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MI sono mal educato

Post n°12 pubblicato il 16 Marzo 2015 da montanariantonio

«Scegliere la strada dell'ironia, ha osservato qualcuno, vuol dire cercare la giustizia.»
Ezio Raimondi.

Metto le mani avanti, assolvo tutti quanti hanno avuto che fare con me. Delle mie mancanze e colpe sono l'unico responsabile.
Ciò premesso, si rende necessaria un'aggiunta. La mia dichiarazione è oltremodo pericolosa non per le responsabilità personali che potrebbero diventare oggetto di denuncia morale da parte di persone particolarmente pie e vocate alla condanna delle altrui condotte. Ma perché tale dichiarazione sposta il soggetto delle situazioni personali da quell'assieme di presupposti per cui ogni persona è vista come il deposito di caratteri ereditari, di scelte provvidenzialistiche, di maturazioni sociali provocate dall'ambiente di provenienza o di formazione delle prime esperienze di vita.

Per chi raggiunge successo e fortune indicibili, si fanno le pulci e ponti d'oro. Proprio a Rimini s'è visto Lapo Elkan tenere una lezione all'università. Quando si dice avere santi in paradiso. Per chi può fregiarsi soltanto di batoste ricevute per decenni, basta ed avanza una risata che dovrebbe trasformarsi in un sorridente pernacchio, come in quella scena di Amarcord dove c'è il sordino, l'equivalente al rumore sbeffeggiante alla Totò, secondo un vecchio termine locale.
La pernacchia oggi è qualcosa di più sofisticato, da conventicole segrete che non ammettono che uno che sta libero e giocondo possa dire la sua nei limiti della legge, senza offendere nessuno, ma soltanto attraverso lo studio o qualche scritto occasionale di commento ai fatti della vita.
Quelle conventicole segrete spesso sono la trama quasi biblica che teologi carnevaleschi e manovratori ambiziosi al limite dell'impudicizia tessono, nel silenzio generale, perché sai com'è la vita, non si sa mai, possono servirmi in caso di bisogno.

A queste cose sono allergico, e dicendo così mi contraddico, perché le allergie sono un fatto patologico determinato da una certa predisposizione biologica, della quale non ci si può vantare, ma di cui si deve tener conto per una certa serie di comportamenti. Non posso dire che mi creo da solo le allergie. Sono certissimo invece del fatto che una psoriasi in zona oculare nel 2005 s'è sviluppata quando il mio sito «storico», ovvero quello più antico, nato nel 1999, venne chiuso d'autorità dal gestore. Il quale aveva ricevuto da uno studio legale la comunicazione falsa secondo cui ero sottoposto ad indagine giudiziaria per diffamazione a mezzo web.
Tutto falso, come l'ambiente e la società riminese in cui la mia inesistente vicenda personale andava e va collocata. Non si voleva che uno qualsiasi, uno che non voleva inginocchiarsi davanti a nessuna autorità economica dispensatrice di grazie, e che non voleva sottostare alle griglie interpretative della storia e della cultura imposte da quell'autorità non per dono divino, ma per affermare il principio secondo cui nessuna foglia doveva o poteva muoversi senza il suo permesso.

Tante volte allora, prima che il sito fosse riaperto nel 2007 soltanto esibendo la foto del giornale locale la cui copertina riportava la notizia di una condanna patteggiata in tribunale dal signore che aveva fatto scrivere la lettera falsa contro di me (e l'avvocata che l'aveva firmata fu assolta dal suo ordine professionale perché l'aveva appunto soltanto firmata e non pure composta…); tante volte prima di allora, dicevo, mi sono assunto la grave responsabilità filosofica e scientifica di dire che erano nato anarchico.
Ma nella vita si nasce o si diventa? Se chi compie una mala azione, come ad esempio quel vecchio amico e collega che negli anni Ottanta spinse il caporedattore del giornale a cui collaboravo con una serie di articoli sulla Rimini del Novecento, ad intimarmi che dovevo fermarmi per cedere il passo e le pagine a quello stesso vecchio amico e collega, dunque costui è nato o è diventato tale da permettersi di impedire ad un'altra persona di scrivere qualcosa?

Non vorrei apparire come colui che divaga dal vero senso delle cose, ma aggiungerei a questo punto qualche dubbio sulla coscienza di quel caporedattore, se non fossi certo che in lui il rispetto gerarchico del potere configurato in un modo che non è mai stato confessato ma anzi confermato con l'attenuante, che riconosco sinceramente, della costrizione a compiere opera di favoreggiamento soltanto per far ricavare all'istituzione a cui appartiene un utile economico al quale lui non partecipa. Quindi il voto dell'obbedienza premia chi comanda e costringe a disprezzare chi crede che essere liberi significhi rispettare tutti e tutto.
A quale biologia politica appartiene chi si ritiene autorizzato a mettere veti perché un misero cronista faccia qualcosa che piacerebbe fare a lui per avere il monopolio dispotico della Storia locale? Come si vede le domande crescono, le certezze diminuiscono, perché il «santo vero» di questa provincia addormentata è soltanto la spaccio trionfante di verità che si cuciono su misura per pararsi la parte del corpo umano che la verecondia vuole non nominarsi.
Come spiegare altrimenti la bugia di quell'avvocato che immaginando i retroscena della vicenda del 2005 mi diceva che ormai i termini per una denuncia era scaduti, mentre non era vero. Come s'accorse il suo assistente di studio quando mi sorprese davanti alla porta dell'ufficio 42 al terzo piano del Palazzo di Giustizia di Rimini, con in mano la denuncia da presentare, per cui sbottò in una domanda scandalizzata, «Ma che cosa ci fa qui?», come se mi avesse sorpreso in mutande e con i calzoni sul braccio nella stanza di un bordello (ovviamente felliniano).

Questo particolare scompagina non poco l'impostazione del mio racconto. Con una domanda conseguente: perché accadono certe cose? E se certe cose vengono a cambiare il corso della realtà che ci circonda, qual è la forza nostra personale per cercare di imprimere un certo corso agli eventi?
Mia madre aveva un posacenere nella sala da pranzo borghesemente arredata con le mie librerie. Su di esso era tracciata una scritta, «Tutto arriva a chi sa aspettare». Per nobilitare l'oggetto e quelle parole che esso offriva, forse basta la frase manzoniana con Renzo che evoca la Provvidenza. «La c'è la Provvidenza», spiega Ezio Raimondi, come opera di misericordia dell'uomo all'uomo secondo il precetto evangelico della carità, ricordando che all'osteria della Luna piena lo stesso Renzo aveva gridato spavaldo agli avventori di aver in mano «il pane della provvidenza». Che saggiamente Manzoni, aggiungo, scrive questa volta senza iniziale maiuscola.

Gira e rigira mi ritrovo a fare i conti con due Grandi, quel Manzoni che ho sempre amato, ed Ezio Raimondi, Maestro di uno stile non soltanto letterario ma di vita. Ecco perché proprio in capite di queste povere pagine ho inserito quella sua frase, «Scegliere la strada dell'ironia, ha osservato qualcuno, vuol dire cercare la giustizia», che per me ha sempre voluto dire parecchio.
Per tanti anni sui fogli locali ho tenuto rubriche percorrendo quella strada dell'ironia che serviva appunto per cercare la strada della giustizia. Forse per questo motivo, negli ultimi periodi, tanti illustri e potenti reazionari concittadini, alcuni per fissazione maniacale, altri per pregiudizio politico, hanno tentato di farmi sparire dalle pagine. Li ho accontentati. E mi sono ritirato. Da due anni.

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA

 
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Cinquant'anni dopo Dallas

Post n°11 pubblicato il 10 Novembre 2013 da montanariantonio

Ci fu un momento nella storia del mondo in cui i Kennedy rappresentarono una speranza per una vita migliore. Furono il «sogno americano» della mia giovinezza. Nella mia scrivania fa avevo sottovetro una foto gigantesca della bella famiglia di JFK, ritagliata dall'«Espresso» di Arrigo Benedetti, quello formato lenzuolo.
Guardavamo all'America, noi che non tenevamo gli occhi chiusi e rivolti all'Urss od alla Cina. Poi venne il Viet-Nam, poi vennero le rivelazioni sulla famiglia di JFK, sui loro affari, sulle loro storie losche...
La fine del nostro «sogno americano» fu l'uscita da una giovinezza che vide poi sorgere in Italia altri giorni duri, terribili.

Testi originali apparsi sul blog della "Stampa" di Torino.

26.08.2009. Kennedy, furono una speranza
L'ultimo saluto a Ted Kennedy diventa per chi ha qualche anno sulla schiena l'occasione di un ricordo che coinvolge tutta la sua famiglia.
Ci fu un momento nella storia del mondo in cui i Kennedy rappresentarono una speranza per una vita migliore.
Non posso che ripetere quanto già scrissi qui due anni fa. Furono il «sogno americano» della mia giovinezza. Nella mia scrivania fa avevo sottovetro una foto gigantesca della bella famiglia di JFK, ritagliata dall'«Espresso» di Arrigo Benedetti, quello formato lenzuolo.
Guardavamo all'America, noi che non tenevamo gli occhi chiusi e rivolti all'Urss od alla Cina. Poi venne il Viet-Nam, poi vennero le rivelazioni sulla famiglia di JFK, sui loro affari, sulle loro storie losche...
La fine del nostro «sogno americano» fu l'uscita da una giovinezza che vide poi sorgere in Italia altri giorni duri, terribili.
Ted vide morire uccisi due fratelli, John nel 1963 e Robert nel 1968. Ma soprattutto il 12 luglio 1969 vide morire quella ragazza, Mary Jo Kopechne, che era in auto con lui. E con lui era finita in acqua giù dal ponte di Chappaquiddick. Ted chiamò la polizia il mattino dopo. Non appena uscito dalla vettura.>
Ted Kennedy è stato un grande sostenitore di Obama. Soprattutto per la drammatica questione della sanità.
"Negli anni '70", ha raccontato suo figlio Patrick, "accompagnai mio padre negli angoli più poveri dell'America per ascoltare chi soffriva e non poteva permettersi cure adeguate. Sono storie che nessuno di noi ha ancora dimenticato e che ancora affliggono il vecchio cuore di mio padre".
Resta il dolore che l'America di Obama abbia ancora situazioni simili a quelle denunciate dalle parole di Patrick.
Sarebbe bello che qualcuno esperto del mondo americano ci spiegasse in poche parole se anche Ted Kennedy ed il suo entourage politico in questi anni hanno fatto tutto il possibile per risolvere quei problemi dell'assistenza sanitaria con cui deve fare i conti Obama in questi mesi.
Adesso la nostra speranza di chiama Obama. Non perché è giovane ed "abbronzato", ma perché è partito con progetti di riforma sociale che ogni giorno negli Usa incontrano sempre più ostacoli.
[26.08.2009, anno IV, post n. 245 (965)]

20 luglio 2007. Politica bollente
Clementina Forleo.
La notizia è di queste ultime ore. Secondo Clementina Forleo, i politici intercettati nell’ambito dell’inchiesta in corso a Milano sui tentativi di scalata ad Antonveneta, Bnl e Rcs «all’evidenza appaiono non passivi ricettori di informazioni pur penalmente rilevanti, né personaggi animati da sana tifoseria per opposte forze in campo, ma consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata».
La seconda signora è Rosy Bindi. Lasciamo alla Giustizia di fare il suo corso, non senza il timore che possa essere come al solito una strada in salita, e restiamo soltanto in compagnia della sfidante al sindaco di Roma Walter Veltroni nella corsa a segretario del futuro Partito democratico.
Ieri Rosy Bindi ha surriscaldato il clima con una dichiarazione rivoluzionaria: «C'è bisogno di una gara di idee».
Come a dire che non bastano le belle facce e le buone intenzioni per fare un partito, ma ci vogliono appunto «idee» (possibilmente nuove, e non riciclate).
La gran discussione sul «sogno americano» svoltasi nei giorni scorsi, mettendo a confronto Veltroni con un altro candidato, Furio Colombo, ha dimostrato come i nostri politici siano bravi a menar il can per l'aia, tentando di parlare di tutte altre cose rispetto a quelle che sono necessarie e fondamentali nella vita del nostro Paese.
Anzitutto non è possibile fare il confronto tra le primarie degli Usa (dove esse sono una tradizione) e quelle nostrane, dove appaiono una specie di tradimento: «Ma come, mi candido io, e vuoi candidarti pure tu: ma che ti ho fatto di male?».
Volevo parlare giorni fa del «sogno americano» della mia giovinezza, dopo la trasmissione di Corrado Augias sulla vedova di JFK.
Nella mia scrivania 45 anni fa avevo sottovetro una foto gigantesca della bella famiglia di JFK, ritagliata dall'«Espresso» di Arrigo Benedetti, quello formato lenzuolo. Guardavamo all'America, noi che non tenevamo gli occhi chiusi e rivolti all'Urss od alla Cina. Poi venne il Viet-Nam, poi vennero le rivelazioni sulla famiglia di JFK, sui loro affari, sulle loro storie losche...
La fine del nostro «sogno americano» fu l'uscita da una giovinezza che vide poi sorgere in Italia altri giorni duri, terribili.
La signora Bindi quando invoca «una gara di idee», sottolinea la necessità di scrivere un copione nuovo, non l'imitazione di altre realtà o di altri modelli.
Ha ragione Lucia Annunziata che nella «risposta» di stamani scrive sulla «Stampa»: «Nell'arena sempre crudele della politica italiana si sta avvelenando un atto che dovrebbe essere solo la naturale espressione di una gara».
Ha ragione pure Concita De Gregorio che su «Repubblica» spiega: la candidatura di Rosy Bondi è «anti-apparati, anti-burocrazia, anti-alchimie di potere».
Per questo osservavo all'inizio che Rosy Bindi ha ieri surriscaldato il clima politico nazionale. Da poche ore è intervenuto il fatto nuovo dell'inchiesta milanese che metterà scompiglio nel centro-sinistra: politici non tifosi ma complici.
Antonio Montanari

 
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Rimini 1061, una guerra dimenticata

Post n°10 pubblicato il 17 Maggio 2013 da montanariantonio

L’elogio funebre di Pier Damiano per Benno "padre della Patria". La nuova lettura di quei versi offre un'immagine diversa della storia del tempo.


Rimini 1061, una guerra dimenticata


Nel 1964 a Stoccolma Margareta Giordano Lokrantz (1935-2004) pubblica “L’opera poetica di S. Pier Damiani”, contenente la descrizione dei manoscritti e la loro edizione. Tra i componimenti più famosi, c’è il n. XCIX, ovvero il “Bennonis Epitaphium”, come è intitolato nella “Opera omnia” apparsa “Parisiis, Sumptibus Caroli Chastellain, MDCXLII”, e riedita nel 1743 sempre a Parigi.

Rimini, piangi
Eccone il testo completo (ed. 1964): “Ariminum, luge, lacrimarum flumina funde;/ Laus tua Benno fuit, pro dolor ecce ruit./ Benno decus regni, Romanae gloria genti,/ Ipse pater patriae, lux erat Italiae./ Hunc socium miseri, durum sensere superbi;/ Lapsos restituit, turgida colla premit./ Fit leo pugnanti frendens, tener agnus inermi;/ Hinc semper iustus perstitit, inde pius./ Hic fidei dum iura colit, dum cedere nescit,/Firma tenens rigidae pondera iustitiae,/ Reticolae iugulus prauorum pertulit ictus./ Per quem pax uiguit, bellica sors perimit./ Obsecro, tam diram sapientes flete ruinam/ Et pia pro socio fundite uota Deo”.
Il v. 12 è edito da Lokrantz come “per quem pax uiguit, bellica sors perimit”, anziché il classico “bellica sors periit”, per cui abbiamo: “la guerra uccise colui per merito del quale fiorì la pace” (anziché “per lui fiorì la pace, la guerra cessò”). Questa traduzione è contenuta in un testo pubblicato nel 1965 dal prof. Scevola Mariotti, in cui si ricorda come la nuova lettura del v. 12 offerta da Margareta Lokrantz, comporti conseguenze “di ordine storico”. Mariotti precisa: “…a quanto pare, Bennone fu ucciso in un fatto di guerra”. D’ora in avanti chiamiamo Benno il personaggio detto Bennone da Mariotti, seguendo lo stesso Pier Damiano che inizia così l’epitaffio: “Ariminum, luge, lacrimarum flumina funde; / Laus tua Benno fuit”.

Luce dell’Italia
L’accenno contenuto nell’epitaffio sarebbe l’unica testimonianza pervenutaci di lotte locali tanto violente da giungere all’uccisione di un capo politico cittadino. Benno infatti è definito da Pier Damiano “onore del regno, gloria della stirpe romana, padre della Patria, luce dell’Italia” (“Benno decus regni, Romanae gloria genti, / Ipse pater patriae, lux erat Italiae”, vv. 3-4). Padre della Patria o della città era chiamato il rappresentante della vita municipale che doveva vegliare alla difesa del Comune sotto il dominio della Chiesa romana. Era una figura ben distinta dal Conte, il quale era un delegato pontificio od imperiale. Uomo giusto e pio, severo con gli oppositori ma dolce con gli indifesi, Benno è quindi dato da Pier Damiano per ucciso nel corso di una “guerra”: “lui, per merito del quale fiorì la pace”, fu forse vittima di una lotta sulla cui origine possono essere avanzate soltanto ipotesi, connesse al ruolo politico svolto dallo stesso Benno.
Uomo di fede e difensore degli interessi della Chiesa (altrimenti Pier Damiano non l’avrebbe glorificato), mentre la feudalità laica mirava ad una sostanziale autonomia politica ed aumentavano i sostenitori dell’indipendenza cittadina, Benno probabilmente non riuscì a pervenire ad una sintesi originale tra mondo laico ed ecclesiastico, per conciliare gli interessi “particulari” cioè cittadini con quelli della sede di Pietro.
I riminesi possono aver visto in Benno un capo che finiva per essere più il rappresentante del Pontefice (come il Conte) che della loro stessa comunità. E quindi possono aver cessato di considerarlo come un’espressione della giustizia e dell’equilibrio nei rapporti fra la città e Roma. Nell’additarlo pubblicamente come traditore, sarebbe stata così scritta la sua condanna a morte. Portata ad esecuzione nell’anno stesso della fondazione del monastero di San Gregorio in Conca, il 1061.

Antonio Bianchi
Delle lotte precomunali a Rimini si occupa Antonio Bianchi all’inizio del cap. 12 della sua “Storia di Rimino dalle origini al 1832”, come necessaria introduzione alla raccolta delle notizie elencate in successione cronologica: “Se la prima metà di questo secolo non fu totalmente pacifica pel nostro paese, peggiore di molto dovett’essere l’altra metà, giacché alleggeritosi in Italia il predominio dell’autorità imperiale, crebbe talmente lo spirito d’indipendenza, che ogni città, ogni vescovo ed ogni conte, insomma qualsiasi persona potente, che avesse mezzi da sostenersi voleva farla da padrone assoluto…”.
Bianchi scrive sul ruolo del “pater civitatis”: “Oltre i conti, altra autorità esisteva nelle nostre città col titolo di "pater civitatis", che doveva essere il capo della magistratura civile; il più antico di cui ci sia rimasta memoria è un certo Bennone, morto fra il 1028 e il 1061; del medesimo abbiamo un pomposo elogio scritto da San Pier Damiano, il quale aveva ottenuto dallo stesso Bennone e da altri di sua famiglia molti terreni, sopra uno dei quali fabbricò il monastero di San Gregorio in Conca, che nel 1071 lo stesso San Pier Damiano mise sotto la protezione del vescovo di Rimini e dei suoi successori. Molto ricca e potente era la famiglia di quel Bennone, possedendo castelli e molti terreni”, come si ricava dai documenti pubblicati dal canonico Angelo Battaglini nel 1783.
Sotto l’anno 1060, Bianchi osserva: “Goffredo duca di Toscana […] fa eseguire un concordato fra l’abbate di Pomposa ricorrente contro alcuni ivi nominati, i quali promisero di non recare alcuna molestia tanto nelle persone che ne’ beni di detta abbazia esistenti nel Contado di Rimini: vi erano presenti, fra molti altri” il vescovo di Rimini e due giudici della stessa città, uno dei quali è “Petrus de Benno”, ovvero Pietro figlio del Benno da cui siamo partiti. Nel 1060 il Pater Civitatis ricordato è Bernardus. Pietro figlio di Benno è divenuto celebre per un’altra donazione del 1069 a favore dello stesso Pier Damiano. Nel 1070 Pier Damiano dona il monastero di San Gregorio in Conca al Vescovo di Rimini.

Battaglini e Tonini
Nelle “Memorie istoriche di Rimino e de’ suoi signori” pubblicate da Francesco Gaetano Battaglini (fratello di Angelo) a Bologna nel 1789, leggiamo un ricordo sia di Benno (“Bennone di Vitaliano”) sia di suo figlio Pietro. Battaglini osserva su Benno che non si può “credere, che ad un uom sì giusto, e sì reputato, e che pel governo da sé fatto meritò encomio sì degno, fosse prima di sua morte tolta di mano la bilancia della giustizia”.
Carlo Tonini (1835-1907) nel primo volume del suo “Compendio della Storia di Rimini” (1895), presenta una pagina del tutto originale. Dall’elogio che ne fa Pier Damiano, “risulta chiaramente che questi fu un intrepido e sapiente amministratore di pubblica giustizia; quanto mite e pio verso i miseri, altrettanto rigido e severo coi superbi […]. E non potrebbe forse inferirsi da ciò, che ei cadesse vittima delle vendette d’alcun nemico potente, che avesse provato i rigori di quella sua cotanta ed inflessibile giustizia? E non varrebbe per avventura a confermarci in questo sospetto segnatamente il penultimo verso dell’elogio – Obsecro tam diram sapientes flete ruinam? A noi pare che il Damiani non avrebbe usata una simile espressione, se il grand’uomo fosse morto placidamente nel suo letto e nella pienezza de’ giorni suoi”.
Tonini ricorda: Damiano scrive di Benno che “pravorum pertulit ictus”. Il problema non è, come è stato scritto, di dare una “versione più neutra, che esclude ogni riferimento a effettive vicende politiche riminesi” nella traduzione dell’epitaffio. Ma d’intendere il senso di quello che si legge nel passo così ben spiegato da Tonini: “pravorum pertulit ictus”. Tonini cominciò a dubitare che “il grand’uomo fosse morto placidamente nel suo letto”. Non si possono scrivere le storie di quei momenti ignorando le pagine di chi se ne è già occupato, addirittura nel 1895, con una prospettiva innovatrice per interpretare i fatti e le figure di cui si parla.

Lena Vanzi

Sul tema:
Chiesa riminese, storia. Quel secondo volume... (2012)
Benno trascurato? Una risposta (2012)
Benno trascurato come al solito (2010)
Rimini medievale

 
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Umanesimo riminese

Post n°9 pubblicato il 26 Settembre 2012 da montanariantonio

A proposito dell'Umanesimo tragico di cui ha trattato a Rimini il prof. Massimo Cacciari, riferendosi alla "Resurrezione di Cristo" di Piero della Francesca, una piccola ricerca su Internet permette di ricostruire la fortuna della formula.
Nel 1994 appare nell'annuario del Centro mondiale di Studi umanisti, che ha un vago sapore esoterico più che di analisi della cultura dell'Umanesimo in senso stretto.
Nel 2004, a proposito del proprio libro "Della cosa ultima", il prof. Cacciari dichiara al "Mattino" di Padova: "Da tempo vado pensando che occorrerebbe, anche sulla traccia dell’autentica storiografia filosofica italiana da Gentile a Garin, rivalutare la nostra tradizione. È un umanesimo tragico, ma appunto di una tragedia che si conclude con un Ma 'vittorioso'...".
Nel 2005, il prof. Cacciari a Caserta tratta dell'Umanesimo tragico parlando di quattro testi letterari: il canto XXVI dell’Inferno; il De vita solitaria di Petrarca; la Lettera al Vettori di Machiavelli; l’Infinito di Leopardi. Ricorda anche il vero testimone dell’Umanesimo tragico, Leon Battista Alberti, consapevole che è una stupida pretesa quella di essere "fabbro del proprio destino".
Nel 2007 a Milano, all'Università San Raffaele, si laurea brillantemente Silvia Crupano (Roma, 1983), con una tesi dedicata al pensiero tragico di Leon Battista Alberti: "Virtus contra fatum. La dialettica dell’Umanesimo tragico. Per una Filosofia della Storia" (relatore Andrea Tagliapietra, correlatore Ernesto Galli della Loggia).
Nel 2010 il prof. Cacciari tiene una lezione magistrale a Napoli intitolata "L'umanesimo tragico di Leopardi".
Per tornare all'inizio del nostro discorso, sarebbe molto importante che nella nostra città ci si decidesse a ricordare l'Umanesimo riminese, in cui confluiscono tutti i temi dell'Umanesimo italiano.
Come dice il prof. Cacciari, "occorrerebbe rivalutare la nostra tradizione".

Un'annotazione conclusiva. Cacciari collega il concetto di "tragico" al 1453, ovvero alla caduta di Costantinopoli. Forse si potrebbe andare un pochino più indietro, sino al 1415, anno in cui culmina la tragedia dell'Europa cristiana. Durante il Grande Scisma (1378-1417), Giovanni Huss assieme all'allievo Girolamo da Praga è mandato al rogo, dopo essere stato invitato con salvacondotto imperiale a Costanza, dove si trovavano i padri conciliari. Inizia allora una fase drammatica in Boemia, che dura sino al 1433. Sono fiamme che ne preannunciano altre: nel 1553 per Miguel Serveto a Ginevra su decisione dei calvinisti, ed il 17 febbraio 1600 a Roma per Giordano Bruno.
Giustamente, Franco Cardini (come si legge sul "Ponte" del 5 febbraio scorso) smorza i toni dello "scontro di civiltà", che alcuni vorrebbero far iniziare appunto nel 1453 e culminare nel 1683, anno dell'assedio di Vienna. Cardini osserva: non fu un conflitto di civiltà, ma soltanto "storico". Da questa differenza Cardini arriva alla conclusione che non si debbono "incentivare pericolosi contrasti religiosi", partendo da episodi militari o politici che hanno provocato sì rotture ma spesso pure accordi.
Nel suo libro recente dedicato all'argomento (pp. 3-8), introducendo il tema Cardini osserva che tre-quattro secoli sono stati "dominati, sul piano della politica e dei rapporti interstatuali, da una tensione che si traduce in una rete complessa e mutevole di alleanze e di rivalità".
Pure questo aspetto riguarda Rimini da vicino. Sigismondo Malatesti fa il condottiero al soldo di Venezia nella crociata in Morea dal 1464 al 1466. La sua condotta non approda a nulla, anzi è considerata grandemente dannosa. Il 25 gennaio 1466 egli fa ritorno a casa. Sembra, come in effetti è, un uomo sconfitto. Ma il bottino che reca con sé, le ossa del filosofo Giorgio Gemisto Pletone (nato a Costantinopoli nel 1355 circa e morto a Mistra, Sparta nel 1452), gli garantiscono un prestigio perenne. Con la tomba che le accoglie nel Tempio, Sigismondo offre l'immagine di Rimini quale faro di sapienza che poteva illuminare Roma, l'antica e lontana Bisanzio e la vicina Ravenna.
E con Pletone, oggi, si torna da dove si era partiti, a quell'Umanesimo riminese da studiare nella sua vera portata, al di là delle suggestioni esoteriche che nel 2001 portarono a proclamare (il povero) Sigismondo "massone ad honorem".
Antonio Montanari

Questa pagina si legge in "Umanesimo riminese".

 
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Voltaire

Post n°8 pubblicato il 11 Novembre 2010 da montanariantonio

Esce oggi 11 novembre l'intervista immaginaria di Giulio Giorello a Voltaire, che comincia: "Monsieur le philosophe...".

 

La settimana scorsa Sergio Romano, introducendo il trattato "Sulla tolleranza" dello stesso Voltaire, lo definiva invece "giornalista" ("anche se la parola può sembrare riduttiva") perché "non fu mai un filosofo, nel senso corrente della parola". Anche se, osserva, lo stesso Voltaire si sarebbe definito "philosophe".

Silvia Ronchey nelle recenti "Vite più che vere di persone illustri" (raccolte sotto il titolo de "Il guscio della tartaruga"), lo chiama "un aristocratico del pensiero" perché così ritiene che lui si considerasse. E lo riassume in questi termini: "François-Marie Arouet fu un avvocato, un libertino, un detenuto, uno speculatore, un viaggiatore, un polemista, un cortigiano, un filosofo, un commediografo, un tragediografo, un narratore. Si chiamò anche Voltaire".

Forse il problema di tutte le biografie sta qui, in quell'essere "anche" quello che poi una persona appare ai posteri.
L'editore di Ronchey spiega alla fine del libro il senso del titolo ("Il guscio della tartaruga"): il guscio è più largo del corpo della tartaruga ed è coperto da un mosaico di scaglie. "Anche queste vite sono un mosaico".
Come (aggiungiamo) forse quelle di tutti noi. Il guaio della Storia è che spesso delle vite ordinarie si perdono le tessere, e nessuno si cura di recuperarle.

Per le esistenze straordinarie, invece, si fa a gara a cercar etichette. Ronchey insegna che è meglio abbondare nell'elenco.
Giorello, che bisogna adottarne una per semplificare le cose, usando l'immagine più semplice e per questo efficace.
Invece Romano cancella tutto il nuovo che la nuova filosofia dei nuovi filosofi del Settecento suggerisce. Il "giornalista Voltaire" agli occhi di Romano ha però una missione politica da compiere, quella di insegnare a contemporanei e posteri il valore della tolleranza, negata dal processo a Jean Calas, accusato d'aver ucciso il figlio per non farlo convertire alla fede cattolica, e poi condannato a morte.

Recente è anche l'edizione del trattato curata da Sergio Luzzato, in cui si racconta come nel 1949 esso divenne un "testo di riferimento" dell'allora Pci, per la traduzione che ne fece Palmiro Togliatti.
Lo storico Luzzato scrive un'intelligente pagina provocatoria che conclude efficacemente: "il paradosso italiano di un Voltaire confiscato dai comunisti", deriva dalla "relativa indifferenza (per non dire l'altezzosa sufficienza) con cui il liberalismo nostrano", tutto "impregnato di umori spiritualisti", aveva guardato "alla materialistica epoca dei Lumi".

 
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