino, anche se sapevo che non era me che voleva vicino in quel momento, che ero sempre troppo poco per lui. Ma ero lì e dovevo stargli vicino. È stato in quel periodo che ho fatto l’amore con lui, un periodo in cui era lontano da me. Che strano. Abbiamo fatto l’amore poche volte, ma siamo stati bene e ci siamo riavvicinati tanto. All’inizio cercavo di essere razionale e di capire che lui non stava attraversando un bel momento, ma poi mi sono illusa di poter ricominciare, di poter cambiare in meglio il nostro rapporto, di poter stare bene insieme. Uscivamo insieme più spesso, parlavamo di più, ridevamo di più, ci prendevamo in giro. Ci conoscevamo meglio e lui chiedeva altro tempo. Ma sì. È giusto così. Posso aspettare, non ho fretta. Sto bene anche così per ora e tu sei sereno. Va bene. E invece sbagliavo anche stavolta.

Non siamo più colleghi. Lui in un posto, io in un altro. Ma non ci ha allontanato la distanza fisica. Sono io che non vado bene, che non sono mai abbastanza. Prima mi rinfacciava di non voler fare l’amore con lui, poi che non mi faccio desiderare. Non sono stupida. Quando ci avviciniamo troppo e lui da solo, senza che io gli chieda niente, capisce che siamo troppo vicini, troppo, allora si allontana. È sempre stato così, dall’inizio. Potrei fare qualunque cosa, essere perfetta, ma è inutile tutto: lui con me non ci vuole stare. Arriviamo alla fine dell’anno con un litigio. Io che ci resto male perché lui non mi telefona pur essendo vicino, un sms anonimo arrivato a me (e mi sto scervellando per capirne il senso) e i miei momenti di rabbia. Avrei tanto voluto passare il capodanno con lui e brindare e divertirci e guardarci e ridere, ma ci avevo già rinunciato molto tempo prima. Mi organizzo con degli amici che non vedevo da tempo, ma a lui è sembrato giusto telefonarmi incazzatissimo e chiudermi quasi il telefono in faccia. Io metto il pigiama e non voglio sapere né di amici, né di feste, cenoni, divertimenti, perché tanto sarà un anno di merda ed io non voglio vedere nessuno. E così inizia il nuovo anno e non ci facciamo neppure gli auguri. Lui mi manca e non so che fa e se sta bene. Ed io non riesco a stargli lontana e voglio trasferirmi lì dov’è lui. Cerco su internet le case in affitto e prendo alcuni appuntamenti e col lavoro in qualche modo farò, anche se sarà pesante, anche se mi stancherò, ma così adesso non ha senso niente. Vado da lui. Pensavo che avremmo litigato. Invece no, ma c’era distanza, freddezza. Era come se non contassi più nulla, se non fossi contata mai nulla. Avevo giurato di non piangere, di controllarmi, ma ho bevuto un po’ di più e non ce l’ho fatta. E mentre piangevo, in macchina, lui mi dice “Io ti lascio”. E sarei lì nel mio bivani adesso se lui mi avesse dato un minimo di speranza. Io ti lascio. Io ti lascio. Io ti lascio. Tre parole, mentre arrivavano telefonate e mi lasciva sola al pub o in macchina mentre piangevo e mi sentivo disperata. All’inizio l’ho vista come una mancanza di rispetto, come un non contare nulla. Dicevo fra me “Cazzo, accompagnami e fa’ tutte le telefonate che vuoi fare”. Poi ho capito che lo faceva di proposito, per farmi capire che dovevo accettare, che non c’è posto per me nella sua vita, che io sono di troppo. Mi ha fatto vedere dove lavora adesso, così ora posso immaginarlo col suo giubbotto di pelle, la mano in tasca e nell’altra la sigaretta. Gli piace questo posto e piace pure a me. Ed è così che voglio pensare a lui. Mi riaccompagna a casa ed io mi sento strana. Sento di essere ancora innamorata di lui, ma sento anche una serenità che si contrappone a tutte le lacrime di prima. La sensazione è quella di vederlo per l’ultima volta, la sensazione è quella di essere stanca di piangere e di non avere più lacrime, è quella di aver accettato di esser arrivati ad un punto di non ritorno, di essere vuota e stanca, di non stare bene, di aver bisogno di pace. Mentre ci salutiamo arriva un’altra telefonata. Lui s’innervosisce, mi guarda e irritato, agitando il telefono, dice: “Non ce la faccio più, non ce la faccio più. Tutte innamorate, tutte che soffrite, ma che devo fare, che devo fare, dimmi che devo fare?”. Ci diamo un bacetto, mi avvio verso il portone e dandogli le spalle penso: “ Che cazzo mi chiedi che devi fare? Hai già fatto. Hai mandato a fare in culo me”!

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