dammi una sigaretta

un altro po'...


Fa caldo anche ora ma quella notte di dieci anni fa non era questione di temperatura o di umidità, era che si scioglieva il cervello ed evaporava il sangue e io qui ci lavoravo, poco più avanti, in un’altra strada col nome di un principe che non ho il tempo di ricordare; io ci lavoravo di notte perché di giorno non riuscivo a stare sveglio, perché di casa uscivo che era già buio e ritornavo quando era appena spuntato il sole, perché non vedevo l’ora di appoggiare il mio letto al bordo della finestra aperta e addormentarmi in quella vasca di sole e di luce e di sonno, che poi sonno e sole cominciano uguali e forse lo ho già detto, ma non è un caso, nulla è per caso, mai.Mai avrei dovuto farlo, perché era vietato, ma quella notte c’era troppo caldo e io volevo camminare e provare il bastone nuovo di legno scuro e appuntito, appena comprato e già pieno di gin, e pure io ero già pieno di gin, e l’aria era piena di caldo ed era tutto colmo di vento caldo e non si respirava che quel vento e la gola raschiava e il gin seccava ancora di più il mio respiro e io volevo provare il mio bastone nuovo sulle pietre di piazza Vittorio. E nemmeno vi ho detto che lavoravo in un albergo, come dice la canzone facevo come San Pietro e davo le chiavi di piccoli minuscoli paradisi a tutti coloro che avessero voluto far l’amore, o guardare la tv, o dormire, loro che potevano, di notte. E io lavoravo solo di notte che di giorno dovevo dormire, e quella notte era così caldo, l’albergo così calmo e silenzioso, il mio bastone così nuovo e il gin così trasparente che io dovevo andare sulle pietre di piazza Vittorio a battere il mio bastone appuntito e a bere l’ultimo sorso di gin e ad aspettare che arrivasse la luce, veloce.Veloce era passato l’ultimo tram, quello che va verso Porta Maggiore dalla stazione, lo stesso che dieci anni dopo, oggi, mi ha portato qui; veloce era passato quel tram con tutto il suo rumore di ferro e ruggine e vibrazioni, veloce era passato l’autista che voleva tornare a casa a dormire anche lui, lui che forse ci riusciva a dormire di notte. Ma io non ci riuscivo, e l’albergo era così vuoto e silenzioso come un albergo vuoto che me ne fottevo dell’ordine perentorio di mai abbandonare il luogo di lavoro, me ne fottevo del lavoro, me ne fottevo di scappare; perché era caldo e io non avevo più tempo per stare fermo e c’erano delle pietre da raggiungere e la camicia si attaccava alla pelle e la mia pelle profumava di voglia e desiderio di staccarsi la camicia da dosso, di non avere camicia, desiderio che le camicie nel mondo nemmeno esistessero più.Più lo vedi il caldo e più lo senti, e quella notte era caldo il cielo, caldi tutti i muri, notte di stelle e senza luna e pure le stelle come lampadine mandavano calore e non luce e poesia; e caldo era l’asfalto e calde le vetrine dei cinesi, mute, tristi come un presepio fuori stagione; calda, bollente, liquefatta la maniglia della porta dell’albergo e se la apro sono fuori e sono finalmente sulla strada a far saltellare e battere il mio bastone dalla punta appuntita e il gin saltella anche lui e mentre si agita il gin mi tranquillizzo io, perché finalmente il mio bastone nuovo mi convince che il numero giusto delle gambe di un uomo è tre, due flessibili e una rigida, due di carne e una di legno appuntito e scuro.Continua...