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LA LEZIONE DIMENTICATA DI ROOSVELT.

Post n°477 pubblicato il 25 Aprile 2009 da manonsolospine

Lezione dimenticata

È quella di Roosevelt. Ecco perché la crisi di oggi rischia di aumentare le diseguaglianze

 
Franklin D. Roosevelt
Rovistando tra vecchi libri in polverosi scaffali ne ho trovato l'altro giorno uno che più attuale non si può. Si intitola 'La rivoluzione di Roosevelt', l'autore è Mario Einaudi figlio di Luigi, che fu il primo presidente della nostra Repubblica, e fratello di Giulio, fondatore della casa editrice che porta il suo nome. Il libro fu scritto nel 1959, esattamente mezzo secolo fa. L'autore visse per molti anni negli Stati Uniti e quindi si giovò di un'esperienza diretta delle istituzioni politiche ed economiche americane. L'attualità del libro deriva dal fatto che ora il mondo sta attraversando una crisi che presenta molte analogie con quella del 1929 e con la rivoluzione rooseveltiana che ebbe inizio nel 1933, mentre la crisi era diventata mondiale e aveva raggiunto il suo culmine.

La trasformazione economica e istituzionale intrapresa da Roosevelt impiegò sei anni per generare tutti i suoi effetti e produsse un mutamento storico non solo nella società americana ma anche in quella europea che durò fino agli anni Ottanta dello scorso secolo. Poi cominciò il declino di quel modello fino allo scoppio della crisi che stiamo ora vivendo. Penso che la casa editrice dovrebbe ristamparlo, il libro di Mario Einaudi: la sua lettura è utilissima e meriterebbe di diventare un 'best seller' della saggistica. Quando uscì cinquant'anni fa l'avevo letto come un'opera storica; l'ho riletto in questi giorni scoprendone i pregi d'un breviario politico ad altissimo livello. È troppo sperare che i politici di governo e quelli d'opposizione gli dedichino attenzione? Ne trarrebbero grande profitto con notevoli vantaggi per il paese.

Per dar conto della sua essenza citerò intanto una frase che non è di Mario Einaudi ma di Alexis de Tocqueville, grande studioso all'epoca sua della civiltà americana e dei principi che reggono una democrazia liberale. Mario Einaudi la citò a pagina 313 del suo libro in un capitolo interamente dedicato allo scrittore francese. Eccola.


"È vero che intorno ad ogni uomo è segnato un cerchio fatale che egli non può oltrepassare; ma entro il vasto ambito di quel cerchio egli è potente e libero e come è per l'uomo così è per le comunità. Le nazioni del nostro tempo non possono impedire che gli uomini diventino eguali, ma dipende da esse se il principio dell'eguaglianza debba condurli alla schiavitù o alla libertà, alla civiltà o alla barbarie, alla prosperità o alla miseria". Tocqueville amava la democrazia ma era soprattutto un liberale e guardava ai rivolgimenti politici privilegiando i pericoli che un eccesso di egualitarismo poteva arrecare alla libertà individuale. Raramente nell'opera sua si trova l'analisi dei pericoli speculari che un eccesso di liberismo avrebbe potuto scatenare sull'eguaglianza dei singoli e dei gruppi sociali.

La crisi del 1929 fu il tossico frutto degli eccessi di liberismo e lo stesso giudizio si può dare ed è stato già dato per quanto riguarda la crisi attuale. La risposta della rivoluzione rooseveltiana a questo problema, raccontata da Mario Einaudi, sta appunto nell'equilibrio che essa riuscì a stabilire tra i due principi di eguaglianza e di libertà che se non stanno insieme insieme periscono.

Purtroppo la crisi attualmente in corso sta registrando contemporaneamente due malanni: le diseguaglianze hanno raggiunto un livello-record; nel frattempo le istituzioni democratiche e i principi liberali sono anch'essi in declino, nuovi dispotismi stanno radicandosi senza che le nazioni (per usare il lessico di Tocqueville) reagiscano con sufficiente energia. Sembrerebbe che si stia intraprendendo la pessima strada dell'imbarbarimento sociale e culturale con il contemporaneo abbandono dei due principi di eguaglianza e di libertà.

Soprattutto di eguaglianza e qui bisogna approfondire l'analisi. Quando un anno fa scoppiò negli Stati Uniti la bolla dei 'subprime' immobiliari e il blocco del credito bancario che ne derivò, sembrò che le diseguaglianze economiche tendessero ad attenuarsi sia pure in presenza d'un impoverimento generale delle società opulente dell'Occidente. Il ribasso delle Borse, dei prezzi, dell'attività produttiva e dei profitti colpiva infatti soprattutto i ceti più abbienti in una misura inversamente proporzionale al reddito. Si trattava in buona parte di un impoverimento virtuale, almeno per quanto riguardava il crollo delle Borse: il valore dei patrimoni veniva falcidiato sulla carta ma le perdite non si verificavano se gli 'asset' restavano custoditi nei portafogli e non venduti sul mercato.
(24 aprile 2009)

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Commenti al Post:
panenero
panenero il 26/04/09 alle 18:46 via WEB
Purtroppo per noi, al tempo di Roosevelt andavano di moda le ottime teorie economiche di Keynes, favorevole all'intervento pubblico nell'economia, mentre oggi si raccolgono i frutti di quel cumulo di bugie che sono le teorie sul liberismo di Friedman.
 
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